IL PENSIERO INTRUSIVO
Come eliminare il pensiero “intrusivo”
Prima credevo fosse impossibile, ora penso solo che sia difficile ma non impossibile.“ Eliminare” un pensiero intrusivo, ricorrente, di qualunque genere esso sia, non è impossibile.
Ho scoperto che battere il palmo della mano sulla tempia sperando che il pensiero esca dall’orecchio sotto forma di polvere, non è così astuto e risolutivo.
Come si fa? Purtroppo ancora non esistono medicinali, formule chimiche, qualche macchina che riesca a disinnescare questi meccanismi basati su ricordi e associazioni mentali. E allora come si può fare? Costringendo il pensiero e persuaderlo a pensare ad altro, anche se la tua testa non vuole farlo. È necessario depotenziare il muscolo dell’ ossessione, pensando ad altrettanto altro però funzionale.
Per poter effettivamente pensare ad altro, bisogna concretamente pensare e fare altro,, altrimenti il solo pensiero è troppo debole. Bisogna fare altro per rafforzare il pensiero che vogliamo inserire e per indebolire quello che vogliamo eliminare. Possiamo ad esempio sostituirli con le nostre passioni, reiterate sul pensiero intrusivo. Questa procedura si chiama riprogrammazione neuro psicologica.
Il trucco è cercare che questo “altro” sia fisiologicamente, a livello di ormoni, neurotrasmettitori coinvolti, più o meno potenziale allo stresso livello del pensiero intrusivo.
Adrenalina, serotonina, endorfine, e tanto altro, tutto concentrato a contrastare e a sostituire quello che si vuole eliminare.
Non basta farlo una volta ovviamente, perché il meccanismo deve essere reiterato tutte quelle volte che invade.
Più si fa, meno forza ha il pensiero intrusivo.
Da che era un pensiero costante, prima diventa qualche ricordo dissipato nella giornata, poi nella settimana, e poi solo qualche “flash” ogni tanto.
La nostra arma più grande è tentare tutte le volte di non concedergli spazio, fargli capire che hai la capacità di coinvolgere gli stessi processi chimici a livello cerebrale pensando anche facendo altro.
Il tuo organismo non si “ciba” solo di quello per sopravvivere.
A lungo andare, il pensiero intrusivo verrà sconfitto.
Eleonora Tegliai
laureanda in medicina
IL PILOTA AUTOMATICO
Evitare l’annientamento
Credici che puoi tirar fuori il massimo, investi. Se non investi non cambierà mai nulla. Provaci, nel qui ed ora, perché le cose possono cambiare dall’oggi al domani, da un istante all’altro, come uno switch mentale. Cerca l’elemento che frena l’emancipazione, che crea un senso di colpa. Qual è quell’autorevolezza, quell’ autorità a cui noi siamo sempre rinviati? Ognuno di noi può cambiare questi meccanismi, queste istituzioni mentali.
Riconoscere ciò che si contrappone tra sé stessi e il raggiungimento dei propri obiettivi, permette di essere presenti nel qui ed ora, di imparare a disattivare “il pilota automatico”, per sospendere i pregiudizi e riconoscere i propri pensieri nella realtà.
Possiamo introdurre così il concetto di “Mindfulness”, in italiano consapevolezza, presenza mentale. La Mindfulness si riferisce alla disposizione delle proprie risorse esclusivamente nel qui ed ora, in modo consapevole e non giudicante, all’osservazione dei propri stati emotivi e fisici, cambiando ciò che è possibile cambiare e accettando ciò che non è possibile cambiare.
Per fare ciò è importante anche rivalutare ed affrontare tutti quegli stati emotivi etichettati come “negativi” e “deleteri”, che ci fanno scappare, aumentare il ritmo.
L’ansia, la paura, l’incertezza, la mancanza di controllo, la rabbia.
Ma, perché corriamo? Perché questo tentativo incessante di occupare il tempo?
Rallentare nella frenesia, permette di vivere la pienezza dell’istante, di accettare le incertezze e rinunciare al controllo, di non temere il presente e le possibili vittorie o sconfitte.
A volte, l’incapacità di fronteggiare la propria emergenza emotiva si proietta in un’apparente iperattività. La dipendenza all’azione è un modo per evitare il confronto con noi stessi, per non ascoltarsi nel profondo. La frenesia continua ci pone a distanza di sicurezza e ci illude di avere il controllo sulla realtà.
Dunque, è opportuno domandarsi: cos’è che non vogliamo sentire? Da cosa sto sfuggendo e con che cosa non voglio un confronto?
Correre costantemente, senza essere mai veramente presenti, determina uno stato perenne di tensione e allerta, producendo alti livelli di ansia e stress. In questo modo il respiro si fa corto, i muscoli sono contratti e l’addome e teso. Il tentativo di fuggire dai propri mostri e/o di avere il controllo della realtà, fa perdere il controllo di quella che è la propria realtà.
“L’ansia anticipatoria o l’ansia per la perdita del fondamento dell’esistenza, è la paura della paura, della perdita di sostegno, della caduta nel nulla“.
Gli stati d’ansia e di agitazione si attivano alla percezione di una situazione potenzialmente pericolosa, in cui l’individuo mette in discussione il proprio “poter essere”. Dal punto di vista esistenziale l’ansia deriva dalla consapevolezza e dal timore di un possibile “annientamento”, dalla perdita delle proprie certezze ed istituzioni mentali. Vi è paura di “non poter essere”.
Come detto precedentemente, quindi, è importante cambiare ciò che è possibile cambiare, ma soprattutto accettare ciò che non è possibile cambiare. Essere presenti nella nostra quotidianità e assaporare la bellezza e il piacere nel frenare.
La facilità e la velocità nel fare una cosa non danno al lavoro durevole solidità né la precisione della bellezza.
— Plutarco
Francesca SCALERÀ
Laureata in Psicologia clinica e della riabilitazione- Tirocinante presso Studio BURDI
ContinuaIL PROBLEMA È LA SOLUZIONE: istruzioni d’uso per curare le ossessioni.
IL PROBLEMA È LA SOLUZIONE.
L’ abbandono e l’ atrofia emotiva, generatori di ossessioni.
Una macchina perfetta, ecco come mi si poteva definire fino a qualche mese fa: sul lavoro prestazioni sempre al top, successi professionali, riconoscimento sociale, apprezzamento e stima da parte di amici e colleghi, forte senso del dovere, dedizione e abnegazione verso ogni tipo di responsabilità.
Apparentemente tutto impeccabile e gratificante, il giusto merito per tanto sforzo profuso e per il grande investimento fatto nel lasciare la mia città di origine dopo la laurea in ingegneria (conseguita ovviamente con il massimo dei voti) per accettare il meritato lavoro in una società prestigiosa nel campo di applicazione dei miei studi.
Avevo nel tempo orientato la mia vita verso questa direzione, facendo affermare involontariamente e forse inconsapevolmente quella parte di me logica e razionale a discapito di quell’essenza emotiva e istintiva che, per propria natura, è imperfetta, autonoma, libera da schemi e pregiudizi sociali. E tutto questo andava bene, mi sentivo bene, fino a quando realizzo di avere un problema.
Succede tutto sei mesi fa.
L’incontro con il mio fidanzato storico, con l’amore della mia vita, con colui che in passato avevo creduto sarebbe stato il padre dei miei figli, a distanza di diversi anni dalla rottura del nostro rapporto mi ha fatto fare i conti con un bilancio di vita personale che evidentemente non era così perfetto come inconsapevolmente mi convincevo che fosse.
La nostra storia (probabilmente tutti lo pensano della propria) era speciale: ci eravamo cercati negli anni, prima nell’adolescenza e poi da ragazzi adulti, ritrovati e riscoperti sorprendentemente ed eccezionalmente uguali a condividere la stessa idea di vita, ma purtroppo ci eravamo ‘dati per scontati’ e così i micro-obiettivi professionali che ci eravamo prefissati, e per i quali avevamo temporaneamente deciso di stare lontani, nel tempo ci avevano allontanato sempre più dal macro-obiettivo di stare insieme per sempre, la mancanza di condivisione di una quotidianità vera vissuta e di una prospettiva di vita insieme ci aveva portato a ferirci, odiarci, non facendoci ritrovare più, tanto ci eravamo fatti prendere dalle nostre vite separate che contemplavano un noi solo come rapporto a distanza, un noi nel presente, un noi senza futuro.
Quando mi ha lasciato ho patito le più grandi sofferenze della mia vita, e lui non faceva altro che alimentare il forte senso di colpa che mi portavo dentro per essere stata, apparentemente, l’elemento scatenante di quella rottura.
…Ma la vita per fortuna continua, con il mio ottimismo, la mia energia e l’affetto delle persone a me più care sono riuscita ad andare avanti, costruendo peró, un pezzettino dopo l’altro, una corazza invisibile che mi rendeva orgogliosamente immune al dolore per amore…
Qualche contatto avuto poi nel tempo con lui ci aveva fatto riscoprire più maturi, senza rancori e con i bei ricordi del passato sempre vivi, sebbene ormai con percorsi di vita distanti e forse divergenti, ma con la convinzione comunque che la nostra fosse stata una storia speciale.
Ma torniamo al nostro incontro di sei mesi fa: dopo uno scambio di messaggi buttati lì quasi per gioco decidiamo di trascorrere un paio di giorni insieme, così, senza aspettative, in virtù del grande affetto che ci lega, ‘per stare un po’ di tempo insieme e vedere come va.’
Be’, il nostro incontro ha riaperto in me sofferenze e ferite talmente sommerse e represse che fanno molto più male di quelle del passato, mi ha gettato nello sconforto, dal momento che, dopo giorni idilliaci in cui lui ha cominciato a rievocare le meraviglie del nostro rapporto, fa retromarcia e matura la saggia convinzione che tra noi non ci potrà mai più essere niente.
Ed io, che ero davvero partita per quei giorni senza aspettative, con un ‘vediamo come va’, ci sono cascata appieno, sottovalutando le mie debolezze e bastando quindi poco a farmi credere che un ‘noi’ potesse ancora esserci.
E così avviene l’ennesimo distacco dall’uomo che più ho amato nella mia vita. Nei giorni seguenti sono stata fermamente trattenuta dal cercarlo perché avevo lucidamente realizzato che
“non avrei sopportato un ulteriore distacco. E la paura di questo distacco, di qualsiasi forma di distacco, da persone e oggetti”,
comincia da lì ad avvinghiarsi a me, fa a pugni con la mia razionalità, prende il controllo della mia vita.
E così me ne torno a casa, logorata e sofferente, senza aria, disperata, e nella mia testa prende forma la consapevolezza che, dopo tutti questi anni di sacrifici ricompensati da eccezionali traguardi professionali raggiunti, mi ritrovo in una città che non è la mia, senza aver costruito una famiglia, attualmente senza tempo libero perché ‘incastrata’ in un lavoro super impegnativo che ha reso fertile il terreno affinché la mia emotività uscisse da questa vicenda distrutta.
E così la corazza stratificata nel tempo a causa delle delusioni e sconfitte del passato si è sgretolata in un attimo come un vaso di terracotta che, scivolandoci dalle mani, arriva al contatto con il suolo, da dentro è spuntata fuori una bambina indifesa, spaventata, una me che ha terribilmente paura di restare sola.
E allora, sopraffatta e ossessionata delle emozioni che avevo congelato per quasi dieci anni, decido, contro ogni mia passata diffidenza, di rivolgermi ad uno specialista che mi aiuti a decifrare – proprio a me che sono così brava a fare tutto e a dare saggi consigli agli altri… – il labirinto emotivo all’interno del quale non mi riesco più a districare.
E così accetto l’idea di aver bisogno anch’io di aiuto, di aver bisogno di un ‘decoder’ in carne ed ossa (lo dico con la massima stima verso il complicatissimo lavoro che il dottore sta facendo) che mi sta supportando nell’interpretare le ansie e paure che mi tormentano, ma soprattutto mi sta incoraggiando a espormi ed aprirmi ai sentimenti, anche se il mio io più profondo vede il rischio intrinseco, vede la possibilità di ulteriori sofferenze e ha difficoltà a lasciarsi andare verso una dimensione che da anni non è più la sua.
Dal confronto con i ragazzi incontrati in terapia di gruppo (anche lì dopo una prima fase di diffidenza verso una condivisione dei propri problemi) inizio a vedere sciogliersi il mio distacco verso gli altri, il pensiero assurdo che i problemi si devono superare esclusivamente con le proprie forze, apprezzo la genuinità e trasparenza dei ragazzi, tutti esposti a presentarsi per come sono, a tendere la mano, a non giudicare, ad aiutare anche senza volerlo.
Sto scrivendo tanto e di getto e mi rendo conto di non aver ancora chiarito che il mio obiettivo di questo percorso non è più riavvicinarmi al mio ex: ormai, se magicamente tornasse da me come il principe delle favole, non sarebbe quello che voglio e non mi renderebbe felice.
Dal nostro incontro in fondo si è attivato un meccanismo che, sebbene ora mi faccia stare male, sebbene io l’abbia visto e definito come ‘problema’, mi sta aiutando a mettere in ordine un po’ di cose, soprattutto a comprendere l’importanza di essere me stessa e non quello che gli altri vogliono che io sia: magari mi scoprirò un po’ meno perfetta, ma sarò felice di essere consapevole di me.
Stavolta almeno é cambiata la prospettiva, ho capito veramente che devo guardare in un’altra direzione che sia concentrata e sincera su di me.
E soprattutto, grazie alla terapia, ho compreso che la sofferenza e la paura dell’ abbandono, i sentimenti e le emozioni tutte, mascherate attraverso le ossessioni, vale a dire ciò che sei mesi fa mi sembravano il problema, di fatto sono la via verso la soluzione: sono comunque le mie emozioni che, per fortuna, esistono ancora e che mi fanno capire che non sono un robot e che c’è ancora spazio per amare, gioire, rischiare, sbagliare, vivere essendo libera di essere me stessa.
Quando recupero il tempo per me, colgo e lascio esistere l’ affetto profondo o meno, quando accolgo il mio “sentire” silente, i sintomi ossessivi non esistono più, come se non fossero mai esistiti.
C.
ContinuaLa Gelosia Retroattiva e la Rivalità
La Gelosia Retroattiva e la Rivalità.
Il confronto, la competizione, fanno parte della natura umana. Esistono vari tipi di competizioni, ma credo che una sana, aiuti a migliorarsi e a superare propri limiti.
Ci sono invece quelle competizioni che durano anni, probabilmente da quando si è ancora bambini. Confronti, giudizi, raggiri, conflitti familiari, per i quali gli altri sono sempre migliori di te, non fanno altro che generare imbarazzi e vedere agli altri come competitors e acerrimi nemici.
Si avvia una formazione all’ inferioriorizzazione, screditandoci, a vantaggio di chi diventa il nostro inferno.
Questa formazione distruttiva, lascia tracce nella memoria della nostra autostima, tanto da pensare di se solo ciò che gli altri vedono di noi.
Le ruminazioni e le sensazioni associate a tali ragionamenti fanno si che la rivalità predomini e diventi ossessiva.
La gelosia retroattiva non è da riferirla alle circostanze presenti, ma ad esperienze passate con i nostri veri rivali.
Inizialmente prodotta nel passato dalla famiglia , la rivalità viene rivisitata e poi rimessa in vita nelle relazioni presenti.
Nel modo reiterato, essa perdura sotto forma ossessiva, Allora cosa si potrebbe fare o pensare, sottoposti ad un mantra in cui tutto il mondo sarebbe migliore di se ?
Pertanto, gelosia retroattiva e Rivalità rappresentano le due complici facce della stessa medaglia.
Uno schema di questo genere viene stampigliato nella mente da ricercare un qualsiasi rivale da sconfiggere, uno schifo da superare, i primi rivali che hanno innescato questo meccanismo, da permeare tutta la propria esistenza e gran parte del proprio tempo, è la famiglia, con le sue continue apprensioni, derisioni , insulti ed imbarazzi.
Ma la famiglia non é la sola causa, anche la scuola con i cosiddetti bulli.
Formati alle derisioni in famiglia, indebolito l’io, si subiscono altrettante derisioni e delusioni tra i banchi di scuola, tali da edificare quell’ “opera d’ arte” definita ossessione compulsione e la gelosia retroattiva con i rispettivi disturbi d’ansia, dell’umore e le esplosioni di rabbie.
Diventa arduo sentirsi bella, forte e migliore, si diventa insensibile ai complimenti. Contrastare un ossessione è difficilissimo, ma comprendere le radici e distaccarsene attraverso, la psicoterapia, rappresenta la cura che può guarire.
Reginella
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