ATTACCHI DI PANICO: Come crearli e come curarli
ATTACCHI DI PANICO
Come crearli e come curarli
Forse è passato poco tempo. Forse ne è passato tanto.
Comunque adesso, i ricordi, si sono presi lo strano diritto di richiamare loro sentimenti e sensazioni, fissandoli in improvvisi flashback.
A volte, mi dico di esser stato fortunato nell’aver vissuto l’epilogo del mio matrimonio, da accatastato, come uno dei tanti pacchi di quel trasloco improvviso.
Si andava di fretta e, ogni camera di casa era stata sollecitamente smontata e liberata. Solo in due ci contendevamo lo scomodo affitto: io e il mio cane. Ci eravamo scavati un unico posto vivibile, in soggiorno. Da mangiare, pizza o scatolette e come letto, un divano.
Non so quantificare con precisione, ma credo di esser rimasto lì, stranito, per ore. Io a guardare la tv e il cane a guardare me. Attorno a noi, solo cartoni imballati. Si doveva restituire tutto e subito e qualsiasi proprietà era stata divisa simmetricamente; in maniera precisa, come è proprio della foga del concludere.
Forse è stato anche questo ad aiutarmi a prendere distanza dalla ferita degli eventi. Ero un vagabondo, tra avanzi degli altri, in cerca di qualcosa di buono. Avere davanti ai piedi (e al cuore) quei pacchi, mi costringeva a trovare una mia strada, tra le macerie.
Era estate. Proprio quella stessa, venne definita dai sismologi, una delle più interessanti riguardo i movimenti tellurici. Dopo decenni, la media delle scosse (anche non umanamente percepite), aveva sfiorato i 40 episodi al giorno. Uno ogni mezz’ora. Dicevano che, in situazione di emergenza, il fenomeno sarebbe stato devastante sulla psiche degli sfollati.
Poco dopo, le zone di Amatrice, Accumuli, Pescara del Tronto lo avrebbero confermato. Squadre di psicologi erano stati mandati a presidiare gli accampamenti degli sfollati, perché proprio durante le scosse di assestamento, i sintomi del panico, andavano a interessare quasi tutti gli ospiti delle tendopoli. Il terremoto aveva abbattuto le case, i muri, perfino la stessa concezione di rifugio, dato che non c’erano più luoghi sicuri, dove, appunto “re-fuggire”, terminare la corsa innescata dalla paura.
E’ questo il panico: trovarsi in mezzo ad una libertà assoluta e non saperla gestire. Un respiro più ampio che toglie il respiro, un battito più veloce che confonde il cuore, una realtà improvvisa e inaspettata, così ridondante, da sembrare irreale. Chi è attraversato dal DAP, generalmente conosce un bivio: o cercare di fuggire dall’evento traumatico (“meglio andar via di qui”) o rimanere, aggrappandosi al passato e cercando il familiare in ciò che è rimasto (“ricostruiremo tutto com’era”). Insomma, o si tende all’ipocondria, assumendo farmaci per ogni starnuto o ci si attacca, in modo morboso, ad alcune figure di riferimento (genitori, amici, compagni).
Credo la psicoterapia, individuale o di gruppo, aiuti a ricollocare, il paziente in mezzo ai cartoni dei ricordi, alle macerie della disfatta, alla frattura del fallimento; presentandogli il presente, seppur problematico e caduco, come luogo preciso della guarigione, della remissione dell’accesso. Infatti, si può dire che l’appanicatoviva tutti i tempi verbali, tranne proprio, quello dell’oggi.
I suoi sintomi si confondono tra passato codificato (“non ce la faccio”; “non è per me”; “non sono capace”) e un futuro tragico (“sverrò”; “impazzirò”; “morirò”).
Rituffarsi nel presente, vuol dire pazientare. Aspettare che si sedimenti la polvere, per gustarsi il panorama della maturità e dell’indipendenza. Qualità oggettivamente non raggiungibili per induzione, ma che richiedono il personale coinvolgimento per risorgere dalle ceneri.
Da quell’estate sono trascorsi anni, a volte mi sembrano secoli. Onestamente non so dire dove io sia adesso; una cosa è certa: attorno a me non trovo più cartoni e macerie. C’è, forse, una casa più povera, più silenziosa, più piccola, ma quello che c’è dentro, so che è mio e solo mio.
Il mio cane continua a fissarmi. Lui è fortunato, perché i terremoti li annusa prima.
A noi uomini spetta passarci in mezzo, per diventare più grandi.
Luca
ContinuaVivere a Colori
Vivere a colori, sul nero dell’ ansia.
Forse non l’ho mai fatto da quando sono nata, o forse sì ma non me lo ricordo….forse quando ero bambina, non lo so….di certo non “da grande”.
Il perché? Probabilmente non mi è stato insegnato o tramandato, ma solo oggi inizio a percepirlo a pieno. L’ansia e la depressione, mie “amiche” ormai da molti anni, mi hanno privato della ricca gamma di colori che la vita offre.
Troppe paure, troppi pensieri negativi, l’attesa come se debba arrivare una catastrofe sempre dietro l’angolo, una malattia, una morte di un caro se non la mia….quel panico che arriva e non so il perché, mi toglie il fiato, manda la testa in palla, s’impossessa di me e decide lui cosa fare….cioè niente.
Non posso guidare allontanandomi molto da casa da sola, non posso prendere un ascensore, non posso viaggiare in treno o in aereo tranquilla e serena nonostante l’obiettivo sia una vacanza, non posso farlo per tragitti lunghi che mi porterebbero in posti da me tanto desiderati.
Ma anche tra le mura domestiche qualcosa non funziona, ho paura di stare sola di notte, mi mette ansia un temporale, se ho tempo libero non riesco a rilassarmi, a dedicarmi senza fretta o sensi di colpa a ciò che mi piace, che mi fa bene.
C’è sempre qualcosa o qualcuno che viene prima di me, c’è sempre il giudizio dell’altro che chissà cosa pensa, chissà cosa dice, chissà se ci rimane male. Ed io dove sono? A che posto? Boh….forse non l’ho mai considerato, mai prima d’ora, perché solo dopo tanta sofferenza, tante lacrime, tante occasioni perdute, tanti silenzi, tanti vuoti, è arrivato il momento della scalata verso il primo posto.
Ora ho capito che si può fare anche se non ci credevo, ho capito che esistono un’infinità di colori che sono i piaceri, le emozioni, le sensazioni, positive e negative ma comunque vive.
Ho capito che non deve esistere il se condizionale, perché mi intasa soltanto la testa con mille paranoie, offuscandomi la visuale su quello che ho, su quello che sto vivendo e privandomi di me stessa.
Ho capito che posso percorrere 60 km guidando da sola senza che mi succeda nulla, ho capito che non è necessario essere sempre preparata e perfezionista e anzi, allentando la presa, le cose vengono meglio, posso anche permettermi di sbagliare e di dire di no.
Ho capito anche che posso e devo mostrare a mia figlia il bello della vita, i colori….senza i mille sensi di colpa né gli insostenibili sensi del dovere che mi hanno soffocata subito dopo esser diventata mamma.
Certo il traguardo è ancora lontano, vivere serena e senza ansie mi risulta ancora difficile…. ma una cosa è certa, voglio vivere a colori, voglio capire ed aprire la gabbia, voglio far esplodere me stessa e non restare una fotocopia in bianco e nero di me stessa.
Maria
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