Psicoterapia Individuale
Nel secolo scorso i medici che si interessavano dei disturbi mentali lo facevano di testa propria, e ahimé, per certi versi accade ancora oggi.
Scrive infatti P. Pinel negli ultimissimi anni del 700: “è anche vero che, allorché uno tenti di formarsi dei principi sicuri sul regime fisico e morale dei folli, non sa assolutamente dove attingerli. I trattati di medicina si limitano alle osservazioni generali, e nei trattati specifici si trovano solamente osservazioni isolate…”.
Questa situazione non poteva aiutare lo psichiatra ad individuare un sistema terapeutico coerente. Molti operatori, nel rispetto delle persone, predicavano soprattutto la prudenza, ma non mancava chi continuava a mettere in atto pratiche terapeutiche di tipo empirico a dir poco aberranti, in un momento storico in cui pure si stavano facendo strada lentamente i presupposti che avrebbero portato alla scoperte della psicologia scientifica, della neurologia e della farmacologia del nostro secolo.
E. Esquirol, nel 1838, si scaglia contro certi modi “terapeutici” di qualche collega: “Si possono forse chiamare medicamenti quelle sostanze il cui impiego pare addirittura incredibile a quanti non sanno fino a che punto di degradazione può abbassarsi l’ uomo allorché è abbandonato all’ignoranza e ai pregiudizi?
È possibile credere che dei medici abbiano prescritto bicchieri di terra da mandar giù a digiuno, e poi polvere di zampa di alce e di tallone di lepre, e placenta dissecata di un primogenito, e raschiatura di cranio umano e di vertebre, e infine cervello disseccato d’uomo e di corvo? Hanno prescritto sangue umano ancora caldo, le ossicine dell’ orecchio di vitello, la spina dorsale di lucertola rossa dalle formiche, il cuore e il fegato di talpa, di rana e molte altre sostanze ancora, più o meno disgustose, più o meno assurde. Si crederà che, ai giorni nostri, qualcuno ha osato proporre di inserire un’ ametista sotto la pelle del braccio o di un altro membro quale specifico infallibile per curare disturbi mentali allora inspiegabili”. Che schifo, davvero assistiamo ad una medicina vissuta come un’ arte propiziatoria, totemica, magica che si perde nel confine tra magismo e tentativo di scientismo, commercializzandosi con approcci paraterraterapeutici di indiscussa origine delirante…
Roba “da matti ed unicamente per i matti”. Per quell’ utenza indifesa di minori e per questo ”giustamente meritevole” di abusi su chi non possiede il potere oppositivo. Che tempi, ci auguriamo, fortunatamente andati…
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Definizione
Psico-terapia, infatti, viene dal greco “psichè” (anima, soffio vitale) e “therapeia” (cura): in senso esteso “fare psicoterapia” significa quindi “prendersi cura dell’anima”.
per moltissime persone, e sfortunatamente anche per vari psicoterapeuti e le loro scuole, parlare di “psicoterapia” significa parlare della “cura di una malattia della mente”. Come risultato, si pensa alla psicoterapia come ad un procedimento lungo, magari noioso, in cui il cliente è il “malato” e il terapeuta “lo cura”; qualcosa destinato fondamentalmente a chi sta male, a chi ha “qualcosa che non va”.
Niente di tutto questo, o almeno certamente non solo questo!
La psicoterapia è un percorso, un viaggio dell’anima, che può benissimo essere intrapreso da persone che stanno già bene con lo scopo di imparare a stare ancora meglio. E’ una “messa a punto” del sistema mente-corpo, per migliorare la qualità di qualche aspetto della vita quotidiana. Il nostro secolo ha visto anche il fiorire di numerose teorie nell’ambito della psicologia scientifica, che hanno portato a individuare tecniche di intervento psicologico per il trattamento dei disturbi emotivi e della personalità.
Queste tecniche vengono normalmente fatte rientrare nel termine “psicoterapia”.
La psicoterapia, che fa parte oggi del bagaglio tecnico-professionale dello psicologo psicoterapeuta, ma che viene usata spesso anche dallo psichiatra, come conseguenza della sua “conversione” alla possibile spiegazione psicologica e ricerca delle inevitabili cause di certe forme frequenti del disagio mentale, si concretizza in un processo interpersonale, stabilito, di solito, sulla base di comunicazioni verbali, volte ad affrontare le situazioni di sofferenza, a modificare il comportamento o addirittura la struttura della personalità di chi è portatore della sofferenza stessa.
Da sempre l’uomo si è reso conto che il rapporto positivo tra due persone comunica un senso di benessere e molte culture e civiltà hanno scoperto presto che esso può necessariamente condizionare l’evoluzione delle malattie.
Non a caso, infatti, le cure mediche che troviamo nella tradizione di molti popoli, fondate su significati di tipo magico e religioso, e quindi con una grande carica suggestiva, erano, e in molti casi lo sono ancora, di suggestione psicologica.
Psicoterapie
La legge italiana prevede che lo psicoterapeuta sia in possesso di una laurea in Psicologia o in Medicina e Chirurgia e abbia frequentato un corso di specializzazione almeno quadriennale, il cui statuto preveda un’adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, in una scuola di specializzazione universitaria o presso istituti riconosciuti in base a una specifica normativa di legge.
Lo psicoterapeuta, a differenza dello psicologo clinico, che auspicabilmente dovrebbe essere esclusivamente psicologo, può essere sia psicologo, che medico.
Se psicologo, lo psicoterapeuta ha, dopo essersi laureato e abilitato, conseguito la specializzazione e la qualificazione in psicologia clinica e psicoterapia, il che significa che oltre agli approfondimenti specialistici propri della specializzazione clinica, egli ha seguito per anni una formazione qualificante specialisticamente psicoterapeutica, in uno dei vari indirizzi della psicoterapia.
In particolare, inoltre, per divenire psicoterapeuta, egli si è sottoposto per anni ad un’analisi personale, sia per sperimentare in prima persona su di sè l’applicazione della psicoterapia e sia per individuare e risolvere le proprie discrasie psicologiche, prima che gli venga consentito di cominciare a seguire dei pazienti. Da alcuni anni in Italia questo percorso è stato regolamentato per legge, per cui attualmente la specializzazione e la qualificazione in psicoterapia, dopo la laurea, possono e devono essere conseguite, sia presso le scuole di specializzazione universitarie e sia presso le scuole private che abbiano ottenuto il riconoscimento dallo Stato. In ogni caso, durante la fase finale di formazione, il futuro psicoterapeuta normalmente comincia a seguire i primi pazienti sotto la supervisione dei didatti e normalmente è prassi diffusa e in alcuni casi obbligo, che il terapeuta già qualificato, si sottoponga a supervisione clinica e personale, periodicamente, per tutta la sua vita professionale. Inoltre egli deve costantemente mantenersi aggiornato nel vasto campo delle neuroscienze, quasi sempre essendo membro di istituzioni scientifiche a carattere internazionale.
Se medico, lo psicoterapeuta segue dopo la laurea e l’abilitazione, esattamente lo stesso percorso già descritto per lo psicologo. Nel suo caso, però, gli è possibile, oltre che conseguire la specializzazione in psicologia clinica, scegliere di conseguire in alternativa la specializzazione in psichiatria o altro. Per cui lo psicoterapeuta psicologo è esclusivamente psicologo-clinico-psicoterapeuta, mentre lo psicoterapeuta medico è medico-altra specializzazione varia-psicoterapeuta. Ovviamente per il medico è fortemente consigliato, se vuole validamente qualificarsi in psicoterapia, seguire dopo la laurea esclusivamente psicologia clinica o psichiatria, specialmente perchè a differenza dello psicologo egli proviene da un corso di studi universitari, che per la loro organizzazione, lo hanno praticamente lasciato del tutto ignaro anche dei minimi fondamenti, non solo della psicologia, ma anche della psicofisiologia, cioè lo studio del cervello psichico. Infatti quasi sempre il medico mantiene la visione del cervello e del sistema nervoso centrale, soltanto dall’ottica neurologica e ciò lo rende spesso poco preparato e inadeguato nella diagnosi e nel trattamento delle malattie psicosomatiche.
Una volta formatosi, lo psicoterapeuta, da qualsiasi delle due facoltà universitarie provenga, è uno specialista qualificato alla diagnosi e cura dei disturbi psichici e delle malattie mentali. Poichè nella maggior parte dei casi il trattamento dei disturbi psichici e delle malattie mentali, richiede la somministrazione binaria sia della psicoterapia che della psicofarmacoterapia, ovviamente lo psicoterapeuta psicologo deve affiancarsi ad una o più figure mediche. Ciò non significa, comunque, che lo psicoterapeuta psicologo non sia competente sul versante biologico dei disturbi e delle malattie che tratta, ma significa che, non essendo medico, non può stabilire in proprio nè diagnosi, nè terapie, quando implicano anche valutazioni di medicina generale o specialistica. Per questo deve avvalersi della collaborazione di medici. Lo psicologo psicoterapeuta comunque è in grado di eseguire autonomamente le anamnesi, cioè le indagini cliniche che possano condurlo competentemente al “sospetto diagnostico”, cioè a sospettare le variabili per la diagnosi differenziale, in modo da potere interagire competentemente con il medico del quale si avvale della collaborazione. Questa competenza dello psicoterapeuta psicologo, è indispensabile affinchè possa essere evitato il rischio di intrattenere in monoterapia psicoterapica un paziente che potrebbe invece giovarsi tempestivamente del supporto degli psicofarmaci, o di altre terapie mediche. Oppure per evitare che disturbi psicologici con eziologia primariamente organica, vengano trattati eludendo la malattia somatica che li produce. Inoltre questa competenza da parte dello psicologo psicoterapeuta è indispensabile, affinchè la somministrazione degli psicofarmaci, spesso necessaria durante la psicoterapia, non avvenga da parte del medico in funzione isolata rispetto alla contemporanea psicoterapia. Anzi, lo psicologo psicoterapeuta deve essere in grado di valutare autonomamente, circa gli psicofarmaci, ipotesi sulla categoria farmacologica, la posologia, la combinazione e la durata del trattamento e inoltre circa le varianze osservabili relativamente all’interazione fra i farmaci e gli accadimenti in psicoterapia. Queste sue ipotesi autonome, che deve essere in grado di produrre con competenza indipendente, saranno condivise con il medico affinchè questi, a sua volta, possa fare le altre valutazioni mediche necessarie e di sua competenza, per passare alla fase pratica della prescrizione che, in ambito psichico, non deve mai essere un atto isolato del medico.
Lo psicoterapeuta medico, in linea puramente teorica potrebbe anche agire in modo soggettivamente isolato nei vari passaggi descritti nel paragrafo precedente, poichè potrebbe coagulare in sè sia la figura psicoterapeutica, che medica. Ciò, pur essendo teoricamente possibile, è, da un punto di vista clinico, fortemente sconsigliabile, se non addirittura errato e controproducente. Infatti l’efficacia del trattamento psicoterapeutico, si fonda su una moltitudine di fattori, uno dei quali è il fatto che lo psicoterapeuta deve rimanere rigorosamente una figura di riferimento con cui condividere ed elaborare i contenuti e i processi mentali e, qualunque sia il metodo e la tecnica dello psicoterapeuta, è fondamentale che le questioni circa le situazioni, l’ambiente, gli eventi quotidiani del paziente, restino in secondo piano rispetto ai contenuti e ai processi mentali, nel senso che esse devono essere trattate soltanto come elemento di riferimento per giungere subito ai contenuti e ai processi mentali coinvolti con quelle situazioni o eventi. Altrimenti la psicoterapia si deforma e si trasforma rapidamente in una qualsiasi forma di consulenza, o peggio, di chiaccherata sulle varie situazioni, per esordire in consigli, pareri, conforto e così via.
Se accade questo, non c’è più psicoterapia.
E’ dunque evidente che se lo psicoterapeuta medico fa anche il medico con il paziente che segue in psicoterapia, inevitabilmente si trasferisce dalla mente al corpo, agli oggetti reali del quotidiano, deve praticamente intervenire nel mondo reale del paziente e offre a questi un pretesto formidabile per contaminare continuamente le sedute di psicoterapia, con questioni organiche, farmacologiche, familiari e situazionali, organizzative, implicando spesso altri familiari nelle visite e nelle cure e così via. In pratica lo psicoterapeuta medico deve scegliere con ogni paziente se essere il suo psicoterapeuta, o il suo medico, evitando con molta attenzione di essere ambedue insieme. Queste considerazioni implicano la conclusione circa il fatto che è indifferente che lo psicoterapeuta sia psicologo o medico: egli deve essere comunque un bravo psicoterapeuta, con serie competenze psicologiche e psicobiologiche, nel momento diagnostico e psicofarmacoterapeutico. Per tutto il resto deve intervenire un altro medico con il quale lo psicoterapeuta deve interagire nei modi già descritti.
Nonostante l’attuale situazione formativa, universitaria e post universitaria, in Italia vi sono sicuramente molti psicoterapeuti affidabili, più di quanti ne formerebbe l’organizzazione universitaria attuale. La buona qualità degli psicoterapeuti italiani è stata data, finora, dalla buona volontà e intraprendenza dei singoli, i quali hanno perfezionato la loro preparazione, oltre l’iter previsto, a proprie spese e spesso servendosi di istituzioni private e residenti all’estero. Ciononostante è urgente una drastica riforma universitaria e post-universitaria, poichè resta alto il rischio di avere psicologi psicoterapeuti scarsamente preparati sul versante psicobiologico e medici psicoterapeuti scarsamente preparati sul versante psicologico.
Lo psicoterapeuta e lo psichiatra, sono due figure da distinguere nettamente.
Lo psichiatra non è uno psicoterapeuta.
Significato
E’ il Trattamento del disagio psicologico per mezzo di tecniche che riguardano prevalentemente la comunicazione verbale ed emotiva e altri comportamenti simbolici. È difficile delimitare con sufficiente precisione il concetto di psicoterapia, a causa della molteplicità delle tecniche raccolte sotto questa etichetta comune, molte delle quali tuttora in via di sviluppo e di verifica. In termini generali, si può definire la psicoterapia come una sistematica interazione verbale o simbolica di un terapeuta con uno o più pazienti, guidata da un certo numero di concetti relativi a una teoria della personalità e volta a produrre un cambiamento positivo nel paziente. Il richiamo a una teoria della personalità e alla sistematicità dell’intervento terapeutico consente di escludere dalla definizione i trattamenti fatti per istinto, intuito, arte, fede o per una qualsivoglia motivazione umanitaria. Benché non si possa negare che anche questi ultimi producano talvolta – o persino frequentemente – benefici effetti, si preferisce infatti riservare la dizione di psicoterapia alle tecniche la cui capacità di indurre cambiamenti positivi è riconducibile a specifici, selezionati e controllabili fattori terapeutici, piuttosto che a una generica influenza benefica. Il dibattito sull’identificazione di questi fattori terapeutici è tuttora assai vivace fra gli esponenti delle diverse scuole, anche perché alcune recenti pubblicazioni statunitensi hanno identificato ormai più di 400 tipi di psicoterapie differenti.
Psicoterapia Individuale
Si basa sulla teoria e sulla tecnica psicoanalitica, che sono state formulate da Sigmund Freud.
Sigmund Freud
Influenzato dalle lezioni di Jean-Martin Charcot, che dimostravano l’efficacia terapeutica dell’ipnosi, Freud utilizzò inizialmente questa tecnica per fare emergere nei pazienti nevrotici i ricordi dolorosi e sepolti nella memoria, che riteneva essere alla base dei sintomi. Egli presupponeva che nel corso dello sviluppo dell’individuo, le pulsioni (i desideri e gli impulsi) sessuali e aggressive, inaccettabili, dovessero essere estromesse dalla coscienza. La pressione di questi desideri estromessi (o rimossi) si traduceva spesso nella formazione di sintomi nevrotici. Attraverso l’ipnosi, Freud si proponeva di riportare alla coscienza tali impulsi e, in questo modo, eliminare i sintomi. Quando si rese conto che questo non accadeva, formulò una nuova tecnica di trattamento, che chiamò delle libere associazioni. Chiedeva ai pazienti di riferire quanto veniva loro spontaneamente in mente quanto a sogni, fantasie e ricordi. Interpretando queste associazioni spontanee, Freud aiutava i pazienti ad acquisire consapevolezza dei propri desideri inconsci e, quindi, a renderli più accettabili. In seguito, egli si occupò di quello che chiamò transfert, vale a dire la risposta emotiva del paziente al terapeuta, che Freud considerò rappresentativa dei primissimi rapporti instaurati dal paziente con i membri della propria famiglia. La tecnica delle libere associazioni e l’analisi del transfert costituiscono tuttora le caratteristiche peculiari del trattamento psicoanalitico freudiano, che si svolge in un arco di tempo di durata variabile, con una frequenza di sedute che può variare dalle tre alle cinque alla settimana.
Scuole psicoanalitiche dissidenti da Freud
Alcuni degli allievi di Freud entrarono in disaccordo con lui su punti molto importanti della teoria e della tecnica di trattamento e, di conseguenza, fondarono scuole proprie, ancora esistenti.
Carl Gustav Jung
Carl Gustav Jung, psichiatra svizzero, riteneva che Freud avesse attribuito eccessiva importanza agli istinti sessuali come origine del comportamento e che il requisito della salute mentale fosse la realizzazione delle potenzialità interiori (di origine non sessuale) dell’individuo. Nel corso di un’analisi a orientamento junghiano, il terapeuta aiuta il paziente a riconoscere le proprie risorse interiori e a utilizzarle per la crescita e per fare fronte ai conflitti. La frequenza delle sedute varia a seconda della fase (iniziale o progredita) del trattamento, la cui durata è variabile. Le tecniche utilizzate sono molteplici e spesso includono riferimenti all’arte e alla cultura per indurre nel paziente le immagini inconsce (archetipi), che per Jung costituivano degli elementi universali, cioè condivisi da tutti gli esseri umani in tutte le civiltà.
Alfred Adler
Anche Alfred Adler, psicologo austriaco, dissentì sul ruolo degli istinti sessuali nell’origine del comportamento. Egli riteneva che la condizione del bambino all’inizio della vita, piccolo e bisognoso di aiuto, producesse sentimenti di inferiorità, ai quali alcune persone reagivano sforzandosi di raggiungere la superiorità sugli altri. Questa ricerca di potere è in contrasto con ciò che Adler chiamò “interesse sociale”, vale a dire la possibilità di provare simpatia e di identificarsi con le altre persone. Secondo Adler, i disturbi mentali dipendono da un modo di vivere scorretto, in quanto basato su opinioni e obiettivi erronei e in cui non può svilupparsi un interesse sociale. Ruolo del terapeuta è quello di rieducare il paziente a riconoscere i propri errori e a sviluppare maggiormente il proprio interesse sociale.
Psicoterapia di Gruppo
La psicoterapia di gruppo nacque in Europa e negli Stati Uniti nella prima metà del XX secolo. Con il termine oggi ci si riferisce alle modalità con cui la terapia si svolge (un terapeuta per più persone) e non a una tecnica specifica: questa può essere mutuata da diverse teorie (psicoanalitica, gestaltista ecc.). La principale fonte di cura e cambiamento è costituita dalle relazioni tra i membri del gruppo; il terapeuta ha il ruolo di incoraggiarle e guidarle.
Dall’Individuale al Gruppo
Molte volte il decorso psicoterapeutico si evolve con il cambiamento di assetto di seduta: dalla seduta individuale, alla seduta di gruppo. Ciò avviene, quando indicato, in una fase avanzata della terapia, dopo avere analizzato il suo significato nelle sedute individuali e sempre subordinatamente all’accettazione del paziente.
Il passaggio dalla psicoterapia in seduta individuale alla psicoterapia in seduta di gruppo, rappresenta una evoluzione migliorativa. Infatti raramente una persona può entrare in un gruppo già all’inizio del trattamento, anzi, questo è spesso controindicato. Quando invece il paziente ha conseguito nella terapia individuale un sufficiente controllo cognitivo dei suoi processi mentali, di solito è pronto ad accedere alla fase superiore della psicoterapia, effettuata in un gruppo. Nella psicoterapia in gruppo, infatti, sarà molto di più, possibile trattare dal vivo le difficoltà della persona, così come si esprimono nelle relazioni sociali. Inoltre egli potrà condividere con altri pazienti in analisi, non tanto situazioni simili, poichè ogni persona ha ovviamente una condizione situazionale diversa dall’altra, ma i processi mentali che conducono alla sintomatologia, che invece sono comuni e molto simili, in quasi tutte le persone che soffrono di disturbi psichici. Il passaggio in gruppo dunque incrementa la forza e l’efficacia della terapia. Inoltre è anche vantaggiosa sul piano quantitativo, poichè un incontro di gruppo ha una durata molto più elevata di una seduta individuale e nonostante ciò, la parcella è più bassa, consentendo anche un risparmio economico.
Valutazione dell’efficacia delle psicoterapie
Alcuni autori hanno identificato tre fattori universali e complementari di cambiamento che, in misura variabile, concorrono all’efficacia perlomeno delle psicoterapie più diffuse. Il primo fra essi è la capacità, da parte della terapia, di mobilitare un’”intensa esperienza affettiva”, quasi seguendo il precetto dello scrittore latino Aulo Celso che, già nei primi anni dell’era cristiana, sosteneva che “è benefico alla salute mentale tutto ciò che agita a fondo lo spirito”. Sarebbe questa la condizione che permette una migliore disponibilità al cambiamento, la catarsi delle emozioni, la capacità di assumere nuovi stili di comportamento e di relazione. Il secondo fattore è la “padronanza cognitiva”, ossia la capacità di acquisire e di integrare nuovi modelli di pensiero, un nuovo modo di percepire e di riflettere sulla realtà della propria esperienza quotidiana. Diversamente dall’esperienza affettiva, la padronanza cognitiva costituirebbe la componente razionale del trattamento, che consente di organizzare il cambiamento e di stabilire su di esso un controllo dell’Io sufficientemente stabile. Il terzo fattore è costituito dalla cosiddetta “regolazione comportamentale”, ossia dall’apprendimento di comportamenti precedentemente infrequenti o insoliti e dall’abbandono di abitudini e modalità di reazione più consuete ma disfunzionali. Ciascuno di questi fattori, preso per se stesso, possiede una potenzialità terapeutica limitata, ed è quindi soltanto dall’influenza reciproca e costante con gli altri che scaturisce il complessivo effetto benefico della psicoterapia. La possibilità di riconoscere che, seppure in misura diversa, in ogni trattamento psicoterapeutico efficace agiscono in modo complementare questi tre fattori (o eventualmente altri, che le ricerche del futuro potrebbero mettere in luce) rende evidente l’inutilità di una rigida contrapposizione fra le diverse tecniche. Non ha, quindi, senso affermare che una particolare forma di trattamento è superiore a un’altra (o a più altre), mentre è corretto affermare che una terapia può essere più o meno valida per una particolare problema. In altre parole si può dire che un certo tipo di psicoterapia è efficace per la cura di specifici sintomi o nel trattamento di pazienti con una determinata personalità. Quindi, benché si sia ancora lontani dall’aver trovato la corrispondenza ideale fra paziente e tecnica psicoterapeutica, prima di dare inizio a una psicoterapia ` opportuno chiedersi quale trattamento, e specialista, è più efficace per ogni singolo paziente. Diventa allora essenziale, nel lavoro psicoterapeutico, il momento della diagnosi, ossia della valutazione di tutti gli elementi clinici che consentono di effettuare una indicazione corretta di trattamento.
Propongo anzitutto delle domande ricorrenti, alle quali diffusamente molti rispondono ricorrendo spesso a proprie opinioni personali. Qui io presento alcune mie risposte.
Perchè la psicoterapia? Se si continua a parlare di “malattie” psicologiche, queste, come tutte le malattie, non si devono curare con le medicine? Cosa c’entra, allora, l’incontrarsi fra persone, il parlare, con la cura di una malattia? Tanto si parla dappertutto, esaltandone l’effetto curativo e risolutivo, dei farmaci antidepressivi e ansiolitici, spiegando che da qualche parte nel cervello una certa serotonina o una certa noradrenalina sono carenti o eccessive. Non si fa in tempo ad ascoltare, a questo proposito, grandi discorsi in una trasmissione televisiva ed ecco che compare, sempre su questo argomento, l’articolo su quella certa rivista che si occupa di salute, o in una pagina su quell’ altro quotidiano.
Ci dicono che ormai con le pillole si guarisce dall’impotenza, dall’obesità, dalla timidezza, dalla depressione, dalle paure e dalle incertezze. Niente più insonnia, niente più ansia. In molti modi si può vendere, esaltandolo, il modello dell’uomo “che non chiede mai”, sereno, freddo, sicuro e così via. Con tutte queste enfasi circa il fatto che i disturbi psichici possono essere risolti con alcuni mesi di psicofarmaci, credo involontariamente e indirettamente, ma non meno efficacemente, molti eminenti esponenti della salute psichica, trascorrendo così tanto tempo sul palcolscenico delle televisioni e dei giornali, contribuiscono a gonfiare questo pericolosissimo modello. Alcuni perfino e non so quanto ancora in buona fede, addirittura continuano a dividere mente e corpo come se fossero due dimensioni completamente diverse, come se cervello e psiche, cervello e mente fossero due entità estranee fra loro. Questo è incredibilmente anacronistico e principalmente è irriguardoso verso le più moderne acquisizioni scientifiche su cervello e psiche.
Allora, perchè la psicoterapia?
Si dice che i sintomi psichici disturbanti, come l’ansia, i disturbi umorali, le fobie, sono presenti in persone che hanno nel loro cervello un disturbo nel metabolismo della serotonina, noradrenalina, GABA e così via. E’ vero. E si dice che somministrando gli psicofarmaci, queste sostanze, dopo alcune settimane di regolare assunzione delle medicine, cominciano a ‘circolare’ più regolarmente nei siti dove sono preposti, con corrispondente miglioramento dei sintomi. E’ vero. Si dice anche che vi sono diversi casi nei quali la persona disturbata, dopo un adeguato e lungo periodo di assunzione degli psicofarmaci, non solo migliora notevolmente nei sintomi e nelle sue condizioni generali, ma mantiene a lungo il miglioramento dopo la cessazione dei farmaci, a volte mantiene il miglioramento indefinitamente. Per questo, in questi casi, si dice che è guarito.
Ma allora, perchè mai la psicoterapia?
Ebbene, la psicoterapia perchè non si deve lasciare la persona disturbata abbandonata al caso. Infatti molte volte, le persone curate esclusivamente con gli psicofarmaci, non vanno oltre un transitorio miglioramento dei sintomi e molte volte, cessando il periodo di trattamento farmacologico, dopo un pò, recrudescendo i sintomi, essi devono intraprendere un nuovo ciclo di copertura e questo spesso ripetutamente per diversi anni, se non per tutta la loro vita. Questo accade perchè gli psicofarmaci ( e in questo momento mi sto riferendo specificatamente agli antidepressivi e agli ansiolitici ), intervengono egregiamente a normalizzare il funzionamento delle monoamine ( serotonina, noradrenalina ecc. ), cui sono destinati nel cervello, ma non possono intervenire sulle cause, ancora ignote o incerte, dell’alterazione di queste sostanze, per cui, cessando il trattamento, le cause inducono le monoamine a ‘guastarsi’ nuovamente. Si è notato che nei casi in cui il miglioramento si è invece prolungato nel tempo, dopo la cessazione dei farmaci, ciò avveniva, con molta probabilità, perchè il soggetto casualmente durante il miglioramento sintomatico dovuto ad essi, riusciva a intraprendere attività gratificanti, oppure incontrava una persona significativa con la quale riusciva a instaurare una buona relazione amorosa, oppure altro ancora. In tutti questi casi, comunque, il soggetto manteneva a lungo il benessere dopo i farmaci, non come effetto dei farmaci stessi, ma come effetto di ciò che egli stesso era riuscito a fare per sè durante la vacanza sintomatica artificiale data dai farmaci. E’ evidente che questi risultati sono, dunque, affidati alla casualità di opportunità che si presentano al soggetto durante quella che io chiamo ‘la vacanza sintomatica artificiale’ data dai farmaci. Infatti da sempre la psichiatria non riesce a spiegarsi perchè mai gli psicofarmaci ottengono risultati sempre imprevedibili e sempre diversi, da una persona all’altra, pur in presenza di una identica sindrome ( insieme di sintomi ), oppure nella stessa persona da un ciclo di cura all’altro. La risposta è che nessuno, quando somministra gli psicofarmaci, può prevedere la variabile ambientale e quindi in alcuni casi l’effetto benefico dei farmaci è minimo, per il semplice fatto che gli psicofarmaci non possono fare più di tanto, se non intervengono contemporaneamente fatti ambientali positivi: cioè un transitorio effetto sintomatico, il quale, se non viene supportato da casuali eventi positivi e benefici per il soggetto, cessa poco dopo la fine della cura. Talvolta, in assenza di mutamenti e/o di supporti ambientali, neanche riescono a produrre un effetto significativo durante la somministrazione. Per le stesse ragioni gli effetti collaterali sono tanto diversi e imprevedibili, da persona a persona e spesso nella stessa persona da un periodo all’altro, pur con lo stesso farmaco. Poichè dunque quello che sembra essere determinante nella cosidetta guarigione, sono le cose che il soggetto riesce a fare e a mantenere di bene per se stesso, è lecito supporre che un controllo sintomatico che non si voglia cronicamente affidato agli psicofarmaci, dovrà fondarsi su qualche acquisizione endogena e intrinseca al soggetto stesso. In pratica, quando durante ‘la vacanza sintomatica farmacologica’ il soggetto riesce a esperimentare qualcosa di positivo e riesce a trattenerla per sè come acquisita, ciò equivale al fatto che il soggetto ha acquisito una nuova padronanza, una nuova esperienza e quindi un nuovo punto di vista, rispetto a prima. Diciamo, ha acquisito un nuovo e diverso modo di pensare rispetto a se stesso, agli altri e al mondo. Tolti i farmaci, quel nuovo modo di pensare resterà suo e sarà come il vero antidepressivo installato in sè, spesso senza più necessità di assumerlo dall’esterno.
La psicoterapia serve a questo: a non lasciare al caso la variabile ambientale, almeno non del tutto. In pratica in psicoterapia si diagnostica e si analizza l’organizzazione del pensiero del soggetto e lo si aiuta a rendersi conto di come con quel tipo di organizzazione mentale che possiede, risulta praticamente ‘normale’ che debba sentirsi male così come si sente. Si aiuta il soggetto a divenire consapevole delle varie relazioni di causa-effetto che vi sono fra i suoi punti di vista, opinioni, convinzioni e pensieri in generale, da una parte, e le risultanti emotive, comportamentali, somatiche e sintomatiche, dall’altra. Nel frattempo lo si aiuta a cominciare un ciclo di trattamento psicofarmacologico adeguato, sotto controllo medico, spiegandogli che questo è necessario per alleviare rapidamente i sintomi, affinchè egli possa lavorare più efficacemente sui suoi pensieri da modificare. Lo si informa adeguatamente che dai farmaci non deve aspettarsi niente di più di un buon controllo e miglioramento sintomatico e lo si incoraggia ad approfittare del periodo di vacanza sintomatica artificiale, per cercare di ottenere il massimo possibile, in psicoterapia, dal suo stesso sforzo ed applicazione, per modificare e guarire.
Nella mia attività, sia io che i miei colleghi medici ( neurologi, endocrinologi, cardiologi ecc. ), lavoriamo in pool, cioè interagendo coordinati sullo stesso paziente, usando un linguaggio comune per non disorientarlo. Si evita l’enfasi sia sui farmaci, i quali, come ho tentato di spiegare qui, hanno un semplice ruolo circoscritto, sia sulla psicoterapia, la quale a volte rende di meno senza gli psicofarmaci, poichè si avvale del servizio che le rendono, alleviando il sintomo. Si mette in rilievo che la cosidetta guarigione, sarà un fattore di buon risultato ottenuto insieme, paziente e psicoterapeuta, nella misura in cui la persona riuscirà ad utilizzare lo strumento ‘psicoterapia’ secondo le istruzioni e la guida dello psicoterapeuta, pazientemente e costantemente, per tutto il tempo della durata del trattamento psicoterapeutico e nella misura in cui, laddove servano, assumerà rigorosamente gli psicofarmaci.
Il Logos
La psicoterapia viene effettuata con l’utilizzo unicamente della PAROLA e non con altri metodi in grado di modificare il comportamento umano, quali gli psicofarmaci o altro .
Ma la PAROLA davvero può curare? . Sicuramente . La parola in psicoterapia non rappresenta un semplice suono gutturale , labiale ecc.. , ma la rappresentazione simbolica e fenomenologia di qualsiasi vissuto di ogni soggetto. Dietro alla PAROLA ESISTE IL VISSUTO DELLA STESSA . La P. espressa e pensata rappresenta il soggetto stesso. Il racconto del vissuto di un soggetto , tramite la P. , apre al SE dello stesso soggetto , alla sua alchimia fantastica tra individualismo, relazione ed emozioni . Attraverso la P. , lo psicoterapeuta segue la “trama” del vissuto del soggetto , ed attraverso la sua P, porta alla luce , individua le ombre passate e presenti e i percorsi per emanciparsi da esse . Alla P. espressione di un vissuto traumatico , pone la P per l’emancipazione dal trauma e dalle e sue ombre .
In caso di necessità particolari, comunque, lo psicologo psicoterapeuta chiede l’intervento e la collaborazione del medico per un certo periodo di tempo, per dare al paziente un aiuto di tipo farmacologico , che gli consenta di superare certi momenti particolarmente critici e di continuare il lavoro psicoterapico in modo produttivo ed efficace.
Qualsiasi intervento di psicoterapia dipende largamente dalla personalità dello psicoterapeuta.
Diceva gia W.Griesinger, nel secolo scorso, che chi ha scelto, come professione, di curare il prossimo, deve avere “…grande professionalità , un ricco vissuto, disposizione gentile, grande pazienza, autocontrollo, essere particolarmente libero da pregiudizi, comprendere la natura umana, amare profondamente il suo lavoro”.
Lo psicoterapeuta deve, prima di tutto, saper ascoltare il paziente.
Per questo, egli deve essere in grado di saper controllare efficacemente i propri sentimenti e i propri bisogni, non deve essere preda di tensioni derivanti da un vissuto personale non sufficientemente organizzato nel senso della sicurezza e dell’equilibrio emotivo-affettivo, deve essere obiettivo e benevolo, ma anche spassionato, come si diceva, ed emotivamente distaccato.
Solitamente chi sceglie di fare lo psicoterapeuta come professione possiede una sensibilità particolare per i problemi dell’uomo e per la realtà umana in genere, maturata sulla base di esperienze personali spesso difficili se non addirittura dolorose.
I migliori psicoterapeuti sono probabilmente proprio coloro che si sono dovuti confrontare con difficoltà proprie e che sono riusciti a superarle, avendo maturato contemporaneamente la consapevolezza di quanto è successo ed essendo riusciti quindi ad operare quel distacco emotivo dal proprio vissuto che consente di affrontare quello degli altri con lucidità e compostezza.
Il rispetto per la sofferenza del paziente nasce quindi dall’esperienza delle difficoltà personali, che mette in atto un preciso interesse per quanto il paziente riferisce e un profondo rispetto per ciò che egli è, per ciò che pensa, per le convinzioni che ha maturato, che possono essere molto diverse rispetto a quelle dello psicoterapeuta stesso.
Questi non deve mai portare nella cura le proprie ideologie o, peggio, imporre i propri valori morali.
Il paziente ha bisogno che qualcuno lo aiuti a chiarire e a risolvere i suoi problemi, non altro.
Per questo lo psicoterapeuta deve essere molto flessibile anche nell’uso delle tecniche terapeutiche e nel metodo adottato.
Ogni paziente porta una realtà assolutamente unica ed irripetibile ed è da questa che occorre partire per l’azione terapeutica.
Non si deve quindi adattare la realtà del paziente alla tecnica o al metodo adottati, ma si deve fare esattamente il contrario, senza eccessivi timori di diventare “eretici” o pericolosamente “eclettici” dal punto di vista metodologico. La rigida fedeltà al proprio credo teorico terapeutico, risulterebbe essere pericolosissimo, infruttuoso e terroristico . Ciò che diventa importantissimo ed assoluto per uno psicoterapeuta, è sapere e ricordarsi, qualora dovesse per alcuni istanti dimenticarselo, di essere dinanzi alla PERSONA .
Chi possiede una preparazione professionale adeguata, sia dal punto di vista teorico che da quello tecnico, e quindi grande chiarezza rispetto ai diversi approcci terapeutici, solitamente non ha di queste paure soprattutto non tenta di nascondere la propria impreparazione o la propria difficoltà nei confronti del paziente e del suo problema dietro il paravento della “coerenza” metodologica.
L’azione psicoterapica diventa quindi efficace se viene condotta da un professionista preparato, ma occorre non dimenticare che occorrono anche certi requisiti nel paziente.
Anzitutto egli deve essere cosciente di essere portatore di un disturbo e che è necessario un lavoro per liberarsene, e che non esistono interventi , rimedi e soluzioni “magiche” e che solo la sua assiduità alle sedute e la sua pazienza, insieme a quella dello psicoterapeuta , gli permetterà il superamento dei suoi problemi.
Per questo occorre che sia ben informato sul senso e sul significato della psicoterapia, su come si lavora, sull’impegno che comporta, sui risultati che si possono ottenere, sulla spesa che deve essere affrontata . E che non esistono e non possono esistere le psicoterapie rapide e quelle gratuite, perché l’onorario rappresenta innanzitutto l’impegno che il paziente dovrà avere per cambiare insieme al riconoscimento di essere seguito professionalmente da un esperto.
Tutto questo perché egli maturi la giusta motivazione e si crei il più corretto clima di fiducia e di collaborazione, che consente a chi è portatore di sofferenze di “lasciarsi andare”, di confidare, di confrontarsi e di superare con determinazione i problemi, soprattutto quelli più difficili e più dolorosi.
Il criterio più utile di suddivisione delle tecniche psicoterapeutiche che ci sembra di dover adottare è quello che distingue tra le psicoterapie che si propongono di “tirar fuori la personalità” (modalità maieutica), e rappresenta la così detta “analisi” , e le psicoterapie che invece puntano sulla modificazione del sintomo attraverso interventi di carattere tecnico sperimentale, attraverso l’applicazione di diverse tecniche decondizionanti o desensibilizzanti .
Di solito il percorso psicoterapico passa necessariamente attraverso due fasi:
1 l’analisi e l’ eliminazione dei sintomi .
2 dopo l’attenuazione o l’eliminazione dei sintomi , l’individuazione delle cause che risiedono all’interno della struttura della personalità .
Il primo rappresenta l’ approccio sintomatologico, il secondo è propriamente analitico .
Chi si rivolge dallo psicoterapeuta, statisticamente e prevalentemente viene spinto da motivazioni e da condizioni di sofferenza e quadri sintomatologici ben precisi . Mai il soggetto immaginerebbe subito dopo di entrare in analisi. Infatti la fase dell’eleminazione dei sintomi prescinde ed è inevitabilmente correlata all’analisi della struttura della personalità del soggetto . Lavorare solo sui sintomi, senza l’opportunità di poter lavorare sulla personalità, invalida ed inficia il lavoro di psicoterapia e lo rende inevitabilmente incompleto.
Giorgio Burdi.
In questa sezione presenteremo gli approcci psicoterapici prevalentemente individuali, tenendo presente che questa suddivisione non può essere assunta rigidamente, in quanto alcune tecniche, usate solitamente per un lavoro sulla singola persona, possono essere adottate anche per il trattamento con gruppi. Ci preoccuperemo, in ogni modo, di chiarire, anche questa particolarità, trattando dei vari approcci, per i quali abbiamo dovuto necessariamente operare una scelta dei più significativi e conosciuti all’interno di un panorama decisamente multiforme.
Le psicoterapie di tipo ricostruttivo derivano dai diversi orientamenti della psicologia del profondo. La prima più importante è sicuramente la psicoanalisi.
Freud stesso intendeva vedere la psicoanalisi da una parte come un complesso di teorie psicologiche e dall‘altra come una tecnica esplorativa e di intervento, per il trattamento delle nevrosi.
Il nevrotico, infatti, a differenza dello psicotico, e in grado di garantire la collaborazione con l‘analista per tutto il tempo della cura, potendo contare su un proprio Io sostanzialmente integro.
Vediamo comunque, più in dettaglio, quali sono le caratteristiche e le condizioni della situazione analitica classica.
Esistono alcune regole che danno struttura alla situazione analitica. La prima è detta dallo stesso Freud: “fondamentale”.
Mediante essa l’analizzato è invitato a dire tutto ciò che pensa, che prova, che avverte, senza scegliere quanto gli sembra più giusto dire, senza omettere niente, anche se ciò che gli viene in mente può essere sgradevole da comunicare, o apparentemente privo di interesse o fuori proposito.
La regola fondamentale ha lo scopo di rendere più accessibile il determinismo inconscio, che, a livello cosciente, può manifestarsi proprio attraverso idee improvvise, disorganizzate e casuali.
Essa pone quindi alla base del trattamento psicoanalitico il metodo della libera associazione, mediante la quale Freud pensava di aver definitivamente superato le metodologie ipnotiche che venivano praticate prima della psicoanalisi, che non consentivano al paziente di prendere coscienza dei contenuti inconsci che via via emergevano nel corso del lavoro psicoterapico
Un’altra regola è detta dello “specchio” .E’ fondamentale che il paziente venga messo nella condizione di poter proiettare e trasferire sull’analista stesso, appunto, come uno specchio, in cui non appaiono altre cose se non le proprie. Necessario soprattutto che il paziente non venga a conoscenza di particolari della vita dell’analista, che potrebbero disturbare questa operazione di trasferimento, il cosiddetto, appunto, transfert .
Una terza regola che serve ad organizzare il rapporto analitico è quella dell’ “astinenza” , che obbliga l’ analista a non dare soddisfazione alle richieste del paziente e a non svolgere i ruoli che egli tende ad imporre.
La regola dell’astinenza tende ad evitare che la quantità di libido liberata dal lavoro analitico venga immediatamente reinvestita su oggetti esterni e quindi scaricata in modo diverso rispetto alla modalità dell’espressione verbale , la sola che consente di mantenere il trasferimento della libido stessa nella situazione analitica.
Deriva dalla teoria di C.G. Jung di cui pure abbiamo scritto. Se la psicoterapia secondo la scuola adleriana può essere applicata anche a gruppi e a coppie, quella junghiana è assolutamente individuale.
Per Jung il senso dell’esistenza umana si esprime nel processo di individuazione. “L’individuazione è in generale il processo di formazione e di caratterizzazione dei singoli individui, e in particolare lo sviluppo dell’individuo psicologico come essere distinto dalla generalità, dalla psicologia collettiva.
L’individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale”
L’analista Junghiano ha quindi costantemente presente, nel suo lavoro, l’importanza di aiutare il paziente a riconoscere e a valorizzare i tratti più caratteristici della sua personalità, distinguendoli e disancorandoli da canoni della cultura entro i quali il soggetto si trova ad essere e a vivere.
Il paziente deve mettere a fuoco con chiarezza l’idea che egli, e non altri, è il vero artefice della sua esistenza e della sua realtà e che qualsiasi situazione umana, anche la più complessa e dolorosa, può essere modificata.
L’individuo “malato” è colui che ha imparato ad assumere atteggiamenti unilaterali e quindi, in sede diagnostica, lo psicoterapeuta deve cercare di comprendere quali siano i bisogni che gli stessi atteggiamenti soddisfano.
Il terapeuta junghiano, come del resto quello freudiano ha il compito di avvicinare il paziente alla consapevolezza dei rapporti esistenti tra le varie istanze della psiche, aiutandolo soprattutto a comprendere e a sopportare la tensione che caratterizza i rapporti stessi.
Già abbiamo visto come M.Klein abbia sviluppato la teoria psicoanalitica di Freud. Dovendo in questa sede fare alcune considerazioni sulla tecnica psicoterapica di tipo kleiniano, occorre tenere presente che il pensiero della Klein è stato, a sua volta, sviluppato e modificato da W. Bion della cui teoria ne parleremo da H. Rosenfeld, da E. Bick, da D. Meltzer e da altri, per cui è assai probabili che lo psicoterapeuta kleiniano faccia riferimento contemporaneamente, nel suo lavoro, a qualcuno deglia autori citati.
Il terapeuta junghiano, ad esempio, può fare riferimento ai lavori di E. Neumann, di J. Hilmann, di M. Trevi, quello freudiano a qualcuno dei moltissimi che, pur definendosi ortodossi, hanno portato qualcosa di personale nella teoria e nella pratica della psicoanalisi di Freud, e così via.
Normalmente anche il terapeuta kleiniano pratica una psicoterapia individuale, soprattutto con bambini, non escludendo, tuttavia, le persone adulte.
Vedremo come W. Bionn, invece, abbia lavorato molto nell’applicazione della psicoanalisi allo studio e al trattamento dei gruppi; per questo oggi non pochi terapeuti ad indirizzo kleiniano, soprattutto nell’America del Sud, lavorano prevalentemente con gruppi.
Il modello psicoanalitico kleiniano distingue nella personalità del soggetto una struttura adulta e una struttura infantile.
La prima è caratterizzata da una realtà oggettuale interna che mostra, nei singoli individui, un diverso grado di maturazione e di integrazione, frutto delle varie esperienze di vita via via maturate.
La seconda è strettamente collegata alla realtà fisica e ai suoi bisogni, che scatenano invidia, gelosia e possessività e che tendono a danneggiare la realtà oggettuale presente nella mente adulta.
Lo psicoterapeuta kleiniano procede, dapprima, al contenimento dell’azione della struttura infantile, che tende a danneggiare la realtà oggettuale adulta, e, successivamente, ad arricchire questa realtà per rinforzare e valorizzare le parti più mature e responsabili della personalità.
La ricerca condotta da M. Klein sulla realtà infantile e sui fenomeni che caratterizzano soprattutto le due posizioni che riguardano il primo periodo della vita, quella schizoide paranoie e quella depressiva, come l’invidia, la scissione, l’identificazione proiettiva, il lavoro degli autori, che abbiamo citato sopra, sugli stati confusionali di tipo psicotico e sui disturbi del pensiero, hanno consentito di allargare il campo dell’azione terapeutica di tipo psicoanalitico alle situazioni più gravi e difficili, che scaturiscono da realtà psicotiche.
Lo psicoterapeuta kleiniano lavora, come abbiamo detto, con bambini anche molto piccoli e, spesso, con adolescenti. La psicoanalisi infantile era considerata dalla stessa klein uno strumento importante per combattere le forme psicopatologiche che possono insorgere nella prima metà della vita, ma anche per prevenire i disturbi dell’adulto.
La tecnica terapeutica adotta per il trattamento dei disturbi infantili si basa, come sappiamo, sul gioco, a differenza di quella tradizionale, che si serve invece della parola.
Si tratta di una tecnica psicoterapica che nasce dalla ricerca e dal lavoro di Alexander Lowen, un medico americano, che si è ispirato alla teoria di Wilhelm Reich e, quindi, ha principi psicoanalitici.
Secondo l’analisi bioenergetica la realtà psico-corporea umana e unitaria e a sfondo energetico.
Nel momento in cui, quindi, maturano nel soggetto delle tensioni di carattere psichico, parallelamente sorgono corrispondenti tensioni fisiche, le quali interagiscono con le prime e le rafforzano.
L’azione dello psicoterapeuta deve essere in grado di individuare sia le tensioni psichiche che quelle somatiche e di allentarle, portando il paziente al massimo livello di vitalità consentito dalla sua situazione reale.
La tecnica che il terapista mette in atto è non soltanto di tipo verbale,ma anche fisico, dato che interviene sulla respirazione, sul rilassamento, sulle tensioni muscolari, sull’espressione somatica delle emozioni, ecc.
Solitamente lo psicoterapeuta bioenergetico lavora con adulti e con bambini indifferentemente, anche se ritiene che le persone adulte, che pure possono trovare un buon aiuto nella psicoterapia di questo tipo, hanno maggiore difficoltà a sciogliere la loro rigidità somatica e caratteriale.
È una teoria italiana,elaborata dallo psichiatra Roberto Assaggiali(1888-1974). Secondo questo modello teorico, l’uomo si caratterizza come un’entità incompleta,che vive costantemente in preda alla sensazione di mancanza,di vuoto e di separazione. Questa sensazione generata tuttavia il desiderio di superare il vuoto e di portare la propria realtà ad uno stato di completezza e di armonia.
Per raggiungere questo l’individuo deve puntare sulla propria volontà,intesa come capacità di modificare se stessi e di reagire alle situazioni esterne non positive.
Dal punto di vista della struttura psichica, Assaggiali contrappone l’io all’inconscio, che viene suddiviso in inferiore, medio e superiore.
L’inferiore costituisce il luogo dei contenuti rimossi, il medio quello dei contenuti più vicini alla realtà cosciente, il superiore quello della potenzialità che ogni individuo possiede e che possono essere messe in atto e valorizzate.
Lo psicoterapeuta psicosintetico ha il compito di portare il paziente anzitutto a riconoscere la sua reale situazione, quindi a staccarsi psicologicamente dalla stessa situazione esistenziale, per arrivare, alla fine del processo di maturazione, allo sviluppo della potenzialità e a un nuovo vissuto, caratterizzato da sicura autonomia e capacità critica nei confronti dello stesso terapeuta, di se stesso e degli eventi esterni.
Gli psicoterapeuti psicosintetici ritengono la loro tecnica particolarmente utile nelle grandi patologie sociali, come l’alcoolismo e la droga, in quanto proponendo al paziente la scoperta dei contenuti dell’inconscio superiore, lo mette di fronte a valori prima non conosciuti e non vissuti e lo libera dal senso di vuoto essistenziale.
La terapia della Gestalt è stata messa a punto,a partire dagli anni ’40, dallo psicoanalista tedesco Frederick S. Perls(1893-1970).
Essa fa propri concetti psicoanalitici (Freud, Rank, Reich)e i risultati delle ricerche degli Psicologi della Gestalt .
La psicologia della Gestalt, come sappiamo, aveva elaborato una teoria secondo la quale i processi di percezione e di pensiero non si organizzano per associazioni, ma per “Gestalten” globali.
I terapisti della Gestalt considerano l’esperienza umana come qualcosa che è organizzata in costellazioni, psichiche e somatiche, che hanno insita la tendenza di completarsi e di lasciare via via il campo a costellazioni nuove.
Il soggetto entra in uno stato di patologia quando non riesce a maturare la capacità di far conoscere nuove configurazioni di comportamento e di pensiero.
Si tratta allora di aiutarlo a comprendere i motivi che lo portano ad effettuare questo blocco, a rimuoverli e a metterlo nella condizione di maturare forme più adeguate.
In questo ambito confluiscono indirizzo di tipo diverso,che hanno in comune la fiducia nelle potenzialità creative e di cambiamento dell’essere umano, come abbiamo avuto modo di dire.
Compito della pscicoterapia umanistica è di portare il soggetto al massimo sviluppo della sue capacità e potenzialità, al governo dei più profondi cambiamenti emozionali e alla liberazione necessaria dell’energia per poterli attivare.
Secondo gli psicologi umanisti non esiste un approccio teorico o pratico che sia da preferire agli altri. Ogni azione psicoterapica può essere eccellente o assolutamente riprovevole. Il tutto dipende dalla personalità dello psicoterapeuta e dalla sua preparazione professionale, oltre dal senso di responsabilità e dall’equilibrio di chi ha scelto come professione quella di dare aiuto al prossimo.
Si tratta della terapia cosiddetta “centrata sul cliente”, molto affine a quella umanistica.
Deriva dalla teoria dello psicologo americano C.R.Rogers, a cui abbiamo fatto cenno.
È una approccio che punta sull’innata “tendenza formativa” che ogni individuo possiede, che gli consente di modificare continuamente in positivo il proprio comportamento.
Questa tendenza si attualizza più correttamente in un “clima facilitante”, che, all’interno del rapporto terapeutico potrà instaurarsi se il terapista saprà essere genuino e saprà considerare positivamente il paziente e comprenderlo empaticamente.
Al centro dell’azione terapeutica non vengono messi i problemi che il soggetto disturbato può portare, quanto piuttosto la persona umana. Si insiste sul processo di crescita del paziente, in modo che egli impari a gestire correttamente anche le sue eventuali difficoltà presenti e future.
Come si può intuire, la psicoterapia rogersiana da scarsa importanza alle varie tecniche di intervento, che sono, secondo questa scuola, meno determinanti rispetto alla qualità del rapporto terapeutico.
È una tecnica psicoterapica perfezionata da Bellak e Small e descritta nella loro opera Psicoterapia d’urgenza e psicoterapia breve.
Già,tuttavia,ne avevano parlato lo stesso Freud e i suoi collaboratori,soprattutto Ferenczi e, alla vigilia della seconda guerra mondiale, il discorso era stato ripreso, in America, dal psicoanalista F.Alexander. Il trattamento di psicoterapia, secondo questo approccio, viene diviso in cinque fasi. La prima, l’anamnesi, è costituita dalle comunicazioni, le più ricche e complete possibili, del paziente al terapeuta, riguardanti, in particolare i sintomi, le caratteristiche del vissuto attuale e l’esperienze passate.
La seconda,detta insight del terapeuta,deve portare ad una diagnosi la più chiara possibile. Per raggiungere questo obiettivo il terapeuta tiene presente quanto il paziente ha raccolto e formula domande su ciò che non è stato sufficientemente chiarito e approfondito.
La terza, definita interpretazione, è caratterizzata dalle comunicazioni del terapeuta al paziente, che consentono allo stesso di vedere, secondo una nuova chiave di lettura, quanto egli ha raccontato.
- ANAMNESI
- INSIGHT DEL TERAPEUTA
- INTERPRETAZIONE
- INSIGHT DEL PAZIENTE
- RIELABORAZIONE (working through)
La quarta fase, detta insight del paziente, porta lo stesso alla comprensione del proprio problema, prima in modo confuso, poi via via sempre più chiaro, fino ad arrivare alle vere cause e ai veri motivi del problema stesso.
L’ultima fase, la working through o rielaborazione, consiste nell’ applicazione di ciò che è stato oggetto di interpretazione da parte del terapeuta e di comprensione da parte del paziente. Vengono cercate, insomma, nuove e più economiche modalità di comportamento.
Il numero delle sedute della psicoterapia breve varia, di solito, da 5 a10, arrivando, in qualche caso, ad una trentina.
Le psicoterapie che abbiamo considerato sono fondate, come già abbiamo avuto modo di dire, sul rapporto umano fra terapeuta e paziente.
Le tecniche che prenderemo in considerazione adesso, invece, si propongono di modificare, di alleviare, di eliminare i sintomi e si fondano, come pure già abbiamo sottolineato, su procedure tecnico-sperimentali.
La terapia comportamentale
Gli psicoterapeuti che fanno riferimento a questo approccio teorico ritengono che ogni tipo di comportamento, quindi anche quello disturbato, sia il risultato di un apprendimento e che, quindi, possa essere modificato e sostituito attraverso un modello comportamentale più adeguato.
Si tratta di mettere in atto particolari tecniche di decondizionamento e di ricondizionamento, che il terapeuta deve conoscere, trascurando qualsiasi ricerca in ordine alle possibili cause del disturbo.
Facciamo qualche esempio.
I terapisti comportamentali usano la tecnica dell’inondamento, che spinge il paziente a pensare intensamente a ciò che teme e ad arrivare ad uno stato di ansia molto intenso. Questo, secondo i comportamentismi, dato che il paziente non ha la possibilità, in sede terapeutica, di fuggire dalla situazione temuta, sia pure soltanto immaginata, porta gradualmente all’estinzione dell’ansia.
La tecnica della desensibilizzazione consiste nel portare ancora il paziente a pensare alle situazioni che gli provocano ansia e paura, dopo averlo aiutato a rilassarsi. Gradualmente egli, associando lo stato di rilassamento alle realtà temute, impara ad affrontarle correttamente senza angoscia.
- inondamento;
- desensibilizzazione;
- implosione.
La tecnica dell’implosione non punta all’eliminazione dei sintomi nevrotici veri e propri, ma degli stimoli condizionanti di allontanamento che stanno a monte dei sintomi nevrotici stessi e che spiegano le reazioni di fuga del nevrotico.
Il terapeuta, all’inizio del lavoro, contratta con il paziente degli obiettivi terapeutici. La cura ha termine soltanto quando questi obiettivi sono stati raggiunti.
Secondo i terapisti del comportamento la cura può durare mediamente da sei a dieci mesi con una o due sedute settimanali.
Questo tipo di psicoterapia deriva dal Cognitivismo di cui abbiamo trattato, dall’etologia e dalla teoria dell’ attaccamento di J. Bowlby, di cui pure abbiamo scritto in precedenza.
Il terapeuta cognitivo si propone di modificare le strutture cognitive del paziente e le sue opinioni in ordine alla conoscenza di se stesso e della realtà esterna, partendo dalla presa di coscienza di come tali opinioni si siano sviluppate e abbiano scatenato emozioni patologiche.
La guarigione viene quindi raggiunta nel momento in cui il paziente è riuscito a raggiungere un cambiamento reale delle sue direttive cognitive.
La psicoterapia cognitiva punta molto sullo studio dei rapporti tra il soggetto e l’ambiente di vita. Terapeuta e paziente devono arrivare a mettere a fuoco con grande chiarezza la conoscenza dei modelli culturali dominanti nella nostra società, che sono sicuramente condizionanti l attività degli esseri umani. La terapia deve riuscire ad attenuare questo condizionamento socio-culturale, attraverso lo sviluppo della coscienza o della conoscenza riflessiva di sé. Le regole del comportamento devono alla fine dipendere proprio da questa arricchita conoscenza di sé e non più, quindi, dal modello culturale dominante.
E’ una psicoterapia che fa riferimento dei costrutti personali dello psicologo americano G.A.kelly.
Secondo questa teoria la nostra conoscenza della realtà non è mai stabile, ma, al contrario, continuamente soggetta a cambiamenti e a nuove interpretazioni.
La nostra percezione del mondo è, di fatto, una costruzione, che dipende da ciascuno di noi, dalla nostra personale esperienza.
Il soggetto che vive un certo disagio a quindi elaborato un sistema di costrutti personali incapace di modificarsi e di adattarsi rispetto alle modificazioni percepite nell’ambiente che lo stesso sistema lo definisce.
Il disturbo non nasce, per questo al di fuori del sistema personale, ma all’interno di esso, nei processi che lo elaborano.
Il paziente deve quindi essere aiutato a costruire un sistema capace di operare elaborazioni di tipo diverso.
Questo è possibile individuando con precisione le caratteristiche del sistema che costituiscono la causa dell’arresto del suo sviluppo e mettendo in atto tecniche che consentono la modificazione delle caratteristiche stesse. Facciamo un esempio.
La fixed role therapy (terapia del ruolo stabilito) mette il paziente nella condizione di pensare, di agire, di stabilire rapporti con gli altri come fa il personaggio creato dakl terapeuta in un breve racconto. Questo personaggio non è molto diverso dal paziente stesso, ma sa assumere comportamenti più adeguati. Alla fine del breve periodo di prova, che non deve andare oltre qualche settimana, il paziente avrà imparato che esistono altre possibilità rispetto ai propri pensieri e ai propri comportamenti abituali.
Attraverso l’uso di apparecchi di rilevazione, il biofeedback consente il monitoraggio di certi parametri biologici, quali la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la tensione muscolare e altri , e, contemporaneamente, la percezione delle loro variazioni.
Il paziente, sulla base di principi del condizionamento o del decondizionamento operante, impera il controllo volontario delle stesse variazioni, fino a portarle nella direzione che consente la scomparsa del disturbo.
Si tratta, quindi di una tecnica di autocontrollo, che, dati anche i precisi riferimenti teorici, viene considerata come facente parte dei metodi della terapia del comportamento.
Il biofeedback viene usato in particolare per la cura dei disturbi psicosomatici , come terapie anti-stress e come tecnica di rilassamento e di controllo dell’ansia.
LA RATIONAL – EMOTIVE THERAPY ha le sue radici teoriche nella ricerca dello psicologo americano A.ELLIS.
Ritenendo che le abitudini e i comportamenti dell’uomo, in particolare quelli irrazionali, inappropriati e inadeguati, possano essere modificati, la terapia razionale emotiva fa uso, a questo scopo, di numerose tecniche di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale.
Le cause del disturbo vengono fatte risalire dai terapisti della RET alle influenze culturali, ad apprendimenti non corretti, come anche a disposizioni innate di tipo biologico. Il disturbo nevrotico in ogni caso, è dato dall’interpretazione che il soggetto da di alcuni stimoli, non tanto degli stimoli stessi, per cui occorre aiutarlo a modificare i suoi punti di vista.
Anche in questo caso le tecniche usate sono varie e diverse, come il role playng, attraverso il quale il paziente viene portato a “GIOCARE” nel gruppo sociale ruoli diversi rispetto al proprio abituale; come il shame-attacking, costituito da esercizi per combattere la vergogna; oppure il risk-taking, che comporta l’assunzione di qualche particolare rischio, o ancora la rational-emotive-imagery, che serve ad abituare il paziente al controllo e alla gestione più adeguate delle proprie emozioni.
Questa tecnica non può essere inclusa in uno dei due gruppi descritti sopra, in quanto usa un metodo, la suggestione, che la distingue da qualsiasi altro approccio.
L’ipnosi è di fatto un sonno parziale del cervello, che viene indotto dall’ azione dell’ipnotista.
L’annebbiamento della coscienza, denominato trance, non elimina, tuttavia, né l’attenzione, né la percezione,né il tono muscolare.
La tecnica usata per ipnotizzare è, tutto sommato, abbastanza semplice. Occorre che chi si sottopone alla tecnica sia consenziente e disposto alla collaborazione. Di solito l’ipnotista invita il paziente a fissare lo sguardo su un oggetto o su un punto luminoso e crea nel contempo un clima monotono che favorisca il completo rilassamento. L’ipnotista può scegliere di usare,in certi casi,stimoli di tipo impositivo,che,come quelli monotoni e ripetitivi,hanno lo scopo di produrre un impoverimento ideativo,che produce di solito nel soggetto uno stato regressivo,con ritorno di contenuti rimossi, di comportamenti di altre età,di sensazioni corporee e altri fenomeni,come, ad esempio,la comparsa di manifestazioni di tipo isterico.
Solitamente il soggetto ipnotizzato risponde docilmente alle suggestioni dell’ipnotizzatore,che gli suggerisce i comportamenti da tenere,anche dopo il risveglio.
La pratica ipnotica ha avuto un grande momento di notorietà con Charcot, il neurologo francese che Freud conobbe in Francia, presso l’ ospedale della Salpetrière.
Freud,come sappiamo,abbandonò poi questa tecnica per sostituirla con il metodo delle associazioni libere.
Attualmente l’ipnosi viene usata nel campo dell’odontoiatria, dell’ostetricia e, appunto, della psicoterapia.
Sembra che l’efficacia di questo trattamento sia in gran parte determinata dalla fiducia del paziente nei confronti dell’ipnotista,il cui influsso agirebbe come effetto placebo.
Si è constatato comunque che le persone che possiedono autocontrollo e capacità critiche sono meno indicate per l’ipnosi.
Anche questa tecnica, per certi versi vicina all’ipnosi, non può essere compresa tra quelle che abbiamo descritte o come centrate sul rapporto terapeuta-paziente o sulle procedure tecnico-sperimentali.
Si tratta di un approccio che deriva dal lavoro dello psichiatra tedesco J.Schultz .
Il paziente è portato gradualmente ad apprendere delle tecniche di tipo autoipnotico, che si concretizzano in esercizi di rilassamento, di tranquillizzazione e di presa di coscienza dello schema corporeo.
L’azione terapeutica consente di risolvere stati di tensione e di stress, attivando modificazioni psichiche e somatiche in grado di garantire maggiore equilibrio e serenità.
Due sono i cicli di esercizi previsti: quello inferiore e quello superiore.
Il primo ciclo è orientato prevalentemente sul corpo, il secondo sulla psiche.
Quando si parla di training autogeno ci si riferisce comunemente agli esercizi di grado inferiore. Quelli di grado superiore,che portano sensazioni molto particolari, vengono in genere sconsigliati, soprattutto se usati al di fuori di ricerche sottoposte a rigido controllo da parte di persone veramente competenti.
Lo stesso Schultz affermava che per mettere in pratica gli esercizi superiori “…bisogna essere molto prudenti, bisogna possedere un valido senso critico e una profonda conoscenza sia dell’individuo che del metodo; senza questa precauzioni è molto facile incorrere in gravi errori e arrecare molto danno all’individuo stesso”.
Gli approcci psicoterapici che abbiamo fin ora considerato possiedono tutti una loro precisa matrice teorica e un loro assetto metodologico orientato a fare della terapia un’occasione,per il paziente di cambiamento.
La psicoterapia di sostegno non possiede niente di tutto questo,per cui definirla in modo chiaro ed equivocabile è sicuramente ardua impresa.
Si dice solitamente, prendendo la questione molto alla larga, che si tratta di un supporto di tipo emotivo che il terapeuta fornisce al paziente che si trova in un particolare momento di difficoltà e che ha solamente bisogno che qualcuno gli dia una mano proprio in quel momento, senza, per questo, mettere in atto tecniche particolare.
L’aiuto viene allora dato attraverso dei consigli e il terapeuta diventa la guida, il faro a cui il paziente fa riferimento, più o meno ciecamente.
Non si tratta quindi di una psicoterapia vera e propria, proprio perché non punta al cambiamento,quanto piuttosto all’adattamento, ma che può essere comunque utile, in quanto il soggetto ha la possibilità di trovare chi,esperto in problemi della psiche, garantisce l’ ascolto, magari anche su temi e questioni che vanno al di là dei normali compiti tecnici.
La terapia di sostegno,insomma, può essere utile nelle situazioni di emergenza psicologica o quando, per fattori che riguardano il soggetto che richiede aiuto, non sia possibile attivare un trattamento psicologico vero e proprio. Si pensi, ad es. alle persone anziane,che,non avendo la possibilità di trarre giovamento da un azione psicoterapica come normalmente viene attuata, hanno spesso bisogno di trovare presso qualcuno l’aiuto che consenta loro di mantenersi, per quanto è possibile, psicologicamente sani,superando inevitabili difficoltà o momenti particolarmente difficili.
È bene, dal nostro punto di vista che questo qualcuno sia comunque uno psicoterapeuta professionista, il solo che, possedendo conoscenze ed esperienza adeguata, può porsi alla guida di situazioni particolari, nel pieno rispetto del paziente e mantenendo l’intervento su un piano di grande dignità, anche dal punto di vista scientifico e tecnico,oltre che umano e morale.
Esistono criteri per distinguere la terapia individuale da quella di gruppo?
Sicuramente. Subito dopo la fase diagnostica, lo psicoterapeuta individuerà lo strumento terapeutico più idoneo al raggiungimento dello stato di salute del soggetto. Molto spesso le persone idonee alla terapia di gruppo, sono esattamente quelle che nel gruppo non vorrebbero mai entrarci. Infatti, in sede diagnostica, un bravo psicoterapeuta, individuerebbe con molta facilità, che al sintomo rilevato, molto sicuramente è correlato un basso coefficiente di interazione sociale, di isolamento e di introiezione, associati molto spesso a temi persecutori, risultato di una idealizzazione ed astinenza relazionale . Molto spesso i sintomi risultano essere il risultato di un isolamento sociale in senso umano, non propriamente professionale. Infatti possiamo incontrare soggetti introiettivi, pur svolgendo attività come assistente sociale, agente di commercio, insegnante, per altro, il mondo dell’isolamento sociale, rappresenterebbe l’anticamera della formazione di diversi sintomi come le fobie , gli attacchi di panico, la depressione, la fobia sociale e le disfunzioni del comportamento alimentare , nonché quelle sessuali .
Le tecniche psicoterapiche che sono state oggetto della nostra analisi precedente vengono normalmente usate per interventi nei confronti di persone singole, ma spesso gli psicoterapeuti delle varie scuole se ne servono per il lavoro con coppie o con gruppi, come già abbiamo avuto modo di dire.
Vediamo di essere più precisi riguardo al criterio di suddivisione che interessa il destinatario.
Esistono tuttavia tecniche psicoterapiche che sono nate e vengono adottate quasi esclusivamente per interventi sul gruppo.
La psicoterapia di gruppo viene praticata normalmente con gruppi formati da alcune persone, di solito non più di dieci-dodici, che si incontrano con regolarità con uno o più terapeuti.
Questo tipo di psicoterapia viene impiegata in parecchi settori, nelle comunità terapeutiche, nelle cliniche, nei centri diurni, anche con pazienti psichiatrici. La terapia di gruppo, infatti, viene usata anche per la cura delle psicosi croniche, oltre che delle nevrosi, dei disturbi della personalità e delle tossicodipendenze.
Potremmo distinguere, fra le varie tecniche, gli approcci basati sulla parola e quelli che si servono di strumenti extraverbali.
Altra importante distinzione può essere fatta tra le tecniche di tipo analitico e quelle non analitiche.
La psicoterapia di gruppo che si serve della parola venne utilizzata per la prima volta da Pratt nel 1907.
Burrow, poi, intorno agli anni ’20, fece il primo tentativo di studiare le interazioni di gruppo.
Un po’ più tardi, negli Stati Uniti, Slavson cominciò a impiegare la psicoanalisi per la terapia con più persone.
Nel dopoguerra, con Bion, Ezriel e Foulkes il gruppo divenne strumento di cura per ogni singolo componente.
L’analisi di gruppo costituisce il metodo psicoterapico che, basandosi sulla teoria psicoanalitica e attraverso l’impiego della dinamica di gruppo, e di tecniche verbali, intende portare i singoli componenti ad apprendere un sistema di comunicazione che sia chiaro ed utile per tutti.
Questo consente di imparare a cooperare, attraverso anche la presa di coscienza delle dinamiche e delle relazioni che si instaurano all’interno del gruppo stesso, e a mettere a fuoco con chiarezza norme e valori accettabili da tutti.
Viene usata sistematicamente l’interpretazione di tutto quanto accade nel corso del lavoro terapeutico.
Vediamo di fare qualche esempio concreto di tecniche che adottano il metodo dell’analisi di gruppo.
Si tratta di una psicoterapia che viene applicata anche al singolo individuo e alla coppia, oltre che al gruppo.
La tecnica è stata fondata da Eric Berne, uno psichiatra americano che studiò le modalità di cui le persone si servono per interagire e per comunicare tra di loro.
Egli analizzò in particolare i cosiddetti “giochi”, cioè quei modelli di interazione che solitamente le persone usano senza rendersi conto dei loro effetti, non sempre positivi.
Berne teorizzò che i “giochi”, le transizioni e altre caratteristiche della persona e del suo comportamento sono il risultato delle esperienze maturate nella prima infanzia, che producono un “copione” che la stessa persona poi usa senza esserne consapevole.
L’analisi transizionale intende quindi portare i pazienti a realizzare un “contratto di autonomia”, che significa un reale cambiamento inteso come rinuncia al “copione”.
All’interno del gruppo a cui viene indirizzata l’azione psicoterapica, si dà molto spazio alla comunicazione verbale, ma anche a quella non verbale, come la mimica, il contatto fisico, i vari atteggiamenti, che vengono considerati delle vere e proprie transizioni tra i veri componenti il gruppo e che devono essere quindi, a loro volta, oggetto di analisi.
Questi gruppi, conosciuti anche con il nome “T groups”, sono nati alla fine degli anni ’40 negli Stati Uniti, presso il National Training Laboratories, a Betel.
Le tecniche usate, da allora, si sono ovviamente molto evolute ed arricchite.
Le finalità a cui questo tipo di psicoterapia di gruppo tende riguardano il raggiungimento, da parte dei singoli componenti, della consapevolezza della propria realtà emozionale, della propria capacità di porsi in relazione con gli altri e di usare strumenti efficaci di comunicazione, oltre che della capacità di comprensione e di ascolto delle persone con le quali si entra in contatto.
Vengono usate lezioni, giochi di simulazione e didattici, discussioni su esperienze di comunicazione e altre tecniche.
L’approccio teorico sistemico, costituisce il modello su cui si fonda il modello psicoterapico di cui stiamo trattando.
Si parte dall’assunto che il comportamento del singolo individuo, che è parte di un sistema familiare, è determinato dal metodo di relazionarsi delle persone all’interno della famiglia stessa. Si cerca quindi di mettere a fuoco queste modalità interattive, per scoprirne gli aspetti meno corretti, che stanno alla base dei vari disagi che i componenti il gruppo familiare denunciano.
Il terapeuta invita poi i membri del gruppo familiare, attraverso un intervento di tipo prescrittivo, a “giocare” in modo diverso tra di loro, ovviamente in senso metaforico.
Lo stesso terapeuta diventa un “giocatore” nel gruppo, per poter meglio aiutarlo a liberarsi dai circoli viziosi di tipo interattivo nei quali è caduto.
Rispetto alle tecniche analitiche, l’approccio sistemico-relazionale consente, a detta di chi lo pratica, di allungare il campo di osservazione dall’individuo al gruppo di appartenenza e di usare strumenti più adeguati di intervento.
Il trattamento prevede un massimo di dieci sedute, ognuna della durata di circa due ore.
Viene definito dagli stessi terapeuti che lo praticano “una ricerca della verità attraverso metodi teatrali di azione scenica”.
E’ stato messo a punto dallo psichiatra e sociologo Jacob Levi Moreno.
Si tratta di una psicoterapia di gruppo, ma anche di una psicoterapia individuale messa in atto all’interno del gruppo.
Ciò che la distingue da tutti gli altri tipi di psicoterapia è il fatto che pazienti e terapeuti si esprimono attraverso l’ azione teatrale.
Esistono un luogo dove l’ azione si svolge, il soggetto che è il protagonista dell’ azione stessa, un gruppo di altre persone che fanno da spalla al protagonista e un uditorio, che manifesta i suoi stati d’ animo e le sue emozioni nei confronti di ciò che viene rappresentato.
Il paziente viene incoraggiato ad agire dallo psicodrammatista, che opera i suoi interventi in modo direttivo. Per l’ azione, che assume un forte valore di liberazione, può essere usata la parola o altre forme di comunicazione, come la mimica o il contatto fisico.
Per aiutare il soggetto ad acquisire una propria autonomia decisionale sono state messe a punto, in questi ultimi anni, delle tecniche di sostegno terapeutico che portano il soggetto a diventare profondo conoscitore di se, delle proprie aspirazioni, della propria realtà mentale più profonda, dei propri modi di essere.
Sono conoscenze che consentono di agire correttamente sul piano delle decisioni, soprattutto quelle importanti, quali possono essere la scelta de4l partner, dell’ attività professionale o altro.
Il counseling di gruppo, che consente al soggetto di ricevere aiuto per i suoi problemi attraverso l’ intervento dei vari componenti, è una tecnica usata in particolare dai terapeuti di scuola rogersiana,
A parte poi il counseling inteso come tecnica terapeutica vera e propria, occorre fare cenno alla consulenza che viene data, di solito da psicologi, nei vari consultori, come aiuto per la soluzione di vari problemi di tipo familiare, educativo, professionale.
Sono strumenti di tipo terapeutico che non fanno uso della parola,che, come abbiamo avuto modo di considerare, costituisce il mezzo indispensabile per la quasi totalità degli interventi psicoterapici.
Queste tecniche possono, tuttavia, ai fini della cura, sostituire degnamente la parola, soprattutto quando questa non può essere usata normalmente o può esserlo in misura molto ridotta, data la particolare situazione in cui si trovano ad essere le persone a cui la cura viene indirizzata.
E’ conosciuta anche come terapia occupazionale o del lavoro. Viene usata soprattutto con pazienti con problemi di tipo motorio o anche relativi al senso di identità. Nel primo caso, quello che interessa la psicomotricità dei soggetti, si tratta di un’ ergoterapia di tipo funzionale, che fa uso di attività manuali o di tipo creativo, come la danza; nel secondo caso, quando si lavora con soggetti che non possiedono ancora un sufficiente senso di sé, l’ ergoterapia diventa attiva, nel senso che viene adottata per cerare occasioni di socializzazione e di inserimento nel gruppo.
Già abbiamo fatto cenno alla tecnica studiata da M.Klein per l’analisi dei bambini che si serve appunto del gioco.
La ludoterapia viene oggi usata in senso terapeutico non solo nei gruppi di bambini, ma anche in quelli di adulti con gravi problemi di tipo regressivo, che vivono una realtà condizionata da fantasmi infantili e che, attraverso il gioco, in cui la dimensione del vero e quella del fantastico si confondono, hanno la possibilità di esprimere il loro mondo e di comunicare i loro particolari contenuti mentali.
E’ una terapia per pazienti psichiatrici che punta sull’importanza di creare, per queste persone portatrici di disturbi gravi, un ambiente di vita e sociale che sia già, di per se stesso, terapeutico. Il fine è in recupero alla vita sociale normale. I punti che caratterizzano questa tecnica sono la democraticità, nel senso che i pazienti vengono fatti vivere in una realtà sociale organizzata in senso democratico, in cui ognuno può partecipare e prendersi delle responsabilità; la comunità, nel senso della possibilità data a tutti di sentirsi pienamente inseriti e accettati all’interno del gruppo; la permissività, che consente più facilmente una serie di apprendimenti; l’esame della realtà, che porta la presa di coscienza dei propri comportamenti e delle reazioni degli altri comportamenti stessi.
Psicanalisi
In questa sezione affronteremo le dinamiche che scaturiscono in un setting analitico. Innanzi tutto la parola setting significa l’ambiente ed il rapporto che viene creato durante l’ora di analisi tra il paziente ed il suo analista durante il setting il paziente altro non fa che proiettare i suoi conflitti in maniera naturalmente inconscia sulla figura dell’analista che con i suoi silenzi cerca di indurre alla coscienza del paziente il conflitto proiettato sull’analista. Per fare cio’ l’analista deve avere un comportamento neutro altro non fare che riflettere il conflitto come uno specchio sul paziente fino a quando egli non prendera’ coscienza del suo conflitto ed una volta portato alla luce verra’ affrontato e non piu’ rimosso nell’inconscio questo consentira’ al paziente di prendere coscienza di tutti i suoi meccanismi inconsci quindi ad una completa conoscienza di se’ e quindi al suo benessere. Queste proiezioni del paziente verso l’analista in terminologia psicoanalitica vengono chiamate transfert ed e’ il motivo portante di tutta un’analisi.
L’ansia e’ come sa bene chi ne soffre una malattia(perche’ di questo si tratta)molto fastidiosa che compromette la qualita’ della vita. i sintomi dell’ansia sono svariati i piu’ riconoscibili sono:senso di soffocamento, tremore,eccessiva emotivita’,forte senso di stanchezza,paura di pericolo imminente ,etc etc. tutto questo non e’ altro che un disturbo della personalita’ forse la parola suona un po’ forte ma puo’ farci capire semplicemente che il problema sta dentro di noi che qualcosa di noi sconosciuto alla nostra coscienza sta bussando alla porta prepotentemente quando l’ ansia diventa attacco di panico il quale per chi l’avesse provato sa benissimo che e’ una delle esperienze piu’ traumatizzanti che una persona possa provare i sintomi classici del dap sono:terrore improvviso,senso di angoscia,tachicardia(cuore che batte all’impazzata)paura di morire,tremore ed anche colite improvvisa. come avete gia’ potuto capire il dap non e’ altro cheansia portata ai massimi livelli e’ il nostro corpo che si blocca per dirci “se non l’hai capito con l’ansia che qualcosa dentro te non va ti blocco con l’attacco di panico cosi’ finalmente capirai che qualcosa qua dentro non va”. visto l’aspetto della malattia ora vedremo gli aspetti della cura.
Come si cura
il primo aiuto che possiamo ricevere sono sicuramente i farmaci che aiutano a tornare ad avere una vita sociale normale ma certamente se i farmaci ci aiutano a non bloccarci certamente non tolgono il senso di angoscia e insoddisfazione che sentiamo dentro ed e’ qui che interviene la psicanalisi e cioe’la discesa verso noi stessi e la conoscienza dei nostri aspetti e desideri piu’ istintuali. pensare di risolvere il problema solo con i farmaci e’ come spegnere la luce rossa sul cruscotto e viaggiare con l’acqua bollente nel motore. la psicanalisi possiede degli strumenti che permettono di scavare dentro di noi riconoscere la causa nascosta che ci porta a soffrire,riconoscere le le nostre emozioni e fare in modo che tutte le nostre emozioni lavorino insieme senza piu’ blocchi certamente una psicanalisi del profondo comporta molto tempo e la convinzione assoluta di voler conoscere tutto di noi.
Della nostra personalità noi conosciamo solo la parte superficiale ciò che ci è conscio ma nel nostro interno si agitano correnti a noi sconosciute.cosa succede quando noi soffriamo d’ansia? altro non succede che questi istinti che vivono in noi vogliono uscire alla luce del sole ma prima di arrivare alla nostra coscienza ecco che interviene il nostro super_io che riconosciendo queste pulsioni non moralmente corrette le rimuove e le mette in un magazzino ma quanto questo super_io non riesce piu’ a fare fronte a queste tempeste ecco che in questo momento noi proviamo le angoscie più forti e i sensi di colpa di cui non sappiamo dare la colpa el’ansia si fa terribile questo sta a voler dire che il nostro super_io la nostra diga non tiene piu’ e rischia di crollare.
Lo scopo della psicanalisi non è altro che evitare che queste correnti si abbattono sul nostro super_io sicuramente vi starete gia’ chiedendo come è possibile fermare queste correnti?la risposta non e’ sicuramente facile da dare ma semplificando al massimo il compito della psicanalisi e’ l’indagare sull’origine di queste pulsioni portando il paziente indietro nel tempo facendo rivivere queste sensazioni il perché non siano considerate moralmente accettabili e quindi rimosse portando a coscienza il paziente di tutte le sue sensazioni imparando a gestire le sue pulsioni/emozioni solo cosi’ si può rieducare una persona a godere di tutti gli aspetti di se’ e non mettersi in conflitto.
Il principio di piacere e’ legato ad una tensione di energia (un istinto)atta a raggiungere la sua scarica(la sua meta)su di un’oggetto. Il piacere altro non e’ che la cancellazione di questa tensione e quindi il ritorno alla pace percio’ potremmo riassumere che l’uomo tende a cercare la pace cercando di realizzare il suo piacere.
In psicoanalisi la realtà che noi percepiamo altro non è che la proiezione dei nostri desideri all’esterno ed il trauma non è causato da una situazione esterna ma bensì da un blocco delle nostre pulsioni. Quindi la realtà è composta da cio’ che noi “desideriamo “seguendo “il principio di piacere”, ma questi desideri subiscono dei vincoli dettati dalla relazione con le altre persone (morale) questi altro non sono che simbolismi o per meglio dire figure(padre, madre, patria etc etc) le quali dettano i rapporti umani. Come potete vedere la nostra “logica” inconscia e’ molto differente da cio’ che noi percepiamo a livello di coscienza.
In psicoanalisi il narcisismo sta a significare una fissazione(come narciso continuava a specchiarsi nello specchio)la quale non ci apre agli altri. In altre parole il nostro desiderio inconscio (piacere) è bloccato dalla realtà ma non essendo stato realizzato (cancellata la tensione) crea una fissazione che ci fa specchiare solo su noi stessi e non ci apre agli altri praticamente non cerchiamo la soddisfazione dei piaceri con gli altri (morale) ma da soli e andiamo contro il principio di realtà (la soddisfazione dei desideri rispettando la morale).
Durante il sonno il nostro super-io è meno vigile che durante la veglia per cui le tensioni psichiche si presentano più facilmente alla coscienza che tende a soddisfare queste tensioni con i sogni.
Anche durante i sogni il super-io tende a mascherare alla coscienza il vero senso delle pulsioni provenienti dall’inconscio per cui può capitare che durante un sogno angoscioso la psiche (così come la coazione a ripetere) tenda a soddisfare una tensione di piacere anche se questo provoca angoscia alla coscienza.
Stessa funzione per le fantasie e desideri che devono alleggerire la psiche dalle tensioni interne.
Le tensioni psichiche costringono la nostra psiche a trovare la maniera di scaricarle per poter tornare al suo stato di quiete.questo spiegherebbe la coazione a ripetere cioe’ la nostra psiche farebbe di tutto per poter eliminare la tensione rimossa per giungere alla quiete anche se questo porta alla sofferenza.secondo freud anche la pulsione di morte e’ una ricerca della psiche a giungere allo stato di quiete se essa e’ sottoposta ad una tensione che non riesce a essere scaricata sull’oggetto desiderato la psiche pur di eliminare questa tensione puo’ giungere anche a trovare la via dell’auto eliminazione (e quindi desiderare la morte)pur di trovare la quiete.
Riassumendo potremmo dire che i desideri sono tensioni che disturbano la nostra pace(quiete della psiche).
La fobia altro non è che una proiezione del proprio conflitto per esempio se una persona soffre di agorafobia (la paura degli spazi chiusi) il suo problema non è evitare di trovarsi in spazi angusti perché il vero problema è inconscio cioé questa persona proietta la sua angoscia (la tensione che deve essere soddisfatta e che crea un’angoscia alla coscienza) su di un’agente esterno ma che in realtà non è la causa dell’angoscia.
- Introduzione alla psicanalisi – Freud
- Che cos’è la psicoanalisi – Pierre Daco
- Psicoanalisi della società moderna – Freud
- Totem e tabù – Freud
- Casi clinici – Freud
- Psicopatologia della vita quotidiana-Freud La psicoanalisi infantile – Freud
- La psicoanalisi – Freud
- Ossessioni, fobie e paranoia – Freud
- Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna – Jung
- Il secolo della psicoanalisi – Jervis