LA PANCHINA
LA PANCHINA
e la quercia
Che bella siesta è la panchina, sfiniti, buttati, sciallati e sdraiati, forme adagiate su ergonomiche accoglienze. La panchina è una fermata gratuita per contemplare la pinacoteca della natura, ti accoglie sempre, è a braccia aperte, abbracci stradali, nei cortili nei parchi o nelle piazze, ne trovi sempre pronta una che ti chiami.
Se la vedi, ti chiede, fermati, vieni, lasciati andare, sono tua, come un mentore che vuole parlarti, aspetta, accasciati, non continuare, riposa su di me, hai diritto ad una pausa, a riflettere perché tu sei il senso. Io e te siamo il senso per cercare la serenità. Io sono il tuo legno di appoggio, ma tu la quercia anche se ti senti un filo d’erba.
Non può esserci un cammino senza sosta, senza fatica, ne stanchezza, senza frenata, senza incidente di percorso, senza blocco o senza il diritto di sbroccare. Chi si siede non è perduto ma si ritrova e si rigenera.
La panchina ti comprende, ti fa adagiare, ti ascolta, ti abbraccia, è una compagna amica che ti consola.
Accoglie le tue fatiche, le tue rabbie, le tue lacrime, le tue risate, i tuoi baci.
È davvero intima e non lo sa nessuno, protegge la tua privacy, è discreta, non ti giudica, è in assoluto silenzio ed ascolto, è ospitale, non ti chiede mai nulla, di accomodarti come una casa per chi non trova casa.
Quanti ne ho accolti, da chi non si sarebbe mai più rialzato, a chi per allacciarsi una scarpa, nessuno è più qui, sono andati, io sono meta di sosta di rilancio e ripartenza, io sono lo stop e lo start, e come loro, ti rialzerai, complice con me delle tue decisioni.
Ti ricordo che sei uomo, che ti stanchi, e se ti senti cencio o frantumato, come tutti, ma tranquillo, ti riprendi, ma posso confermarti che le noie, le angosce e i fallimenti, sono i gradini della vittoria.
La panchina ci obbliga a fermarci, a meditare, a riordinare, a fare una lista di priorità , a ridurre la corsa, a staccare il pensiero, a rallentare i passi, a godere la chioma dell’ abete sul capo, a sentire la brezza o la salsedine delle onde.
La panchina ci ricorda l’ essenza, che respiriamo, batte il cuore, che nel qui ed ora c’è vita, ci ricorda le priorità, fa da mediazione fra la notte e il giorno, è la convalescenza dopo una malattia, fa ripercorrere, i binari delle parole, il pentagramma della musica, i fotogrammi della vita.
La panchina non richiede un frac, ti accoglie spoglio, nudo, ricco o povero che sia, se ridi o piangi, se urli o taci, ti parla ed ascolta sempre nel suo tacere, non devi dimostrargli o dar conto di nulla. È l’ ossigeno, il rianimatore, l’ abbronzatura o l’incontro inaspettato.
Non c’è panchina senza infinito e libertà, senza un prato, un cielo o un mare, senza una piazza;
La panchina sono le vere persone, i veri, amici, la famiglia, Il gruppo, la squadra o l’analisi, i baci, gli abbracci, non ti giudica mai, sorride insieme, ti aiuta, ti fa alzare….. e ti lascia la mano.
giorgio burdi
ContinuaBuoni propositi e il ritorno alla normalità: Indole o destino ? Tutti alibi per non crescere.
Buoni propositi e il ritorno alla normalità: Indole o destino ? Tutti alibi per non crescere.
Prenditi cura di te come fa una mamma che segue nella notte il suo bimbo, nell’ aiutarlo a fare ciò che è.
Sono passati alcuni giorni dall’inizio dell’anno e già le bacheche dei social iniziano a spogliarsi degli auguri di nuova vita, dei pronostici superlativi per quello che verrà, dei rituali necessari al conseguimento della felicità. I parchi di ripopolano di runner, il reparto bio degli ipermercati si ripopola di nuovi clienti; trovano nuova vita gli edicolanti, gaudenti per le alte vendite delle riviste astrologiche.
Non succeda mai che le lenticchie non abbiano portato soldi, che la prima scopata dell’anno non sia foriera di altre piccanti avventure, che la mutanda rossa non garantisca fortuna e felicità. Di solito, come si può vedere, questa vocazione al buon proposito dura, in media, qualche settimana, poi l’anno nuovo inizia a risomigliare all’anno vecchio: stesso lavoro, stessi amici, stessa attività sessuale…
Rieccolo il destino cinico e baro che si ripresenta alla porta, scompensando tutti i progetti per la vita nuova brindata e auspicata. Gli errori iniziano a ripetersi, le risposte alla vita sono le stesse e nonostante sforzi e promesse di cambiamento, finiamo per convincerci che, in fondo, non cambierà mai nulla, perché il destino ha stabilito questo per noi. Il destino si trasforma così, in una destinazione, unica foce dove convergono i nostri giorni.
Pensare che, un tempo, la definizione di destino, non nascondeva tutte queste ombre di staticità, anzi, riconduceva ad un’idea di uomo, in continuo movimento tra le forze immense e potenti della natura. Destino deriva dal greco istemi = io sto. Ma questo “stare” non traduceva la passività, ma quella prorompente vitalità di essere nati tra la vita e la morte, tra ζωη (zoe), il continuo fluire della vita e βιος (bios), la naturale finitezza.
La civiltà greca intendeva la vita come una continua battaglia. Una lezione che ritroviamo nei tanti componimenti tragici giunti fino a noi: l’individuo è immerso nella sua finitezza, nella sua caducità, ma ciò che lo salva è proprio scegliere di non soccombere a questo destino.
La sua libertà risiede nel poter costruire il suo meglio: unica azione che lo libera e lo determina come uomo. Se ci pensiamo, non è poi un caso che Freud, padre della psicanalisi, abbia trovato nell’Edipo re di Sofocle, la chiave di lettura per interpretare nevrosi e isterie, la base teorica della sua scienza.
Nel proprio cammino psicoterapeutico sarebbe utile, rifarsi a questa idea di destino, non statica, ma vitale. Iniziare a comprendere che non esistono eredità passate immobili e immutabili su di noi, che non esistono eventi nascosti e oscuri, pronti a profetizzare i nostri errori, ma io solo, soggetto unico e singolare, che di fronte alla persistenza del fato avverso (la nevrosi, per definizione, è ciclica e replicata) agisco, decido, procuro una cesura, tra quello che fu e quello che sarà.
Però, sotto questo pensiero, resterebbe in piedi la teoria che chi ha una indole riservata, remissiva, non potrà mai cambiare il proprio destino, visto che è solo il fermo atto decisionale a svelare la nostra libertà. Ma parlare di indole è continuare a definire un passato che si ripete e si riassume in comportamenti che è possibile modificare, con la guida del terapeuta.
Ritornando al mondo ellenico, sulla facciata del tempio di Apollo, a Delfi era riportata la frase “conosci te stesso”. Per datazione non poteva rifarsi al concetto cristiano di anima e di coscienza. Conoscere sé stessi voleva dire, pena il mancato esaudimento della preghiera verso il dio, essere pienamente coscienti della propria precarietà e delle proprie possibilità. Concetto vicinissimo alla nostra idea di autostima, ma svuotato da tutti gli inutili corollari che, nel tempo, abbiamo saputo dargli.
Conoscere sé stessi, i propri limiti, le proprie capacità è poter iniziare a fare pace col proprio passato, con i rancori irrisolti, con le rabbie tenute dentro, con i nostri dialoghi incompiuti. È iniziare a costruirsi il proprio destino nel tempo. Dovremo aspettare, quindi, il 31 dicembre del 2020, per festeggiare daccapo? E cosa poi? Il nostro inizio o la nostra fine? Di certo, una soglia così breve non può contenere tutta la nostra capacità di speranza.
Tutto il tempo datoci è un’occasione seria, per dare senso alle cose. Per cercare ciò che va lasciato e ciò che va custodito. Sempre, continuamente, perseverando. Scegliere, decidersi, è la vita stessa a chiederlo. Qualcosa è giunta al tramonto, qualcosa nasconde i fermenti dell’alba. Non ci sono anni vecchi, non ci sono anni nuovi.
C’è il senso del nuovo. Semmai, se ci deve essere un augurio è che sia quello di trovare in questo nuovo, il tuo nome e una notte più chiara auto determinandoti, come una mamma segue il proprio bambino nella notte.
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