LA SOSTANZA AFFETTIVA
LA SOSTANZA AFFETTIVA
Breve compendio sulle dipendenze
Tra le sostanze psicotrope più diffuse che creano maggior dipendenza organica ed emotiva, tra le più complesse da trattare in termini di tempi di psicoterapia, secondo una scala di difficoltà di trattamento, abbiamo al primo posto l’ eroina, a seguire, il crack, l’ alcool, la cocaina e in fondo alla scala la cannabis.
Esse richiedono un periodo di trattamento di psicoterapia mediamente lungo e statisticamente pari a tre anni per la prima, due per il crack e l’ alcool, un anno per la cocaina e per la cannabis; per tutte queste dipendenze il lavoro di psicoterapia deve essere condotto con continuità e senza interruzioni.
La dipendenza affettiva, risulta essere la più radicata e la più complessa da trattare, si pone al primo posto per il suo livello di difficoltà di trattamento e esattamente si pone prima dell’ eroina; per questo la definiremo, sostanza affettiva; essa infatti affonda le sue radici causali più profonde all’ interno della relazione parentale e si comporta come una vera e propria sostanza che viene assunta per gratificare quei sistemi di ricompensa mancati nella relazione affettiva originaria.
La dipendenza affettiva ha tutt’ altro che una dimensione razionale, essa va di gran lunga oltre quei processi del pensiero ed è complessa nel riconoscimento delle sue cause;
la sostanza affettiva risiede in meccanismi inconsci ed ombrosi, all’ interno di sfumature antiche, attentive ed affettive compromesse della famiglia.
La gamma dei sintomi determinati dalla sostanza affettiva sono numerosi e comprendono: fobie generalizzate, frustrazione per l’ assenza della figura affettiva, percezione del vuoto emotivo e sensazione di smarrimento, paura per la solitudine e per gli abbandoni, timore intermittente di perdere l’ oggetto amato, timore di essere rifiutato e il bisogno di rassicurazioni continue.
La dipendenza affettiva si confonde con l’ amore, ed è cosa molto diversa dall’ amore; la prima è caratterizzata dalla presenza evidente di un litigio continuativo, è conflittuale ed insostenibile;
i partners sono orientati prevalentemente nell’ imporre i propri bisogni in modalità ossessivo e manipolativa, dove il dipendente, il più delle volte, è sottomesso.
La dipendenza nasce dall’ accanimento di voler soddisfare i bisogni frustrati di un tempo. Voler soddisfare un bisogno determina il gap di non considerare mai, e non aver in mente, la persona interlocutrice, riscoperta in seguito come incongruente ed ingannatrice, solo dopo avere soddisfatto il bisogno.
L’ amore non è mai dipendenza affettiva, al contrario è un’ opera d’ arte che va contemplata per la sua poesia e la sua delicatezza, è gratuità di sentimenti, è autonomia dell’ uno verso l’ altro, è attesa, non coercizione o cospirazione, è paziente, comprensiva, guarda alla persona, non al progetto, esso viene tanto dopo, è orientato non al bisogno da soddisfare,ha stima, fascino per l’ altro, non fa contratti, compromessi, ne ricatti, non ha obblighi, è rispettoso e discreto, desidera, è passionale e compassionevole, dialoga ininterrottamente, si incanta, non litiga sempre, non comanda, non è mai direttorio, è umile, impara, ma, non insegna o conosce saccenza, non si erge, o si piega, copre, promuove, è protettivo, non usa imperativi, è stupito, è riparativo e devoto, sa chiedere scusa, è in preghiera per la meraviglia e se discute ne apprezza le differenze per evolversi.
La sostanza affettiva è una sabbia mobile che non ti permette mai lo slancio, le emozioni del bello, decreta la fine già dall’ inizio; procrastina, per la chiarezza torbida dell’ obiettività, è quel bisogno che rende cieca l’ oggettività; la sostanza affettiva proclama la fine di se e delle proprie risorse, tira fuori il peggio di se, da credere di non essere mai stati migliori; condanna alla prigionia dell’ altro, a sentirsi ripetutamente sbagliati ed errati; fa arrampicare sugli specchi dell’ impossibile e della malattia.
Ma come si struttura e da cosa nasce la dipendenza affettiva come una sostanza ? Le dipendenze da sostanze psicotrope hanno delle origini più ravvicinate di quelle affettive. Diciamo subito che le dipendenze in generale, si innescano all’ interno di quei circuiti dopaminergici, relativi ai meccanismi della ricompensa.
I bassi o I mancati stimoli delle ricompense affettive ambientali, inducono una ricerca esterna di stimoli compensativi surrogati, coadiuvanti e suppletivi, che creano ad essi la dipendenza. La sostanza affettiva rappresenta una sostanza di rimborso delle carenze attentive non soddisfatte.
Il nostro cervello necessita di produrre la dopamina, che è l’ ormone della gratificazione, attraverso stimoli specifici ambientali consoni. In assenza di tali stimoli ambientali affettivi specifici, il sistema adrenergico, si rifà sui sostituti “surrogati” dell’ ambiente, sostituendo lucciole a lanterne come mezzo di auto sopravvivenza.
Cosa manca ad un soggetto che soffre di dipendenza ? “LA PRESENZA”. Riempirà il malessere delle assenze, con la presenza e le premure di uno qualunque approssimativo surrogato, attraverso il contatto rassicurante di una comparsa o attraverso l’ euforia della cocaina, o tramite la parola di un ammalato di vuoti come lui, o attraverso l’ alcol, o attraverso la fame del come stai o attraverso la ludopatia per i giochi dell’ infanzia mai condivisi.
L’ assenza, genera il timore e la paura per la solitudine, per tutte le crisi abbandoniche subite. Una delle origini della dipendenza affettiva è la storia e il susseguirsi degli abbandoni subiti. Una relazione più è frustrante, più alto è l’ indice di insinuazione di una dipendenza, più si presentano stati paranoici e persecutori.
Attraverso i processi abbandonici, il dipendente sarà alla ricerca estenuante di un suo accuditore dedito e devoto, di un “badante”, di un infermiere che lo curi e lo ami, come quella cannabis che lo fa cedere accasciato tra le proprie braccia. La Dipendenza affettiva si equivale a tutte quelle crisi abbandoniche subite.
Un genitore, con le sue assenze e i suoi abbandoni, respinge il proprio figlio, si percepisce indesiderato, ma allo stesso tempo lo lega, lo vincola tra le mura domestiche, lo rende socio fobico, bloccato al suo utero, all’ interno di una relazione asfissiante e trasparente, lo lega nell’ attesa che arrivi prima o poi quell’ attenzione, uno slancio o un abbraccio, uno scorcio di sorriso, di una rassicurazione, o di un come stai.
La motrice primaria per liberarsi dalla dipendenza affettiva risiede innanzitutto:
1 nella consapevolezza di essere un dipendente affettivo,
2 nella comprensione dei meccanismi che lo legittimano ad un tale meccanismo patologico,
3 e nell’ investire energicamente su di se , su quegl’ interessi che stravolgono la propria esistenza che si definiscono attitudini.
giorgio burdi
ContinuaBuoni propositi e il ritorno alla normalità: Indole o destino ? Tutti alibi per non crescere.
Buoni propositi e il ritorno alla normalità: Indole o destino ? Tutti alibi per non crescere.
Prenditi cura di te come fa una mamma che segue nella notte il suo bimbo, nell’ aiutarlo a fare ciò che è.
Sono passati alcuni giorni dall’inizio dell’anno e già le bacheche dei social iniziano a spogliarsi degli auguri di nuova vita, dei pronostici superlativi per quello che verrà, dei rituali necessari al conseguimento della felicità. I parchi di ripopolano di runner, il reparto bio degli ipermercati si ripopola di nuovi clienti; trovano nuova vita gli edicolanti, gaudenti per le alte vendite delle riviste astrologiche.
Non succeda mai che le lenticchie non abbiano portato soldi, che la prima scopata dell’anno non sia foriera di altre piccanti avventure, che la mutanda rossa non garantisca fortuna e felicità. Di solito, come si può vedere, questa vocazione al buon proposito dura, in media, qualche settimana, poi l’anno nuovo inizia a risomigliare all’anno vecchio: stesso lavoro, stessi amici, stessa attività sessuale…
Rieccolo il destino cinico e baro che si ripresenta alla porta, scompensando tutti i progetti per la vita nuova brindata e auspicata. Gli errori iniziano a ripetersi, le risposte alla vita sono le stesse e nonostante sforzi e promesse di cambiamento, finiamo per convincerci che, in fondo, non cambierà mai nulla, perché il destino ha stabilito questo per noi. Il destino si trasforma così, in una destinazione, unica foce dove convergono i nostri giorni.
Pensare che, un tempo, la definizione di destino, non nascondeva tutte queste ombre di staticità, anzi, riconduceva ad un’idea di uomo, in continuo movimento tra le forze immense e potenti della natura. Destino deriva dal greco istemi = io sto. Ma questo “stare” non traduceva la passività, ma quella prorompente vitalità di essere nati tra la vita e la morte, tra ζωη (zoe), il continuo fluire della vita e βιος (bios), la naturale finitezza.
La civiltà greca intendeva la vita come una continua battaglia. Una lezione che ritroviamo nei tanti componimenti tragici giunti fino a noi: l’individuo è immerso nella sua finitezza, nella sua caducità, ma ciò che lo salva è proprio scegliere di non soccombere a questo destino.
La sua libertà risiede nel poter costruire il suo meglio: unica azione che lo libera e lo determina come uomo. Se ci pensiamo, non è poi un caso che Freud, padre della psicanalisi, abbia trovato nell’Edipo re di Sofocle, la chiave di lettura per interpretare nevrosi e isterie, la base teorica della sua scienza.
Nel proprio cammino psicoterapeutico sarebbe utile, rifarsi a questa idea di destino, non statica, ma vitale. Iniziare a comprendere che non esistono eredità passate immobili e immutabili su di noi, che non esistono eventi nascosti e oscuri, pronti a profetizzare i nostri errori, ma io solo, soggetto unico e singolare, che di fronte alla persistenza del fato avverso (la nevrosi, per definizione, è ciclica e replicata) agisco, decido, procuro una cesura, tra quello che fu e quello che sarà.
Però, sotto questo pensiero, resterebbe in piedi la teoria che chi ha una indole riservata, remissiva, non potrà mai cambiare il proprio destino, visto che è solo il fermo atto decisionale a svelare la nostra libertà. Ma parlare di indole è continuare a definire un passato che si ripete e si riassume in comportamenti che è possibile modificare, con la guida del terapeuta.
Ritornando al mondo ellenico, sulla facciata del tempio di Apollo, a Delfi era riportata la frase “conosci te stesso”. Per datazione non poteva rifarsi al concetto cristiano di anima e di coscienza. Conoscere sé stessi voleva dire, pena il mancato esaudimento della preghiera verso il dio, essere pienamente coscienti della propria precarietà e delle proprie possibilità. Concetto vicinissimo alla nostra idea di autostima, ma svuotato da tutti gli inutili corollari che, nel tempo, abbiamo saputo dargli.
Conoscere sé stessi, i propri limiti, le proprie capacità è poter iniziare a fare pace col proprio passato, con i rancori irrisolti, con le rabbie tenute dentro, con i nostri dialoghi incompiuti. È iniziare a costruirsi il proprio destino nel tempo. Dovremo aspettare, quindi, il 31 dicembre del 2020, per festeggiare daccapo? E cosa poi? Il nostro inizio o la nostra fine? Di certo, una soglia così breve non può contenere tutta la nostra capacità di speranza.
Tutto il tempo datoci è un’occasione seria, per dare senso alle cose. Per cercare ciò che va lasciato e ciò che va custodito. Sempre, continuamente, perseverando. Scegliere, decidersi, è la vita stessa a chiederlo. Qualcosa è giunta al tramonto, qualcosa nasconde i fermenti dell’alba. Non ci sono anni vecchi, non ci sono anni nuovi.
C’è il senso del nuovo. Semmai, se ci deve essere un augurio è che sia quello di trovare in questo nuovo, il tuo nome e una notte più chiara auto determinandoti, come una mamma segue il proprio bambino nella notte.
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