IL DOVERE È MALATTIA
IL DOVERE È MALATTIA
Se la vita fosse questo fiore, apprezzeremmo ciò che ci rimanda nell’immediatezza, la sua bellezza, la sua luminosità, il suo colore cangiante, il suo profumo, il suo piacere, non il dovere di esistere.
Il dovere automatizza, genera autoctoni, automi, robotizza, softwarizza, è la negazione e la negoziazione del sé, della logica, se diventa stereotipia dell’ intelligenza; chiede a tutti lo stesso rigore, il dovere livella, sacrifica se stessi all’ altrui vantaggio, vive per tutti della stessa autorità, fa defluire nello stesso ovile, fa della creatività il suo falsificatore, mette in riga, fa tabula rasa delle fantasie, il dovere non sogna e non fantastica mai, taglia ogni forma di autonoma prospettiva.
Prima il dovere, dopo il piacere. Non c’è espressione più angusta ed ipocrita di questa affermazione, molto apprezzata nel periodo post bellico, in cui bisognava rimboccarsi le maniche per ricostruire lo scempio operato dalla follia della seconda guerra mondiale. Il dovere è una filosofia largamente divulgata, è un modo comune di pensare, di dire, un modo di fare solito, un atteggiamento cronicizzato di soffrire la vita. Nel dovere ti domandi sempre il perché, e se lo agisci, lo assecondi fintanto che resisti, e se lo fai fino all’ estremo, ti consumi e ti ammali, ti accorcia la vita.
Se prima viene il dovere, si parte al peggio, viene prima la fatica, il sacrificio, la croce, lo strazio, il logoramento, la stanchezza, la coercizione, non la motivazione e l’ entusiasmo, è una impostazione para educativa, la stessa scuola è stata improntata su questo modello arcaico; il dovere è un modo di essere che consoli la tradizione, un altare della patria, un campo santo che tragitta il gregge, intere generazioni in condizioni disumane, il dovere immola, inchioda su rigidità frigide ed istrioniche.
Il dovere è un comandante autoritario di un esercito senza arruolati, impartisce, crea obbedienti, non riflette, esegue, massifica, ha il dito puntato e impartisce il modo di agire, non devi pensare, verso l’ alienazione di sé. Il dovere fa ciò che i padri, i nonni, i bisnonni e la guerra hanno sempre fatto e deciso; crea una flotta di esecutori cecchini che, con l’ alibi del dovere, compiono crimini di guerra a loro giustificati, oppure orienta verso la buona condotta compiaciuta. Chi vive per il dovere, non vive della sua coscienza, ma di quella di chi non sa o anche di quella che giustifica il crimine.
Il dovere è un Boy Scout, un bravo ragazzone di una canonica fuori tempo e fuori mano, l’ uomo del dovere è cavallo e cavaliere della patria, ma è anche una persona nobile d’ animo che difende i valori e di grande dignità, di contro è anche un uomo d’ onore che ha i principi di un mafioso nascosto nel dovere, della buona e della cattiva condotta, è ambiguo, perché la pazzia è obbedire, frustrato, contro i suoi principi.
Il dovere è l’ oppio dei popoli, non esattamente la religione, anzi il dovere è una vera e propria religione, perché sincretico, criptico, assolutista, è una corrente di fanatismo. I fanatici del dovere e il movimento dei fanatici del dovere si pongono come una vera e propria istituzione e sono imperniati e ruotano su questo fantasma istituzionale.
L’ uomo del dovere è un uomo dispiaciuto, triste, accondiscendente, proiettato al servizio, possiede l’allarme rosso del senso di colpa, immolato verso la disponibilità, non si sa per quale valore o medaglia al merito, è alla ricerca di un misero consenso sociale, contro quel pensiero sovversivo del piacere, tentatore o peccatore.
Ma quale peccato ci sarebbe, laurearsi per il piacere di studiare o per una sete di conoscenza. Come nella “genesi” il desiderio di conoscere è già causa del peccato originale . I figli andrebbero messi al mondo per il dovere di procreare o per il piacere di amarli ? L’ amore e tutt’altro che dovere.
Una vita di doveri, diventa una vita di obblighi, impegni e responsabilità continue. Essi rappresentano la negazione dell’ affettività, generano anafettività; l’ anafettivo usa l’ alibi del dovere per giustificare la sua incapacità a manifestarsi emotivamente, esordisce dicendo ” ti voglio bene con i fatti, a cosa servono le parole d’ affetto ” ?
Il dovere è un manufatto, un artefatto preconfezionato, un surrogato di presenza. Il soggetto del dovere, è tecnico e distaccato, è un medico disumano, un ingegnere calcolaore, un esattore bancario, è freddo, ossessivo, perfezionista, un rompi cazzo normativo, ha solo in testa le regole da rispettare e se esce fuori dal seminato, si ammala, soffre per affetto mancato ed è per questo che non è in grado di prenderlo ne di darlo perché non ha conosciuto compassione, comprensione ed empatia.
Il discente che studia per dovere, distrugge il suo impegno, sbaglia tutto, scoppiato, molla a due passi dalla laurea, mentre scarabocchia disegni, le sue vere aspirazioni, a svantaggio del piacere. A volte le nostre distrazioni sono le vere nostre vocazioni, sono le vere strade negate dal dovere.
La donna che per bramosia anela alla sua maternità, concepisce la sua attitudine, poi lamenta il mutuo del suo dovere per tutta la vita. Dovrà rinunciare totalmente a se per i suoi pargoli, se diverranno il solo suo vero senso della vita e per questo li rovinerà per soffocamento.
Il dovere coniugale, come lo vogliamo chiamare ? Contratto d’ altare, abitudine a stare insieme, senza diritto all’ individualità, all’ autonomia ? Sarebbe una sottomissione, come un vero e proprio debito da pagare, o un mutuo di unione, o solo un obbligo. Cosa cambia, in tale prospettiva, rispetto alla molestia, o alla violenza domestica ?
Il dovere coniugale è la giustificazione perfetta alla paura di dialogare e di porsi nella verità. Il dovere è chiusura verso la sufficienza, rimangono solo ruoli, incastrati nella incapacità di mettersi in discussione.
Coloro che vivono di soli doveri e posseggono tali difficoltà, dovrebbero allora davvero avere il dovere verso se stessi di mettersi in analisi, un’ analisi che non sceglierebbero mai, perché riconoscono solo negli altri l’ errore e per questo, auto condannati alla propria eterna solitudine.
Se la vita fosse questo fiore, apprezzeremmo ciò che ci rimanda nell’immediatezza, la sua bellezza, la sua luminosità, il suo colore cangiante, il suo profumo, il suo piacere, non il dovere di esistere.
giorgio burdi
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