Lo psicologo è il laureato in psicologia.
Lo psicologo, in quanto tale, non è un clinico, nè uno psicoterapeuta e quindi non può occuparsi di diagnosi e cura, in assenza di specializzazione o qualificazione, postuniversitarie.
Lo psicologo che abbia, dopo la laurea, superato l’esame di stato e sia iscritto all’Ordine degli Psicologi, è un laureato che da quel momento è anche abilitato all’esercizio della professione di psicologo.
A secondo della sua preparazione universitaria, cioè dell’indirizzo specifico scelto nel triennio, dopo i primi due anni di corso universitario e a secondo del tirocinio svolto almeno in un anno dopo la laurea, lo psicologo è teoricamente in grado, se abilitato, ad esercitare nei vari campi della psicologia, specifici legalmente per l’ esclusiva professionalità dello psicologo: scolastico, giuridico, infanzia e famiglia, sperimentale, aziendale, ricerca, clinico, ospedaliero ecc. Può, inoltre, fornire la consulenza psicologica. Per ottenere oltre l’abilitazione, anche la competenza, però, di solito dovrà seguire ripetutamente dei corsi di qualificazione e/o perfezionamento, nei vari campi e questo praticamente nel corso di tutta la sua vita professionale. Questa prassi pur essendo vera per molte professioni, è particolarmente vera per la professione psicologica in continuativa evoluzione, così come per la professione medica, dove occorrono incessanti aggiornamenti e riqualificazioni.
Nel caso specifico del campo clinico, lo psicologo laureato e abilitato dopo i cinque anni universitari, deve seguire almeno un anno di tirocinio presso strutture cliniche ospedaliere e/o private riconosciute. Quindi deve scegliere un corso di specializzazione o qualificazione, che avrà una durata minima di quattro anni, per ottenere il titolo di specialista nel campo specifico. Nel caso che egli voglia divenire psicoterapeuta, dovrà, inoltre, stare in analisi personale durante gli anni di specializzazione. Chi non voglia divenire psicoterapeuta, può anche limitarsi soltanto alla specializzazione quadriennale post-laurea in psicologia clinica. In questo caso, la maggior parte delle volte, lo specialista opera entro le strutture ospedaliere.
Lo psicologo e lo psicoterapeuta sono due figure professionali distinte e non equivalenti: lo psicologo non specializzato in psicoterapia non è qualificato a prendere in cura dei pazienti.
La stessa distinzione va fatta fra psichiatra, neurologo e psicoterapeuta: esse non sono figure equivalenti e sovrapponibili. Tuttavia, a differenza dello psicologo non psicoterapeuta il quale non può prendere in cura nessuno, lo psichiatra e il neurologo, in quanto laureati in medicina, possono prendere in cura i pazienti per praticare le terapie mediche, ma non possono e non devono curare con la psicoterapia, se non ne hanno la specializzazione.
Lo psicoterapeuta è uno specialista qualificato in psicoterapia, quindi è uno specialista per la diagnosi e la cura dei disturbi psicologici. Lo psicoterapeuta proviene indifferentemente sia dalla laurea in psicologia, che dalla laurea in medicina.
Non sono ammessi altri tipi di laurea per la specializzazione in psicoterapia.
Facciamo chiarezza
“La Psicologia Clinica é la “scienza che studia i problemi della personalità umana utilizzando la
metodologia clinica.La psicologia clinica studia la personalità umana in tutta la gamma delle sue
realtà, quindi non é lo studio della patologia psichica né una psicologia delle differenze ma si basa soprattutto sullo studio della psicologia cosiddetta normale. Essa ricerca e tenta di verificare la gamma delle modalità di adattamento o di disadattamento della personalità sia a livello intra-psichico che nei confronti delle realtà esterne” (L. Pinkus, Metodologia clinica in psicologia,Armando, Roma, 1975)”
Lo psicologo clinico è uno psicologo, il quale, laureato ed abilitato, ha frequentato il corso quadriennale post universitario in Psicologia Clinica, conseguendo il titolo di specialista. Oggi purtroppo in Italia sta accadendo una scandalosa concentrazione delle scuole di specializzazione in Psicologia Clinica presso le facoltà di Medicina, anzichè di Psicologia, con una probabile selezione a favore dei laureati in medicina e quindi sostanzialmente digiuni dei fondamenti della psicologia, per cui si correrà il rischio, fra alcuni anni, di trovare una gran quantità di cosiddetti psicologi clinici di derivazione medica e cioè non psicologi. Questi futuri ibridi saranno una via di mezzo incompleta fra lo psichiatra e lo psicologo clinico vero e proprio, cioè non saranno nè l’uno, nè l’altro, a rischio dell’utenza.
In pratica lo psicologo clinico è uno specialista che opera principalmente nelle strutture sanitarie pubbliche e/o private, ma talora anche privatamente a tempo pieno come libero professionista.
Egli è specialista nella psicodiagnosi, nella somministrazione dei tests, nel counseling, nell’orientamento e nell’organizzazione situazionale, sia nella normalità che nella patologia. Per queste specifiche caratteristiche uno specialista in psicologia clinica deve essere uno psicologo e non altro, poichè è evidente che egli deve possedere un background formativo specifico in psicologia, il che si può ottenere soltanto, come base, laureandosi in psicologia.
Lo psicologo clinico è una figura distinta dallo psicoterapeuta.
Differenza tra Psicologo e Psichiatra
Adesso si parla molto di counseling. Che cos’è. A che serve. A chi e in che cosa si differenzia dalla psicoterapia. Interessante, a questo proposito, anche se molto discutibile, o proprio perché molto discutibile, il pezzo di Tommaso Valleri.
Intanto il titolo: Counselor o/è psicoterapia? Mi ricorda il convegno che si fece nel 98′ alla SPC .Si era allora nel pieno di un dibattito iniziatosi quando certe immediate ricadute della legge 56/89 (ché prima di allora, diciamolo francamente, certi problemi, a parte i soliti scontri quasi rituali con i medici, non si erano mai, o quasi mai, posti) si resero evidenti in tutte le loro implicazioni anche ai più distratti o volutamente incuranti di certe basse questioni (così almeno le consideravano alcuni, psicoanalisti soprattutto) di politica professionale. Così partì l’operazione, operazione in verità assai più… politica di quanto non si sia mai voluto ammettere, volta a distinguere la psicoanalisi dalla psicoterapia e dunque a dimostrare che il suo esercizio (quello della psicoanalisi) poteva, anzi doveva svolgersi libero da ogni vincolo di legge riguardo l’esercizio della psicoterapia stessa.
Operazione che non poteva non produrre i suoi indesiderabili effetti collaterali. Per esempio che la domanda di psicoanalisi (formazione e fruizione) potesse subire un calo. Che la gente si mettesse a chiedersi in che cosa più consistesse l’offerta: se la psicoanalisi non è o non è più psicoterapia o almeno anche psicoterapia…. che cos’ è? A cosa serve? Perché spendere tanto per formarcisi? Perché spendere tanto per accedervi?
Il fatto è che una volta regolamentata la psicoterapia, fatto che, al di là dei pro e dei contro e delle ancora possibili migliorie che ancora si potranno ottenere di detta regolamentazione, io ritengo irreversibile, qualsiasi intervento psicologico sulla persona che si proponga come professionale e che nel contempo non voglia o non possa sottostare ai vincoli della legge 56/89, deve giocoforza riuscire a distinguersi (cosa non proprio facile) dalla psicoterapia. E’ toccato alla psicoanalisi per prima, poi anche alla mediazione familiare, oggi è il turno del counseling e già si parla di counseling ad orientamento psicoanalitico, sistemico, gestaltico, rogersiano…
Cosa non proprio facile, dicevo, perché certi distinguo sorti post legem e ormai diventati quasi slogan ruotanti tutti intorno all’assunto tutto sommato vago tanto quanto perentorio (di qui, come per gli slogan il suo carattere suggestivo?) che la psicoterapia si rivolge alle psicopatologie e il counseling invece no (promuove la salute) reggono fino a un certo punto. Come se promozione della salute della psiche e trattamento delle sue eventuali patologie fossero cose tanto facilmente separabili. O fossero cose tanto facilmente separabili certe prerogative del counseling come il potenziamento delle risorse di rogersiana memoria (ma non era Rogers uno psicoterapeuta?) o la consapevolizzazione del proprio disagio (ma non era stato Freud stesso a scoprire l’importanza terapeutica di certe prese di coscienza?) dal processo di guarigione della patologia. O come se la sofferenza psichica (prerogativa della psicoterapia) bastasse chiamarla “disagio” o … “problema” (un problema senza sofferenza?) per trasformarla ineccepibilmente in oggetto di counseling.
Dunque tanto vale denunciare chiaramente un fenomeno che è ormai da considerarsi dato storico, quello del grande sforzo iniziatosi post legem e a tutt’oggi in atto di certo ambito psicologico di ritagliarsi spazi di mercato (e spazi epistemologici volti a giustificarlo) ai limiti di quelli tradizionalmente arrogatisi dalla psicoterapia stessa. Fenomeno che, se da un lato risponde felicemente ad una domanda della gente in atto già molto prima della legge 56/89, quella di potere ricorrere allo psi… senza doversi definire e neanche sospettare “malato” (vado dallo psi…no, non perché abbia bisogno di curarmi, non sono mica malato, ma per confrontarmi, chiarire certe problematiche, analizzarle, arricchirmi, approfondire le mie consapevolezze, potenziare le mie risorse… ecc…) dall’altro lato rischia di colludere con detta domanda, la quale potrebbe coprire indizi o di per sé già essere sintomo di disturbo o… lo vogliamo usare il termine famigerato? L’innominabile? Di malattia.
Ma non si pensi che io intenda deprecare il fenomeno in questione. Da psicoterapeuta risentita di vedere oggi la psicoterapia attaccata un po’ da tutti, dagli psicoanalisti che guardano agli psicoterapeuti come ai ghostbusters della psiche, gli scacciasintomi, dai medici, ora dai counselor… Da psicoterapeuta più incuriosita e interessata al fenomeno in questione più di quanto lo stesso non possa causarle qualche irritazione io intendo denunciarne l’esistenza, capirne la portata e il senso.
Si tratta comunque di qualcosa che costituisce la prova di fatto che la relazione tra soggetti e la ricerca attraverso la stessa di soluzioni a quello che al momento a un di loro si presenta come problema può costituire di per sé professione ovvero offerta di relazione prof essionale (non mi piace granché il termine, peraltro molto in voga, di relazione d’aiuto che rimanda sempre un po’ all’idea di assistenzialismo, volontariato, o comunque a un tipo di rapporto libero dai vincoli imposti dalla professionalità) e ciò a prescindere dalla valenza prettamente terapeutica che a detta relazione vorranno assegnare, riconoscere oppure no, i suoi contribuenti.
E, al di là di ogni definizione formale, giuridica, epistemologica etc.., saranno alla fine proprio loro, i contribuenti a una relazione che si stabilisce tra una domanda di prestazione professionale da una parte e un’offerta dall’altra a connotare la relazione stessa, se si tratta di psicoterapia, counseling o quant’altro. Proprio come non possono essere altro che le persone interessate a decidere se certa relazione in corso tra loro è di amicizia o amorosa o d’altro tipo.
E lo faranno, sia gli uni che gli altri, non certo a caso, né ricorrendo a un atto del tutto arbitrario, bensì sulla base di valutazioni di vari elementi, formali e no, oggettivi (titoli di studio, abilitazioni etc..), soggettivi (l’importanza attribuita a detti requisiti da parte di chi fa domanda, i suoi desideri, le sue aspettative, le sue paure… i desideri le aspettative e le paure di chi si offre come capace e abilitato a rispondere a quella domanda) e intersoggettivi (quello che i contribuenti alla relazione in questione riusciranno a comunicarsi tra loro). Insomma tutto quanto andrà a costituire -ed è merito di Valleri aver posto l’accento su questo punto- il tanto decantato contratto. Contratto comunque sui generis perché vale in esso sì, come per tutti i contratti, tutto quello che si dichiara e ufficialmente si denuncia, ma poiché si tratta di un atto che è già parte integrante della relazione in corso, ovvero di un intervento sulla persona che si consuma all’interno di un atto comunicativo, vale in esso anche quello che non si dichiara e esplicitamente non si denuncia…
A cura di Patrizia Adami Rook
La legge italiana prevede che lo psicoterapeuta sia in possesso di una laurea in Psicologia o in Medicina e Chirurgia e abbia frequentato un corso di specializzazione almeno quadriennale, il cui statuto preveda un’adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, in una scuola di specializzazione universitaria o presso istituti riconosciuti in base a una specifica normativa di legge.
Lo psicoterapeuta, a differenza dello psicologo clinico, che auspicabilmente dovrebbe essere esclusivamente psicologo, può essere sia psicologo, che medico.
Se psicologo, lo psicoterapeuta ha, dopo essersi laureato e abilitato, conseguito la specializzazione e la qualificazione in psicologia clinica e psicoterapia, il che significa che oltre agli approfondimenti specialistici propri della specializzazione clinica, egli ha seguito per anni una formazione qualificante specialisticamente psicoterapeutica, in uno dei vari indirizzi della psicoterapia.
In particolare, inoltre, per divenire psicoterapeuta, egli si è sottoposto per anni ad un’analisi personale, sia per sperimentare in prima persona su di sè l’applicazione della psicoterapia e sia per individuare e risolvere le proprie discrasie psicologiche, prima che gli venga consentito di cominciare a seguire dei pazienti. Da alcuni anni in Italia questo percorso è stato regolamentato per legge, per cui attualmente la specializzazione e la qualificazione in psicoterapia, dopo la laurea, possono e devono essere conseguite, sia presso le scuole di specializzazione universitarie e sia presso le scuole private che abbiano ottenuto il riconoscimento dallo Stato. In ogni caso, durante la fase finale di formazione, il futuro psicoterapeuta normalmente comincia a seguire i primi pazienti sotto la supervisione dei didatti e normalmente è prassi diffusa e in alcuni casi obbligo, che il terapeuta già qualificato, si sottoponga a supervisione clinica e personale, periodicamente, per tutta la sua vita professionale. Inoltre egli deve costantemente mantenersi aggiornato nel vasto campo delle neuroscienze, quasi sempre essendo membro di istituzioni scientifiche a carattere internazionale.
Se medico, lo psicoterapeuta segue dopo la laurea e l’abilitazione, esattamente lo stesso percorso già descritto per lo psicologo. Nel suo caso, però, gli è possibile, oltre che conseguire la specializzazione in psicologia clinica, scegliere di conseguire in alternativa la specializzazione in psichiatria o altro. Per cui lo psicoterapeuta psicologo è esclusivamente psicologo-clinico-psicoterapeuta, mentre lo psicoterapeuta medico è medico-altra specializzazione varia-psicoterapeuta. Ovviamente per il medico è fortemente consigliato, se vuole validamente qualificarsi in psicoterapia, seguire dopo la laurea esclusivamente psicologia clinica o psichiatria, specialmente perchè a differenza dello psicologo egli proviene da un corso di studi universitari, che per la loro organizzazione, lo hanno praticamente lasciato del tutto ignaro anche dei minimi fondamenti, non solo della psicologia, ma anche della psicofisiologia, cioè lo studio del cervello psichico. Infatti quasi sempre il medico mantiene la visione del cervello e del sistema nervoso centrale, soltanto dall’ottica neurologica e ciò lo rende spesso poco preparato e inadeguato nella diagnosi e nel trattamento delle malattie psicosomatiche.
Una volta formatosi, lo psicoterapeuta, da qualsiasi delle due facoltà universitarie provenga, è uno specialista qualificato alla diagnosi e cura dei disturbi psichici e delle malattie mentali. Poichè nella maggior parte dei casi il trattamento dei disturbi psichici e delle malattie mentali, richiede la somministrazione binaria sia della psicoterapia che della psicofarmacoterapia, ovviamente lo psicoterapeuta psicologo deve affiancarsi ad una o più figure mediche. Ciò non significa, comunque, che lo psicoterapeuta psicologo non sia competente sul versante biologico dei disturbi e delle malattie che tratta, ma significa che, non essendo medico, non può stabilire in proprio nè diagnosi, nè terapie, quando implicano anche valutazioni di medicina generale o specialistica. Per questo deve avvalersi della collaborazione di medici. Lo psicologo psicoterapeuta comunque è in grado di eseguire autonomamente le anamnesi, cioè le indagini cliniche che possano condurlo competentemente al “sospetto diagnostico”, cioè a sospettare le variabili per la diagnosi differenziale, in modo da potere interagire competentemente con il medico del quale si avvale della collaborazione. Questa competenza dello psicoterapeuta psicologo, è indispensabile affinchè possa essere evitato il rischio di intrattenere in monoterapia psicoterapica un paziente che potrebbe invece giovarsi tempestivamente del supporto degli psicofarmaci, o di altre terapie mediche. Oppure per evitare che disturbi psicologici con eziologia primariamente organica, vengano trattati eludendo la malattia somatica che li produce. Inoltre questa competenza da parte dello psicologo psicoterapeuta è indispensabile, affinchè la somministrazione degli psicofarmaci, spesso necessaria durante la psicoterapia, non avvenga da parte del medico in funzione isolata rispetto alla contemporanea psicoterapia. Anzi, lo psicologo psicoterapeuta deve essere in grado di valutare autonomamente, circa gli psicofarmaci, ipotesi sulla categoria farmacologica, la posologia, la combinazione e la durata del trattamento e inoltre circa le varianze osservabili relativamente all’interazione fra i farmaci e gli accadimenti in psicoterapia. Queste sue ipotesi autonome, che deve essere in grado di produrre con competenza indipendente, saranno condivise con il medico affinchè questi, a sua volta, possa fare le altre valutazioni mediche necessarie e di sua competenza, per passare alla fase pratica della prescrizione che, in ambito psichico, non deve mai essere un atto isolato del medico.
Lo psicoterapeuta medico, in linea puramente teorica potrebbe anche agire in modo soggettivamente isolato nei vari passaggi descritti nel paragrafo precedente, poichè potrebbe coagulare in sè sia la figura psicoterapeutica, che medica. Ciò, pur essendo teoricamente possibile, è, da un punto di vista clinico, fortemente sconsigliabile, se non addirittura errato e controproducente. Infatti l’efficacia del trattamento psicoterapeutico, si fonda su una moltitudine di fattori, uno dei quali è il fatto che lo psicoterapeuta deve rimanere rigorosamente una figura di riferimento con cui condividere ed elaborare i contenuti e i processi mentali e, qualunque sia il metodo e la tecnica dello psicoterapeuta, è fondamentale che le questioni circa le situazioni, l’ambiente, gli eventi quotidiani del paziente, restino in secondo piano rispetto ai contenuti e ai processi mentali, nel senso che esse devono essere trattate soltanto come elemento di riferimento per giungere subito ai contenuti e ai processi mentali coinvolti con quelle situazioni o eventi. Altrimenti la psicoterapia si deforma e si trasforma rapidamente in una qualsiasi forma di consulenza, o peggio, di chiaccherata sulle varie situazioni, per esordire in consigli, pareri, conforto e così via.
Se accade questo, non c’è più psicoterapia.
E’ dunque evidente che se lo psicoterapeuta medico fa anche il medico con il paziente che segue in psicoterapia, inevitabilmente si trasferisce dalla mente al corpo, agli oggetti reali del quotidiano, deve praticamente intervenire nel mondo reale del paziente e offre a questi un pretesto formidabile per contaminare continuamente le sedute di psicoterapia, con questioni organiche, farmacologiche, familiari e situazionali, organizzative, implicando spesso altri familiari nelle visite e nelle cure e così via. In pratica lo psicoterapeuta medico deve scegliere con ogni paziente se essere il suo psicoterapeuta, o il suo medico, evitando con molta attenzione di essere ambedue insieme. Queste considerazioni implicano la conclusione circa il fatto che è indifferente che lo psicoterapeuta sia psicologo o medico: egli deve essere comunque un bravo psicoterapeuta, con serie competenze psicologiche e psicobiologiche, nel momento diagnostico e psicofarmacoterapeutico. Per tutto il resto deve intervenire un altro medico con il quale lo psicoterapeuta deve interagire nei modi già descritti.
Nonostante l’attuale situazione formativa, universitaria e post universitaria, in Italia vi sono sicuramente molti psicoterapeuti affidabili, più di quanti ne formerebbe l’organizzazione universitaria attuale. La buona qualità degli psicoterapeuti italiani è stata data, finora, dalla buona volontà e intraprendenza dei singoli, i quali hanno perfezionato la loro preparazione, oltre l’iter previsto, a proprie spese e spesso servendosi di istituzioni private e residenti all’estero. Ciononostante è urgente una drastica riforma universitaria e post-universitaria, poichè resta alto il rischio di avere psicologi psicoterapeuti scarsamente preparati sul versante psicobiologico e medici psicoterapeuti scarsamente preparati sul versante psicologico.
Lo psicoterapeuta e lo psichiatra, sono due figure da distinguere nettamente.
Lo psichiatra non è uno psicoterapeuta.
La Psicoterapia – Significato
E’ il Trattamento del disagio psicologico per mezzo di tecniche che riguardano prevalentemente la comunicazione verbale ed emotiva e altri comportamenti simbolici. È difficile delimitare con sufficiente precisione il concetto di psicoterapia, a causa della molteplicità delle tecniche raccolte sotto questa etichetta comune, molte delle quali tuttora in via di sviluppo e di verifica. In termini generali, si può definire la psicoterapia come una sistematica interazione verbale o simbolica di un terapeuta con uno o più pazienti, guidata da un certo numero di concetti relativi a una teoria della personalità e volta a produrre un cambiamento positivo nel paziente. Il richiamo a una teoria della personalità e alla sistematicità dell’intervento terapeutico consente di escludere dalla definizione i trattamenti fatti per istinto, intuito, arte, fede o per una qualsivoglia motivazione umanitaria. Benché non si possa negare che anche questi ultimi producano talvolta – o persino frequentemente – benefici effetti, si preferisce infatti riservare la dizione di psicoterapia alle tecniche la cui capacità di indurre cambiamenti positivi è riconducibile a specifici, selezionati e controllabili fattori terapeutici, piuttosto che a una generica influenza benefica. Il dibattito sull’identificazione di questi fattori terapeutici è tuttora assai vivace fra gli esponenti delle diverse scuole, anche perché alcune recenti pubblicazioni statunitensi hanno identificato ormai più di 400 tipi di psicoterapie differenti.
Psicoterapia Psicoanalitica
Si basa sulla teoria e sulla tecnica psicoanalitica, che sono state formulate da Sigmund Freud.
Sigmund Freud
Influenzato dalle lezioni di Jean-Martin Charcot, che dimostravano l’efficacia terapeutica dell’ipnosi, Freud utilizzò inizialmente questa tecnica per fare emergere nei pazienti nevrotici i ricordi dolorosi e sepolti nella memoria, che riteneva essere alla base dei sintomi. Egli presupponeva che nel corso dello sviluppo dell’individuo, le pulsioni (i desideri e gli impulsi) sessuali e aggressive, inaccettabili, dovessero essere estromesse dalla coscienza. La pressione di questi desideri estromessi (o rimossi) si traduceva spesso nella formazione di sintomi nevrotici. Attraverso l’ipnosi, Freud si proponeva di riportare alla coscienza tali impulsi e, in questo modo, eliminare i sintomi. Quando si rese conto che questo non accadeva, formulò una nuova tecnica di trattamento, che chiamò delle libere associazioni. Chiedeva ai pazienti di riferire quanto veniva loro spontaneamente in mente quanto a sogni, fantasie e ricordi. Interpretando queste associazioni spontanee, Freud aiutava i pazienti ad acquisire consapevolezza dei propri desideri inconsci e, quindi, a renderli più accettabili. In seguito, egli si occupò di quello che chiamò transfert, vale a dire la risposta emotiva del paziente al terapeuta, che Freud considerò rappresentativa dei primissimi rapporti instaurati dal paziente con i membri della propria famiglia. La tecnica delle libere associazioni e l’analisi del transfert costituiscono tuttora le caratteristiche peculiari del trattamento psicoanalitico freudiano, che si svolge in un arco di tempo di durata variabile, con una frequenza di sedute che può variare dalle tre alle cinque alla settimana.
Scuole psicoanalitiche dissidenti da Freud
Alcuni degli allievi di Freud entrarono in disaccordo con lui su punti molto importanti della teoria e della tecnica di trattamento e, di conseguenza, fondarono scuole proprie, ancora esistenti.
Carl Gustav Jung
Carl Gustav Jung, psichiatra svizzero, riteneva che Freud avesse attribuito eccessiva importanza agli istinti sessuali come origine del comportamento e che il requisito della salute mentale fosse la realizzazione delle potenzialità interiori (di origine non sessuale) dell’individuo. Nel corso di un’analisi a orientamento junghiano, il terapeuta aiuta il paziente a riconoscere le proprie risorse interiori e a utilizzarle per la crescita e per fare fronte ai conflitti. La frequenza delle sedute varia a seconda della fase (iniziale o progredita) del trattamento, la cui durata è variabile. Le tecniche utilizzate sono molteplici e spesso includono riferimenti all’arte e alla cultura per indurre nel paziente le immagini inconsce (archetipi), che per Jung costituivano degli elementi universali, cioè condivisi da tutti gli esseri umani in tutte le civiltà.
Alfred Adler
Anche Alfred Adler, psicologo austriaco, dissentì sul ruolo degli istinti sessuali nell’origine del comportamento. Egli riteneva che la condizione del bambino all’inizio della vita, piccolo e bisognoso di aiuto, producesse sentimenti di inferiorità, ai quali alcune persone reagivano sforzandosi di raggiungere la superiorità sugli altri. Questa ricerca di potere è in contrasto con ciò che Adler chiamò “interesse sociale”, vale a dire la possibilità di provare simpatia e di identificarsi con le altre persone. Secondo Adler, i disturbi mentali dipendono da un modo di vivere scorretto, in quanto basato su opinioni e obiettivi erronei e in cui non può svilupparsi un interesse sociale. Ruolo del terapeuta è quello di rieducare il paziente a riconoscere i propri errori e a sviluppare maggiormente il proprio interesse sociale.
Psicoterapia di gruppo
Il passaggio dalla psicoterapia in seduta individuale alla psicoterapia in seduta di gruppo, rappresenta una evoluzione migliorativa. Infatti raramente una persona può entrare in un gruppo già all’inizio del trattamento, anzi, questo è spesso controindicato. Quando invece il paziente ha conseguito nella terapia individuale un sufficiente controllo cognitivo dei suoi processi mentali, di solito è pronto ad accedere alla fase superiore della psicoterapia, effettuata in un gruppo. Nella psicoterapia in gruppo, infatti, sarà molto di più, possibile trattare dal vivo le difficoltà della persona, così come si esprimono nelle relazioni sociali. Inoltre egli potrà condividere con altri pazienti in analisi, non tanto situazioni simili, poichè ogni persona ha ovviamente una condizione situazionale diversa dall’altra, ma i processi mentali che conducono alla sintomatologia, che invece sono comuni e molto simili, in quasi tutte le persone che soffrono di disturbi psichici. Il passaggio in gruppo dunque incrementa la forza e l’efficacia della terapia. Inoltre è anche vantaggiosa sul piano quantitativo, poichè un incontro di gruppo ha una durata molto più elevata di una seduta individuale e nonostante ciò, la parcella è più bassa, consentendo anche un risparmio economico.
Terapia Integrata
Propongo anzitutto delle domande ricorrenti, alle quali diffusamente molti rispondono ricorrendo spesso a proprie opinioni personali. Qui io presento alcune mie risposte.
Perchè la psicoterapia? Se si continua a parlare di “malattie” psicologiche, queste, come tutte le malattie, non si devono curare con le medicine? Cosa c’entra, allora, l’incontrarsi fra persone, il parlare, con la cura di una malattia? Tanto si parla dappertutto, esaltandone l’effetto curativo e risolutivo, dei farmaci antidepressivi e ansiolitici, spiegando che da qualche parte nel cervello una certa serotonina o una certa noradrenalina sono carenti o eccessive. Non si fa in tempo ad ascoltare, a questo proposito, grandi discorsi in una trasmissione televisiva ed ecco che compare, sempre su questo argomento, l’articolo su quella certa rivista che si occupa di salute, o in una pagina su quell’ altro quotidiano.
Ci dicono che ormai con le pillole si guarisce dall’impotenza, dall’obesità, dalla timidezza, dalla depressione, dalle paure e dalle incertezze. Niente più insonnia, niente più ansia. In molti modi si può vendere, esaltandolo, il modello dell’uomo “che non chiede mai”, sereno, freddo, sicuro e così via. Con tutte queste enfasi circa il fatto che i disturbi psichici possono essere risolti con alcuni mesi di psicofarmaci, credo involontariamente e indirettamente, ma non meno efficacemente, molti eminenti esponenti della salute psichica, trascorrendo così tanto tempo sul palcolscenico delle televisioni e dei giornali, contribuiscono a gonfiare questo pericolosissimo modello. Alcuni perfino e non so quanto ancora in buona fede, addirittura continuano a dividere mente e corpo come se fossero due dimensioni completamente diverse, come se cervello e psiche, cervello e mente fossero due entità estranee fra loro. Questo è incredibilmente anacronistico e principalmente è irriguardoso verso le più moderne acquisizioni scientifiche su cervello e psiche.
Allora, perchè la psicoterapia?
Si dice che i sintomi psichici disturbanti, come l’ansia, i disturbi umorali, le fobie, sono presenti in persone che hanno nel loro cervello un disturbo nel metabolismo della serotonina, noradrenalina, GABA e così via. E’ vero. E si dice che somministrando gli psicofarmaci, queste sostanze, dopo alcune settimane di regolare assunzione delle medicine, cominciano a ‘circolare’ più regolarmente nei siti dove sono preposti, con corrispondente miglioramento dei sintomi. E’ vero. Si dice anche che vi sono diversi casi nei quali la persona disturbata, dopo un adeguato e lungo periodo di assunzione degli psicofarmaci, non solo migliora notevolmente nei sintomi e nelle sue condizioni generali, ma mantiene a lungo il miglioramento dopo la cessazione dei farmaci, a volte mantiene il miglioramento indefinitamente. Per questo, in questi casi, si dice che è guarito.
Ma allora, perchè mai la psicoterapia?
Ebbene, la psicoterapia perchè non si deve lasciare la persona disturbata abbandonata al caso. Infatti molte volte, le persone curate esclusivamente con gli psicofarmaci, non vanno oltre un transitorio miglioramento dei sintomi e molte volte, cessando il periodo di trattamento farmacologico, dopo un pò, recrudescendo i sintomi, essi devono intraprendere un nuovo ciclo di copertura e questo spesso ripetutamente per diversi anni, se non per tutta la loro vita. Questo accade perchè gli psicofarmaci ( e in questo momento mi sto riferendo specificatamente agli antidepressivi e agli ansiolitici ), intervengono egregiamente a normalizzare il funzionamento delle monoamine ( serotonina, noradrenalina ecc. ), cui sono destinati nel cervello, ma non possono intervenire sulle cause, ancora ignote o incerte, dell’alterazione di queste sostanze, per cui, cessando il trattamento, le cause inducono le monoamine a ‘guastarsi’ nuovamente. Si è notato che nei casi in cui il miglioramento si è invece prolungato nel tempo, dopo la cessazione dei farmaci, ciò avveniva, con molta probabilità, perchè il soggetto casualmente durante il miglioramento sintomatico dovuto ad essi, riusciva a intraprendere attività gratificanti, oppure incontrava una persona significativa con la quale riusciva a instaurare una buona relazione amorosa, oppure altro ancora. In tutti questi casi, comunque, il soggetto manteneva a lungo il benessere dopo i farmaci, non come effetto dei farmaci stessi, ma come effetto di ciò che egli stesso era riuscito a fare per sè durante la vacanza sintomatica artificiale data dai farmaci. E’ evidente che questi risultati sono, dunque, affidati alla casualità di opportunità che si presentano al soggetto durante quella che io chiamo ‘la vacanza sintomatica artificiale’ data dai farmaci. Infatti da sempre la psichiatria non riesce a spiegarsi perchè mai gli psicofarmaci ottengono risultati sempre imprevedibili e sempre diversi, da una persona all’altra, pur in presenza di una identica sindrome ( insieme di sintomi ), oppure nella stessa persona da un ciclo di cura all’altro. La risposta è che nessuno, quando somministra gli psicofarmaci, può prevedere la variabile ambientale e quindi in alcuni casi l’effetto benefico dei farmaci è minimo, per il semplice fatto che gli psicofarmaci non possono fare più di tanto, se non intervengono contemporaneamente fatti ambientali positivi: cioè un transitorio effetto sintomatico, il quale, se non viene supportato da casuali eventi positivi e benefici per il soggetto, cessa poco dopo la fine della cura. Talvolta, in assenza di mutamenti e/o di supporti ambientali, neanche riescono a produrre un effetto significativo durante la somministrazione. Per le stesse ragioni gli effetti collaterali sono tanto diversi e imprevedibili, da persona a persona e spesso nella stessa persona da un periodo all’altro, pur con lo stesso farmaco. Poichè dunque quello che sembra essere determinante nella cosidetta guarigione, sono le cose che il soggetto riesce a fare e a mantenere di bene per se stesso, è lecito supporre che un controllo sintomatico che non si voglia cronicamente affidato agli psicofarmaci, dovrà fondarsi su qualche acquisizione endogena e intrinseca al soggetto stesso. In pratica, quando durante ‘la vacanza sintomatica farmacologica’ il soggetto riesce a esperimentare qualcosa di positivo e riesce a trattenerla per sè come acquisita, ciò equivale al fatto che il soggetto ha acquisito una nuova padronanza, una nuova esperienza e quindi un nuovo punto di vista, rispetto a prima. Diciamo, ha acquisito un nuovo e diverso modo di pensare rispetto a se stesso, agli altri e al mondo. Tolti i farmaci, quel nuovo modo di pensare resterà suo e sarà come il vero antidepressivo installato in sè, spesso senza più necessità di assumerlo dall’esterno.
La psicoterapia serve a questo: a non lasciare al caso la variabile ambientale, almeno non del tutto. In pratica in psicoterapia si diagnostica e si analizza l’organizzazione del pensiero del soggetto e lo si aiuta a rendersi conto di come con quel tipo di organizzazione mentale che possiede, risulta praticamente ‘normale’ che debba sentirsi male così come si sente. Si aiuta il soggetto a divenire consapevole delle varie relazioni di causa-effetto che vi sono fra i suoi punti di vista, opinioni, convinzioni e pensieri in generale, da una parte, e le risultanti emotive, comportamentali, somatiche e sintomatiche, dall’altra. Nel frattempo lo si aiuta a cominciare un ciclo di trattamento psicofarmacologico adeguato, sotto controllo medico, spiegandogli che questo è necessario per alleviare rapidamente i sintomi, affinchè egli possa lavorare più efficacemente sui suoi pensieri da modificare. Lo si informa adeguatamente che dai farmaci non deve aspettarsi niente di più di un buon controllo e miglioramento sintomatico e lo si incoraggia ad approfittare del periodo di vacanza sintomatica artificiale, per cercare di ottenere il massimo possibile, in psicoterapia, dal suo stesso sforzo ed applicazione, per modificare e guarire.
Nella mia attività, sia io che i miei colleghi medici ( neurologi, endocrinologi, cardiologi ecc. ), lavoriamo in pool, cioè interagendo coordinati sullo stesso paziente, usando un linguaggio comune per non disorientarlo. Si evita l’enfasi sia sui farmaci, i quali, come ho tentato di spiegare qui, hanno un semplice ruolo circoscritto, sia sulla psicoterapia, la quale a volte rende di meno senza gli psicofarmaci, poichè si avvale del servizio che le rendono, alleviando il sintomo. Si mette in rilievo che la cosidetta guarigione, sarà un fattore di buon risultato ottenuto insieme, paziente e psicoterapeuta, nella misura in cui la persona riuscirà ad utilizzare lo strumento ‘psicoterapia’ secondo le istruzioni e la guida dello psicoterapeuta, pazientemente e costantemente, per tutto il tempo della durata del trattamento psicoterapeutico e nella misura in cui, laddove servano, assumerà rigorosamente gli psicofarmaci.
Differenza tra Psicologo e Psichiatra
Che differenza c’è tra lo psicologo e lo psichiatra?
Lo psichiatra è essenzialmente un laureato in medicina specializzato in psichiatria. Lo psichiatra non è psicologo, a meno che non abbia anche una laurea in psicologia e sia iscritto all’albo degli psicologi. La differenza sostanziale sta nell’approccio utilizzato, il modo di vedere il soggetto che chiede aiuto. Quello psichiatrico è del tipo diagnosi-cura ed il trattamento è spesso farmacologico. Lo psicologo è invece “uno psicologo” ovvero svolge una professione diversa dallo psichiatra. Innanzitutto ha conseguito una laurea quinquennale in psicologia, ha svolto attività di tirocinio pratico in un settore psicologico e si è abilitato all’esercizio della professione sanitaria di psicologo iscrivendosi all’albo degli psicologi. Egli nella sua attività clinico-sanitaria tende a non incasellare l’individuo in relazione alla diagnosi poiché centro della cura è la persona e non il sintomo, pertanto non utilizza psicofarmaci. La somministrazione del farmaco non è un qualcosa in più ma una metodologia differente che, da un punto di vista psicologico, è necessaria soltanto in casi gravi ed in genere difficilmente curabili. Attualmente, ad esempio, con un’attenta valutazione è possibile risolvere in tempi molto brevi e senza ricorso a farmaci, problematiche frequenti come attacchi di panico.
La terapia neurologica non va confusa con quella psichiatrica, nè con quella psicoterapeutica.
La neurologia si occupa del vasto campo delle malattie organiche del sistema nervoso e non delle conseguenze psicologiche delle malattie stesse, delle quali invece ci si occupa in primis psichiatricamente nei casi delle grandi malattie mentali e in primis psicoterapeuticamente nei casi delle medio-lievi.
Il neurologo e lo psichiatra tuttavia sono molto affini nelle loro specializzazioni, per potere diagnosticare la componente organica quando vi sono disturbi psicologici. Lo sono di meno quando si tratta di applicare la terapia multimodale, cioè psicoterapia + farmaci, perchè il neurologo è molto meno formato dello psichiatra sul cervello psichico, cioè sulle funzioni psicologiche del sistema nervoso centrale, così come lo psichiatra è molto meno formato del neurologo sul versante neurologico del sistema nervoso centrale. Quindi le due specializzazioni coincidono abbastanza a livello diagnostico, ma si divaricano a livello terapeutico multimodale. Possono affiancarsi nuovamente quando si applica la monoterapia farmacologica, cioè a prescindere dalla psicoterapia, in quanto la prescrizione farmacologica è un atto medico destinato al controllo dei sintomi. Come visto in altre pagine del sito, però, questa prassi di prescrizione psicofarmacologica isolata, è da escludere il più delle volte, nella psicopatologia medio-lieve, dove invece va abbinata alla psicoterapia.
In sostanza, in psicopatologia è buona prassi applicare un approccio interdisciplinare dalla diagnosi fino alla terapia, coordinandosi gli specialisti del versante organico, con quelli del versante psicologico, giusto per le rispettive diverse e distinte formazioni e competenze, che non sono e non devono essere sovrapponibili.