IL PROBLEMA È LA SOLUZIONE.
L’ abbandono e l’ atrofia emotiva, generatori di ossessioni.
Una macchina perfetta, ecco come mi si poteva definire fino a qualche mese fa: sul lavoro prestazioni sempre al top, successi professionali, riconoscimento sociale, apprezzamento e stima da parte di amici e colleghi, forte senso del dovere, dedizione e abnegazione verso ogni tipo di responsabilità.
Apparentemente tutto impeccabile e gratificante, il giusto merito per tanto sforzo profuso e per il grande investimento fatto nel lasciare la mia città di origine dopo la laurea in ingegneria (conseguita ovviamente con il massimo dei voti) per accettare il meritato lavoro in una società prestigiosa nel campo di applicazione dei miei studi.
Avevo nel tempo orientato la mia vita verso questa direzione, facendo affermare involontariamente e forse inconsapevolmente quella parte di me logica e razionale a discapito di quell’essenza emotiva e istintiva che, per propria natura, è imperfetta, autonoma, libera da schemi e pregiudizi sociali. E tutto questo andava bene, mi sentivo bene, fino a quando realizzo di avere un problema.
Succede tutto sei mesi fa.
L’incontro con il mio fidanzato storico, con l’amore della mia vita, con colui che in passato avevo creduto sarebbe stato il padre dei miei figli, a distanza di diversi anni dalla rottura del nostro rapporto mi ha fatto fare i conti con un bilancio di vita personale che evidentemente non era così perfetto come inconsapevolmente mi convincevo che fosse.
La nostra storia (probabilmente tutti lo pensano della propria) era speciale: ci eravamo cercati negli anni, prima nell’adolescenza e poi da ragazzi adulti, ritrovati e riscoperti sorprendentemente ed eccezionalmente uguali a condividere la stessa idea di vita, ma purtroppo ci eravamo ‘dati per scontati’ e così i micro-obiettivi professionali che ci eravamo prefissati, e per i quali avevamo temporaneamente deciso di stare lontani, nel tempo ci avevano allontanato sempre più dal macro-obiettivo di stare insieme per sempre, la mancanza di condivisione di una quotidianità vera vissuta e di una prospettiva di vita insieme ci aveva portato a ferirci, odiarci, non facendoci ritrovare più, tanto ci eravamo fatti prendere dalle nostre vite separate che contemplavano un noi solo come rapporto a distanza, un noi nel presente, un noi senza futuro.
Quando mi ha lasciato ho patito le più grandi sofferenze della mia vita, e lui non faceva altro che alimentare il forte senso di colpa che mi portavo dentro per essere stata, apparentemente, l’elemento scatenante di quella rottura.
…Ma la vita per fortuna continua, con il mio ottimismo, la mia energia e l’affetto delle persone a me più care sono riuscita ad andare avanti, costruendo peró, un pezzettino dopo l’altro, una corazza invisibile che mi rendeva orgogliosamente immune al dolore per amore…
Qualche contatto avuto poi nel tempo con lui ci aveva fatto riscoprire più maturi, senza rancori e con i bei ricordi del passato sempre vivi, sebbene ormai con percorsi di vita distanti e forse divergenti, ma con la convinzione comunque che la nostra fosse stata una storia speciale.
Ma torniamo al nostro incontro di sei mesi fa: dopo uno scambio di messaggi buttati lì quasi per gioco decidiamo di trascorrere un paio di giorni insieme, così, senza aspettative, in virtù del grande affetto che ci lega, ‘per stare un po’ di tempo insieme e vedere come va.’
Be’, il nostro incontro ha riaperto in me sofferenze e ferite talmente sommerse e represse che fanno molto più male di quelle del passato, mi ha gettato nello sconforto, dal momento che, dopo giorni idilliaci in cui lui ha cominciato a rievocare le meraviglie del nostro rapporto, fa retromarcia e matura la saggia convinzione che tra noi non ci potrà mai più essere niente.
Ed io, che ero davvero partita per quei giorni senza aspettative, con un ‘vediamo come va’, ci sono cascata appieno, sottovalutando le mie debolezze e bastando quindi poco a farmi credere che un ‘noi’ potesse ancora esserci.
E così avviene l’ennesimo distacco dall’uomo che più ho amato nella mia vita. Nei giorni seguenti sono stata fermamente trattenuta dal cercarlo perché avevo lucidamente realizzato che
“non avrei sopportato un ulteriore distacco. E la paura di questo distacco, di qualsiasi forma di distacco, da persone e oggetti”,
comincia da lì ad avvinghiarsi a me, fa a pugni con la mia razionalità, prende il controllo della mia vita.
E così me ne torno a casa, logorata e sofferente, senza aria, disperata, e nella mia testa prende forma la consapevolezza che, dopo tutti questi anni di sacrifici ricompensati da eccezionali traguardi professionali raggiunti, mi ritrovo in una città che non è la mia, senza aver costruito una famiglia, attualmente senza tempo libero perché ‘incastrata’ in un lavoro super impegnativo che ha reso fertile il terreno affinché la mia emotività uscisse da questa vicenda distrutta.
E così la corazza stratificata nel tempo a causa delle delusioni e sconfitte del passato si è sgretolata in un attimo come un vaso di terracotta che, scivolandoci dalle mani, arriva al contatto con il suolo, da dentro è spuntata fuori una bambina indifesa, spaventata, una me che ha terribilmente paura di restare sola.
E allora, sopraffatta e ossessionata delle emozioni che avevo congelato per quasi dieci anni, decido, contro ogni mia passata diffidenza, di rivolgermi ad uno specialista che mi aiuti a decifrare – proprio a me che sono così brava a fare tutto e a dare saggi consigli agli altri… – il labirinto emotivo all’interno del quale non mi riesco più a districare.
E così accetto l’idea di aver bisogno anch’io di aiuto, di aver bisogno di un ‘decoder’ in carne ed ossa (lo dico con la massima stima verso il complicatissimo lavoro che il dottore sta facendo) che mi sta supportando nell’interpretare le ansie e paure che mi tormentano, ma soprattutto mi sta incoraggiando a espormi ed aprirmi ai sentimenti, anche se il mio io più profondo vede il rischio intrinseco, vede la possibilità di ulteriori sofferenze e ha difficoltà a lasciarsi andare verso una dimensione che da anni non è più la sua.
Dal confronto con i ragazzi incontrati in terapia di gruppo (anche lì dopo una prima fase di diffidenza verso una condivisione dei propri problemi) inizio a vedere sciogliersi il mio distacco verso gli altri, il pensiero assurdo che i problemi si devono superare esclusivamente con le proprie forze, apprezzo la genuinità e trasparenza dei ragazzi, tutti esposti a presentarsi per come sono, a tendere la mano, a non giudicare, ad aiutare anche senza volerlo.
Sto scrivendo tanto e di getto e mi rendo conto di non aver ancora chiarito che il mio obiettivo di questo percorso non è più riavvicinarmi al mio ex: ormai, se magicamente tornasse da me come il principe delle favole, non sarebbe quello che voglio e non mi renderebbe felice.
Dal nostro incontro in fondo si è attivato un meccanismo che, sebbene ora mi faccia stare male, sebbene io l’abbia visto e definito come ‘problema’, mi sta aiutando a mettere in ordine un po’ di cose, soprattutto a comprendere l’importanza di essere me stessa e non quello che gli altri vogliono che io sia: magari mi scoprirò un po’ meno perfetta, ma sarò felice di essere consapevole di me.
Stavolta almeno é cambiata la prospettiva, ho capito veramente che devo guardare in un’altra direzione che sia concentrata e sincera su di me.
E soprattutto, grazie alla terapia, ho compreso che la sofferenza e la paura dell’ abbandono, i sentimenti e le emozioni tutte, mascherate attraverso le ossessioni, vale a dire ciò che sei mesi fa mi sembravano il problema, di fatto sono la via verso la soluzione: sono comunque le mie emozioni che, per fortuna, esistono ancora e che mi fanno capire che non sono un robot e che c’è ancora spazio per amare, gioire, rischiare, sbagliare, vivere essendo libera di essere me stessa.
Quando recupero il tempo per me, colgo e lascio esistere l’ affetto profondo o meno, quando accolgo il mio “sentire” silente, i sintomi ossessivi non esistono più, come se non fossero mai esistiti.
C.
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