PER CONOSCERE SE STESSI bisogna tradurre i silenzi in parole
PER CONOSCERE SE STESSI
bisogna tradurre i silenzi in parole
Quando ci chiedono “ come stai ? “, molto spesso dinanzi ad una tale domanda rimaniamo attoniti, pensierosi. Come sto ? Boh, Spesso percepiamo gli estremi, il massimo del dolore o la gioia, per il mezzo non sappiamo rispondere, c’è quasi un vuoto di percezione.
Noi “stiamo” come stanno le nostre sensazioni ed emozioni, noi siamo le nostre stesse emozioni, esse sono caratterizzate da reazioni neuro fisiologiche potentissime, ma occulte e silenti, rappresentano la nostra intimità e raffinatezza. La sensibilità è il senso della nostra umanità, è saper leggere certe sottigliezze.
Abbiamo bisogno di imparare a scansionare di continuo le nostre reazioni veementi, discrete , silenziose emotive e percettive, per essere presenti all’interno della realtà in cui viviamo, per realizzare la massima consapevolezza di noi e del mondo che ci circonda.
Parliamo continuamente, in moto vorticoso, un linguaggio interiore silenzioso tutto da scoprire, al quale nessuna istituzione ci ha mai aperti o preparati, è dato per scontato, non si è creata la dovuta necessaria del conoscere se stessi a scuola.
A scuola studiamo da sempre gli oggetti del pensiero, la fisica la matematica, la letteratura ect, ect, ma non c’ è la materia “persona”, non è mai stata considerata un oggetto di studio il soggetto.
Conosciamo la giurisprudenza, la matematica, la medicina, la letteratura, ma noi no nella dimensione emotiva, dell’ anima, del pensiero sommerso, di tutti quegli atteggiamenti di affettività, di cattiveria che determinano le globali relazioni e le transazioni umane. Le relazioni umane e i loro interscambi risentono degli umori e delle emozioni soggettive.
Senza la conoscenza di noi, non saremmo abbastanza umani, saremmo solo dei puri tecnici, avremmo relazioni programmatiche e automatiche, materialistiche, superficiali, monotone, avremmo relazioni monologhe.
Spesso osserviamo un medico o un assistente sociale, un professore, privi di capacità relazionale umana ed empatia, un medico che cura il proprio paziente non può curarlo mantenendo le distanze da ciò che lo caratterizza, la sua natura umana.
L’ ipocondria e le malattie psicosomatiche infatti, hanno valenze emozionali e suggestive, come si potrebbe prescindere dall’ omettere le architetture emozionali ?
Leggere in noi significa leggere nel presente e nella nostra memoria.
Nella nostra genetica c’ è la storia di tutta l’umanità, abbiamo una catena elicoidale infinita di storie, in un filo invisibile di dna, conduttore generazionale. Esso ci collega alle radici della storia, essa è la catena trasportatrice, di memorie, di reazioni emotive, di paure, di vitalità, di atteggiamenti, sensazioni e comportamenti.
Nelle nostre generazioni ci sono i sintomi, le patologie, le funzionalità, depositate nei campi della nostra vita genetica. I terreni sui quali noi costruiamo, hanno radici neolitiche, paleontologiche e preistoriche.
Noi siamo la memoria del passato e contemporaneamente gli innovatori del divenire presente, siamo i depositari di una intelligenza storica e di un inconscio collettivo, siamo l’ acme dell’ evoluzione della specie e nella nostra specie e siamo passeggeri presenti col bagaglio del passato.
La congiunzione tra passato e presente avviene attraverso il concepimento, esso è il connubio della storia umana.
Curando noi, curiamo le nostre generazioni passate, e curando il nostro passato, ci curiamo nel presente. Noi stessi siamo gli evolutori del nostro futuro e delle generazioni in divenire. Conoscendoci e curandoci, facciamo dono delle nostre emancipazioni ai nostri figli e alle generazioni future, delle nostre conquiste. Il segreto dell’ evoluzione futura è nella cura e nella lettura di noi che ci emancipa.
giorgio burdi
ContinuaIL PROBLEMA È LA SOLUZIONE: istruzioni d’uso per curare le ossessioni.
IL PROBLEMA È LA SOLUZIONE.
L’ abbandono e l’ atrofia emotiva, generatori di ossessioni.
Una macchina perfetta, ecco come mi si poteva definire fino a qualche mese fa: sul lavoro prestazioni sempre al top, successi professionali, riconoscimento sociale, apprezzamento e stima da parte di amici e colleghi, forte senso del dovere, dedizione e abnegazione verso ogni tipo di responsabilità.
Apparentemente tutto impeccabile e gratificante, il giusto merito per tanto sforzo profuso e per il grande investimento fatto nel lasciare la mia città di origine dopo la laurea in ingegneria (conseguita ovviamente con il massimo dei voti) per accettare il meritato lavoro in una società prestigiosa nel campo di applicazione dei miei studi.
Avevo nel tempo orientato la mia vita verso questa direzione, facendo affermare involontariamente e forse inconsapevolmente quella parte di me logica e razionale a discapito di quell’essenza emotiva e istintiva che, per propria natura, è imperfetta, autonoma, libera da schemi e pregiudizi sociali. E tutto questo andava bene, mi sentivo bene, fino a quando realizzo di avere un problema.
Succede tutto sei mesi fa.
L’incontro con il mio fidanzato storico, con l’amore della mia vita, con colui che in passato avevo creduto sarebbe stato il padre dei miei figli, a distanza di diversi anni dalla rottura del nostro rapporto mi ha fatto fare i conti con un bilancio di vita personale che evidentemente non era così perfetto come inconsapevolmente mi convincevo che fosse.
La nostra storia (probabilmente tutti lo pensano della propria) era speciale: ci eravamo cercati negli anni, prima nell’adolescenza e poi da ragazzi adulti, ritrovati e riscoperti sorprendentemente ed eccezionalmente uguali a condividere la stessa idea di vita, ma purtroppo ci eravamo ‘dati per scontati’ e così i micro-obiettivi professionali che ci eravamo prefissati, e per i quali avevamo temporaneamente deciso di stare lontani, nel tempo ci avevano allontanato sempre più dal macro-obiettivo di stare insieme per sempre, la mancanza di condivisione di una quotidianità vera vissuta e di una prospettiva di vita insieme ci aveva portato a ferirci, odiarci, non facendoci ritrovare più, tanto ci eravamo fatti prendere dalle nostre vite separate che contemplavano un noi solo come rapporto a distanza, un noi nel presente, un noi senza futuro.
Quando mi ha lasciato ho patito le più grandi sofferenze della mia vita, e lui non faceva altro che alimentare il forte senso di colpa che mi portavo dentro per essere stata, apparentemente, l’elemento scatenante di quella rottura.
…Ma la vita per fortuna continua, con il mio ottimismo, la mia energia e l’affetto delle persone a me più care sono riuscita ad andare avanti, costruendo peró, un pezzettino dopo l’altro, una corazza invisibile che mi rendeva orgogliosamente immune al dolore per amore…
Qualche contatto avuto poi nel tempo con lui ci aveva fatto riscoprire più maturi, senza rancori e con i bei ricordi del passato sempre vivi, sebbene ormai con percorsi di vita distanti e forse divergenti, ma con la convinzione comunque che la nostra fosse stata una storia speciale.
Ma torniamo al nostro incontro di sei mesi fa: dopo uno scambio di messaggi buttati lì quasi per gioco decidiamo di trascorrere un paio di giorni insieme, così, senza aspettative, in virtù del grande affetto che ci lega, ‘per stare un po’ di tempo insieme e vedere come va.’
Be’, il nostro incontro ha riaperto in me sofferenze e ferite talmente sommerse e represse che fanno molto più male di quelle del passato, mi ha gettato nello sconforto, dal momento che, dopo giorni idilliaci in cui lui ha cominciato a rievocare le meraviglie del nostro rapporto, fa retromarcia e matura la saggia convinzione che tra noi non ci potrà mai più essere niente.
Ed io, che ero davvero partita per quei giorni senza aspettative, con un ‘vediamo come va’, ci sono cascata appieno, sottovalutando le mie debolezze e bastando quindi poco a farmi credere che un ‘noi’ potesse ancora esserci.
E così avviene l’ennesimo distacco dall’uomo che più ho amato nella mia vita. Nei giorni seguenti sono stata fermamente trattenuta dal cercarlo perché avevo lucidamente realizzato che
“non avrei sopportato un ulteriore distacco. E la paura di questo distacco, di qualsiasi forma di distacco, da persone e oggetti”,
comincia da lì ad avvinghiarsi a me, fa a pugni con la mia razionalità, prende il controllo della mia vita.
E così me ne torno a casa, logorata e sofferente, senza aria, disperata, e nella mia testa prende forma la consapevolezza che, dopo tutti questi anni di sacrifici ricompensati da eccezionali traguardi professionali raggiunti, mi ritrovo in una città che non è la mia, senza aver costruito una famiglia, attualmente senza tempo libero perché ‘incastrata’ in un lavoro super impegnativo che ha reso fertile il terreno affinché la mia emotività uscisse da questa vicenda distrutta.
E così la corazza stratificata nel tempo a causa delle delusioni e sconfitte del passato si è sgretolata in un attimo come un vaso di terracotta che, scivolandoci dalle mani, arriva al contatto con il suolo, da dentro è spuntata fuori una bambina indifesa, spaventata, una me che ha terribilmente paura di restare sola.
E allora, sopraffatta e ossessionata delle emozioni che avevo congelato per quasi dieci anni, decido, contro ogni mia passata diffidenza, di rivolgermi ad uno specialista che mi aiuti a decifrare – proprio a me che sono così brava a fare tutto e a dare saggi consigli agli altri… – il labirinto emotivo all’interno del quale non mi riesco più a districare.
E così accetto l’idea di aver bisogno anch’io di aiuto, di aver bisogno di un ‘decoder’ in carne ed ossa (lo dico con la massima stima verso il complicatissimo lavoro che il dottore sta facendo) che mi sta supportando nell’interpretare le ansie e paure che mi tormentano, ma soprattutto mi sta incoraggiando a espormi ed aprirmi ai sentimenti, anche se il mio io più profondo vede il rischio intrinseco, vede la possibilità di ulteriori sofferenze e ha difficoltà a lasciarsi andare verso una dimensione che da anni non è più la sua.
Dal confronto con i ragazzi incontrati in terapia di gruppo (anche lì dopo una prima fase di diffidenza verso una condivisione dei propri problemi) inizio a vedere sciogliersi il mio distacco verso gli altri, il pensiero assurdo che i problemi si devono superare esclusivamente con le proprie forze, apprezzo la genuinità e trasparenza dei ragazzi, tutti esposti a presentarsi per come sono, a tendere la mano, a non giudicare, ad aiutare anche senza volerlo.
Sto scrivendo tanto e di getto e mi rendo conto di non aver ancora chiarito che il mio obiettivo di questo percorso non è più riavvicinarmi al mio ex: ormai, se magicamente tornasse da me come il principe delle favole, non sarebbe quello che voglio e non mi renderebbe felice.
Dal nostro incontro in fondo si è attivato un meccanismo che, sebbene ora mi faccia stare male, sebbene io l’abbia visto e definito come ‘problema’, mi sta aiutando a mettere in ordine un po’ di cose, soprattutto a comprendere l’importanza di essere me stessa e non quello che gli altri vogliono che io sia: magari mi scoprirò un po’ meno perfetta, ma sarò felice di essere consapevole di me.
Stavolta almeno é cambiata la prospettiva, ho capito veramente che devo guardare in un’altra direzione che sia concentrata e sincera su di me.
E soprattutto, grazie alla terapia, ho compreso che la sofferenza e la paura dell’ abbandono, i sentimenti e le emozioni tutte, mascherate attraverso le ossessioni, vale a dire ciò che sei mesi fa mi sembravano il problema, di fatto sono la via verso la soluzione: sono comunque le mie emozioni che, per fortuna, esistono ancora e che mi fanno capire che non sono un robot e che c’è ancora spazio per amare, gioire, rischiare, sbagliare, vivere essendo libera di essere me stessa.
Quando recupero il tempo per me, colgo e lascio esistere l’ affetto profondo o meno, quando accolgo il mio “sentire” silente, i sintomi ossessivi non esistono più, come se non fossero mai esistiti.
C.
ContinuaESSERE CIÒ CHE VOGLIONO
ESSERE CIÒ CHE VOGLIONO
Vita e relazioni senza veli.
Nasco e cresco da due genitori che hanno come principale fonte di gratificazione il proprio matrimonio e i propri figli, interpretati come protesi delle proprie mancanze e del proprio essere.
Per loro, l’ unica fonte di realizzazione dell’ essere uomo/donna è attraverso la metamorfosi in marito-padre/moglie-madre.
Il danno maggiore causato dalla mia famiglia “proletaria” è stato il proiettare sui propri figli le aspettative che i miei genitori sognavano per se stessi.
Raramente mi è stato chiesto e mai è stata presa in considerazione la risposta alle domande: Cosa desideri? Cosa ti piace? Cosa vorresti? Ero di loro.
Non ero una persona, ero un figlio.
Un dipendente, un sottomesso ai desideri, piaceri e volontà dei miei genitori.
Vivevo in una famiglia piuttosto isolata: i miei genitori avevano pochi amici e quei pochi condividevano le stesse politiche sociali. Non avendo altri esempi o figure di riferimento, i miei genitori erano riusciti nel processo di addomesticamento. Il mio vero se è stato stroncato sul nascere.
Ero il figlio che ogni genitore impreparato e insicuro sogna: disponibile, assertivo, empatico, studioso, anticipatore dei loro desideri. La mia priorità era assecondare le loro aspettative.
I problemi del figlio che non dava mai problemi, iniziano quando fui costretto a confrontarmi con uno spaccato del mondo reale: la scuola.
Il periodo scolastico fu pervaso da furiosi scontri in ambito familare, scolastico e amicale. Solo ora ho la consapevolezza di esserne stato io la causa. Io, come individuo inconsapevole, ho cercato e creato lo scontro perchè non riconoscevo le persone che mi circondavano come attori compatibili e approvabili a partecipare alla mia vita. Ero disorientato.
Il vivere in modo isolato, con pochi contatti con la realtà aveva creato in me un idea di mondo diversa da quella che era realmente.
Paragonando la società al mare, io ero convinto di vivere in un golfo, ma mi rendo conto che io fino ad allora avevo vissuto in un acquario.
Perse le mie scarse e precarie certezze, mi chiusi in un periodo di completo isolamento in cui ho tagliato fuori dalla mia vita chiunque e spesso anche me stesso. Nel periodo che ho dedicato alla riflessione (con gli strumenti che avevo a disposizione) ho riconsiderato quali sarebbero stati i miei nuovi untori di verità da idealizzare, ai quali sottomettermi:
i privilegiati del liceo che frequentavo.
Volevo essere uno di loro. Provenivano da famiglie benestanti, avevano bei vestiti, frequentavano bei luoghi, avevano sempre soldi in tasca, non pagavano le conseguenze dei loro errori.
Soprattutto “loro” avevano i propri genitori sempre dalla propria parte, i miei invece, avevano reverenza nei confronti di qualsivoglia autorità.
Avrei riciclato e rottamato senza titubanza i miei genitori arroganti ed impreparati con i loro che all’ apparenza risultavano perfetti. Iniziai con il mimetizzarmi tra i miei coetanei, nella speranza di essere integrato nel gruppo “loro”.
Le auto limitazioni alimentari per corrispondere ad uno dei “loro” comandamenti: magro uguale bello, si trasformano prima in digiuni e poi in abbuffate con rigurgito.
Il processo durò poco perchè semplicemente non ero uno di loro. Mi mancavano sia i soldi che i loro usi e costumi.
Avevo ancora una volta perso la mia identità.
Non ero una persona, ero ancora un figlio. Figlio non più dei miei genitori ma di una ideologia alla quale così come i miei genitori, anche a lei non importava nulla di cosa desiderassi, cosa mi piacesse, cosa volessi.
Ero dipendente dalla dipendenza: imprigionato nella coazione a ripetere:
Scuola, lavoro, relazioni, amicizie, ho cercato e/o creato i presupposti perchè qualcun altro mi desse le linee guida da seguire per essere un bravo dipendente.
Questo circuito è andato in corto quando non ho più avuto qualcuno o qualcosa che mi desse la possibilità di essere un bravo dipendente.
A questo punto ho deciso di rivolgermi allo psicoterapeuta Burdi che mi ha consigliato la terapia di gruppo.
Entrare in una terapia di gruppo è come entrare in una nuova realtà. Quella autentica.
Questo debutto in questa nuova realtà è stato contraddistinto dalla variazione delle mie priorità.
Il primato detenuto dalla conformazione ha ceduto il posto all’ autodeterminazione.
I membri cercano di raccontarsi per quello che sono. Senza maschere, senza patinature, senza veli.
Nella realtà social fatta di filtri instagram e Photoshop, confrontarsi con l’ autentico è raro.
Durante questo percorso ho avuto la possibilità di capire e scoprire i pensieri ed il modo vero di essere e di pensare dei miei “compagni di viaggio”.
Generalmente i sintomi del malessere sono differenti ma le cause sono comuni ai membri del gruppo: essere stati velati. Nel momento in cui si da un consiglio al prossimo su come curare il proprio sintomo, lo si sta dando a se stesso.
Questo percorso mi ha portato alla consapevolezza che non sono più un figlio, sono una persona.
guido
ContinuaLA TERAPIA MORDI E FUGGI
LA TERAPIA MORDI E FUGGI.
Curarsi fai da te, senza impegno
Vi racconto un episodio: l’altro giorno ero in pasticceria, una signora continuava a non rispondere al ragazzo che la pressava perché ordinasse.
Niente, nessuna risposta, era ipnotizzata da un tutorial: “Come farsi le torte a casa e non andare più in pasticceria”. Scherzi a parte, comprendiamo tutti che stiamo cadendo nel ridicolo.
C’è un tutorial per ogni cosa: come pettinare il gatto, togliere un chiodo, come suonare la chitarra elettrica senza corrente, come auto concepirsi, come farsi un figlio in provetta, allungarsi il fallo, come catturare un ratto o operarsi d’ appendicite e seppellirsi da soli, praticamente come bastare a se stessi, come farsi un tutorial e via discorrendo. Non c’è più studio che tenga, ci sono i tutorial per curarsi. Youtube e Dr. Google sono la nuova “specialistica” .
I nativi digitali non me ne vorranno, non voglio togliere nulla a questo originale modo di apprendere, ma sono convinto che il tutorial: “come vivere senza problemi” non lo posterà nessuno.
I problemi vanno affrontati, nell’immediato, perché affinano in noi, quell’esperienza necessaria per non rincontrarli. Qualche anno fa, divenne famosa, in Ucraina, una sorta di terapia d’urto che prometteva soluzioni, quasi miracolose, per le nevrosi di ogni genere.
Consisteva nel seppellire i pazienti, per qualche ora, in una cassa, sotto pochi metri di terra. I risultati erano a portata di mano! La paura della morte scacciava via quella della vita!
Nessuno, però, dopo, ci ha informato della durata dei risultati. Non sempre la terapia d’urto è totalmente risolutiva, moltissimi pazienti, dopo qualche tempo ripresentano sintomi uguali alla patologia di partenza, peggioravano o ne elaborano un’altra con diversi esordi, con una simile eziologia.
La psicologia psicoanalitica, fin dai suoi esordi, si è proposta come un “cammino”, un accompagnamento del soggetto dentro e verso se stesso, perché in esso, come diceva Pontalis (Finestre 2002): “torni il gusto di vivere e le cose trovino il proprio sapore, perché sull’ostilità, sul rifiuto predomini almeno ciò che un pittore innamorato dei colori chiamava cordialità per il reale”.
Una terapia, insomma, che generi un urto nella vita di chi vi si sottopone. Un urto continuo che lo spinga a spostarsi dal suo personale e avvilente status-quo.
Corpo contundente, in questo caso, diviene la “parola”. Un mosto che continuerà a fermentare nell’animo, anche a seduta terminata. Un dialogo avviato in seduta che non è possibile interrompere e che ci segue dappertutto, in ogni situazione e scava, rivanga, rimescola il terreno delle nostre ansie, e rintraccia le cause, dissotterrando tutto quello che può essere utile alla nostra risoluzione.
luca
ContinuaSano egoismo
Il Sano Egoismo. Se ti prendi più tempo, ti rispettano.
Nella vita mi hanno insegnato ad essere “buona” “brava”, “bella” e “gentile” e per far ciò spesso ho dovuto mettere in secondo piano me stessa.
Non mi hanno mai detto pensa prima a te, ascolta il tuo animo per capire cosa ti rende felice, vivi in funzione di te stessa per piacerti, metti in primo piano i tuoi bisogni e le tue necessità, persegui ad ogni costo il tuo benessere che ti da’ serenità e ti aiuta a crescere.
A volte solo essendo fedeli a se stessi si può raggiungere quell’arduo obbiettivo che è l’equilibrio.
Il percorso è tutt’altro che semplice… perché volersi bene è così difficile? Forse perché ci si scontra con l’essere bravi, buoni, gentili e belli per gli altri?
Un giorno mi sono fermata, ho provato a dare ascolto a me stessa ed ho deciso: ora voglio vivere a colori !!
La mia felicità non renderà infelice qualcun altro .. pazienza, la mia allegria rattristerà qualcuno… troverò la forza per andare avanti, il mio entusiasmo creerà invidie e gelosie … me ne farò una ragione!!! Io, o come sempre gli altri ?
La mia libertà ha sempre determinato il dissenso e la prigionia altrui.
E così ho intrapreso il percorso di psicoterapia verso il mio “sano egoismo”, non è semplice, cado e poi mi rialzo e poi cado di nuovo, ma riesco ad alzarmi, ce la faccio ed ogni volta è meglio della precedente, mi sperimento che ci sono e funziona.
D’altra parte “ego” dal greco significa, “io esisto”, volersi bene, e non è un reato, ma un dovere nei propri confronti.
Gli altri prendono da me tanto più quanto io do a me stessa il mio tempo.
Uno che da soltanto, prima o poi si esaurisce, si consuma per l’altro è rischia di non essere più considerata. Se mi penso, mi carico di energie, e il mondo intorno, messo al secondo posto, ottiene di più da me, e riconoscendomi, mi rispetta.
Certo non ho ancora raggiunto tutti i colori dell’arcobaleno però ho una certezza: vorrei, anzi, voglio una vita piena e degna di essere vissuta nel rispetto degli altri ma prima di tutto nel rispetto di me stessa.
Aurora
ContinuaFa divertire il tuo cervello
Fa divertire il tuo cervello
Quanto ne gioverebbe il tuo equilibrio mentale se dedicassi al divertimento e al piacere tutte quelle ore che invece passi a rimuginare, a preoccuparti e a temere cose e situazioni che non sono ancora successe e che probabilmente non succederanno mai.
Uno degli errori più comuni che commettiamo da sempre ma che solo oggi ci rendiamo conto di quanto possa aver contribuito al nostro malessere attuale è quello di pensare al nostro corpo e alla nostra mente come a delle macchine perfette.
In realtà alla base dell’equilibrio psico-fisico di ognuno di noi vi sono dei principi fondamentali che regolano il nostro sano funzionamento.
In termini psicoanalitici questi istinti e bisogni che governano il nostro Io interiore vengono definiti con i nomi di due divinità greche: Eros e Thanatos, rispettivamente Dio dell’amore e Dio della Morte.
Eros sebbene richiami il concetto greco di desiderio amoroso – non si riferisce solo all’atto sessuale, ma al bisogno di tutto ciò che stimola il piacere umano, cioè la fantasia, la creatività, l’entusiasmo e il desiderio di vita, Al Dio Eros viene quindi attribuita quella parte del nostro IO legata al divertimento, all’attività fisica e al riposo dallo stress. Thanatos – si riferisce alla nostra parte razionale e inibitoria, che regola gli istinti per l’appunto di morte e di paura, non a caso luogo d’origine di tutte le nostre ansie e insicurezze.
Ora basta chiederti: quale di questi due istinti prevale nella tua quotidianità ?
In una società che ci vuole sempre più veloci, sempre più preparati e perfetti quanto tempo è rimasto per la cura dell’anima ? Per il piacere di un Hobby o della compagnia degli amici per farsi due risate ?
Eppure stiamo parlando di un bisogno che è fondamentale al nostro benessere quasi quanto il bere e il mangiare. Il nostro cervello ha il diritto e il sacrosanto dovere di divertirsi per poter funzionare correttamente.
Il tuo cervello è un muscolo che puoi allenare come qualsiasi altro muscolo del tuo corpo, se per tanto tempo hai concentrato le tue energie verso il lato negativo della tua esistenza, hai sviluppato un allenamento e un abitudine a pensare e comportarti in maniera tutt’altro che costruttiva.
Se riconosci in te questo tipo di comportamento sei sulla buona strada per il cambiamento.
Ricorda che hai il potere di costruire nuovi percorsi nel tuo cervello ma ci vuole più coraggio e pazienza di quanto tu possa pensare perché i tuoi vecchi schemi sono già ben sviluppati e sradicarli è un operazione che richiede tempo e perseveranza. Buon divertimento.
carmen
ContinuaArchetipi: Siamo tutti uguali.
ARCHETIPI
Pensieri ed immagini indicibili. Siamo tutti uguali
Ci vorrebbe poco per conoscere gli altri, basterebbe conoscere il nostro mondo sotterraneo indicibile, ammettere che siamo sempre in lotta con esso, accettarlo, per capire per quale motivo è insidioso o siamo invidiosi, in lotta e in competizione con gli altri.
La lotta contro gli altri, è la lotta contro il nostro indicibile, essa è all’ origine della paura per il giudizio.
Tutti siamo in modalità simile e differente da noi stessi. Gli altri sono la nostra poliedricità, come noi la loro, e insieme siamo la sintesi dell’ umana esistenza.
La nostra mente si esprime per immagini, che sono rappresentative del nostro inconscio ed esse sono universalmente presenti in tutti e condivisibili.
Ogni soggetto crede di essere unico, ma lo diventa, e pertanto crede di non essere in grado, o lo ritiene inopportuno, condividere le sue immagini intime. Ma le nostre immagini sono archetipi onnipresenti in ognuno e condivise o no, esse ci sono, e ci accomunano.
Ciò che ci fa differenti, è il livello della consapevolezza, relativa alla presenza degli archetipi in ognuno di noi, tale da non farci temere alcun giudizio nel poterli esprimere e nel poter essere noi stessi.
È la sola consapevolezza e il conseguente suo agito, che ci rende emancipati.
“Nessun uomo è un’isola, e le immagini archetipe sono rivelatrici della comune matrice umana, questa è la ’materia’ da cui è sorta la coscienza. Questa appartenenza al grande affresco del ciclo della vita è l’aspetto mitico della nostra vita.” [ Carotenuto ] .
Ognuno di noi viaggia cercando di scoprire quale è il proprio mito, per poi viverlo fino in fondo, nel bene e nel male, in tutti i suoi aspetti chiari e oscuri:
possiamo nascere in qualsiasi condizione sociale, con qualsiasi particolare aspetto fisico, ma l’unica cosa importante nella strutturazione di se stessi è la capacità di superare le “prove mitiche”, che sono le prove delle nostre ed altrui “immagini indicibili” , archetipe, cioè quelle prove esistenziali che le immagini dell’inconscio ci indicano come tappe ché hanno costellato il cammino di tutte le generazioni precedenti, il cammino dell’uomo in generale.
Viviamo temendo gli archetipi, ovvero temendo tutto ciò che è presente in tutti gli uomini, viviamo all’interno di continue prove quasi mitologiche, idilliache di sopravvivenza.
La lotta contro gli archetipi rappresenta la lotta contro l’uomo, essa è all’origine delle guerre inutili, guerre contro se stessi.
Sentirsi inseriti in una storia metaindividuale, conferisce una grandissima forza interiore, perché ci inserisce in un universo di significato di similitudini, un universo immaginale, di superamento della solitudine, di cui la psiche è testimonianza comune.
Bisogna imparare a guardare agli eventi in quest’ottica, rifacendoci alle leggende e ai miti, creazioni universali della psiche, per attingere dai loro simboli un insegnamento sempre valido e illuminante che ci rende favolosamente vicini.
Le componenti dell’animo umano sono universali e attraversano la storia trasversalmente, accomunando destini apparentemente lontanissimi tra loro, ci fanno pensare alla presenza di un inconscio collettivo.
Noi tutti siamo così vicini, più di quanto possiamo immaginare, solo che siamo intimoriti dalle nostre iconografie mentali e nel timore di essere giudicati, ci allontaniamo ed entriamo, come degli adolescenti, in continua competizione ed invidia.
Servirebbe una torre di buon senso e di libri interminabili da saggiare, per scalare noi stessi, per emanciparci dalle nostre caverne, per sentirci consapevolmente esseri umani, accomunati e sereni da poterci condividere.
giorgio burdi
ContinuaBenvenuto nello Studio di Roma
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Dr. Giorgio BURDI
Psicologo Psicoterapeuta
ContinuaLa Felicità Esiste
- Era come reimparare a respirare piano piano, e così di seguito, proseguendo con il mio coraggio e con la mia voglia di vivere…
Tutto è iniziato una mattina di giugno di qualche anno fa.Dopo essermi svegliato, lavato e sbarbato, iniziai a vestirmi per uscire di casa, prendere l’ auto ed andare di corsa in ufficio.
Ad un tratto mentre indossavo la camicia accusai improvvisamente dei forti dolori diffusi su tutto l’addome.
Non capendo di cosa si trattasse decisi di ritornare nuovamente in bagno, ma non accadde assolutamente niente.I dolori nel frattempo erano aumentati tanto da chiamare il medico di famiglia che mi consigliò di prendere degli antidolorifici e dopo circa due tre ore dopo e nonostante aver assunto i medicinali prescritti, i dolori all’addome aumentavano.
Decisi di richiamare nuovamente il medico che prontamente mi consigliò il ricovero in pronto soccorso.Mi diagnosticarono immediatamente una pancreatite acuta, ero gravissimo.
Nel reparto di Medicina dell’Ospedale, i medici iniziarono tempestivamente la cura e rimasi sette giorni e sette notti ricoverato, attaccato con due flebo nelle braccia e nel frattempo i dolori aumentavano lentamente fino a coprire tutto il corpo.
La notte del quarto giorno, nonostante la terapia iniziata, la temperatura corporea salì oltre i quaranta gradi, la vista iniziò ad annebbiarsi tanto che vedevo la stanza colorata di rosso, i dolori erano terribili tanto da non poter più muovere nessun arto. Pensai allora che la fine era arrivata.
Nelle ore successive nonostante la forte febbre ero lucido e il mio pensiero era rivolto principalmente alle persone e alle cose più care che in quel momento ricordavo ed amavo che temevo di perdere per sempre e non poterle più rivedere.
Mia moglie mi stava accanto, irresistibile piangeva come se fossi morto, ma la cacciai via.
Verso l’alba mi trovai nella fase più acuta della malattia decisi allora di reagire con la forza del pensiero e pensai di alzarmi per andare in bagno.
Cercavo di provare a me stesso che non era ancora finita poiché sentivo ancora di poter reagire psicologicamente.
Con gesti molto lenti e barcollando, senza nessun aiuto altrui, mi alzai dal letto e mi portai con uno sforzo immane nel bagno che era lì a pochi metri nella camera dell’ospedale, trascinando dietro l’asta con le due flebo attaccate nelle braccia.
Stremato ritornai a letto, avevo reagito e questo mi faceva star già meglio, iniziai a pregare e cosi mi addormentai di colpo per la stanchezza.
Al mattino, improvvisamente avvertivo un leggero miglioramento, era come respirare piano piano e così di seguito proseguendo con il mio coraggio e con la voglia di vivere e con la terapia, il malessere si convertì molto lentamente nella totale guarigione.
Era incredibile, il mio medico mi disse che riesce per due casi su cento.
Appena dimesso dall’ospedale la gioia di vivere era tale che assaporai, con un profondo respiro, come non mai, il profumo dell’aria fresca che mi avvolgeva, la voglia di camminare, la vista delle persone e delle cose che mi circondavano .
Ricordo che all’uscita dell’ospedale, la voglia di vivere era tanta che camminando a piedi verso casa, evitai di calpestare una piccola verde fogliolina accarezzata dal sole che era nata da una pianta sul marciapiede poiché mi resi conto che anch’essa era una vita e che aveva lottato per vivere.
Da questa triste esperienza oggi ringrazio maggiormente Qualcuno per avermi aiutato a capire che la vita va vissuta attentamente in tutti gli attimi, con gioia, con amore e con grande rispetto per gli altri e per tutte le cose del creato:
questa è la Felicità
Pippo
Grazie Pippo per il Tuo Immenso Regalo
giorgio
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Ciiao Pippo,
questa mattina, complice anche il tempo grigio, mi hai fatto scendere delle lacrime per la tua storia molto commovente, che grande ammirazione che provo per la tua persona!!
Come vedi è la forza d’animo e il crederci sempre che ci porta soluzioni positive. La felicità esiste ma ci ostiniamo ad apprezzare la
vita solo quando ci accorgiamo che sta per abbandonarci. Bravo Pippo!!!!
Rosalba
Continua