Il Numero Uno e il Numero Due
Il Numero Uno e il Numero Due (c)
Esprimere davvero la propria natura, o un lato di noi che normalmente rimane nascosto può essere difficile ma anche sorprendente. Spesso, fin da piccoli, impariamo a soddisfare le aspettative degli altri – genitori, amici, società – e a volte, per evitare il conflitto o la disapprovazione, ci costruiamo un’identità ed una vita che non ci appartengono davvero.
Winnicott, psicoanalista britannico, parlava di una sorta di maschera che siamo soliti indossare, come risposta adattiva, a garanzia della nostra sopravvivenza emotiva, ma spesso a scapito della nostra autenticità, della nostra spontaneità e del nostro reale essere e benessere.
La prima volta che il Dott. Burdi mi ha parlato del “Numero Uno” e del “Numero Due” sono rimasta affascinata. Credo (spero) di aver immediatamente colto il senso della loro presenza ricorrente nelle sue sedute di psicoterapia. Immediatamente ho pensato a tre entità distinte: “UNO”, “DUE” e la “Loro Relazione”.
L’immagine del Numero DUE che si era formata nella mia testa è stata quella di una figura tragica, automatica, meccanica e priva di autonomia. Era un’ombra silenziosa, che si muoveva per volontà di burattinai, prima esterni e poi divenuti interni. La sua esistenza era un eco di ordini che non comprendeva ma eseguiva. Un corpo che si muoveva, il cui cuore non batteva di sue emozioni. Un fantoccio che danzava al comando di mani invisibili. I suoi passi perfetti erano privi di anima. Non viveva, ma si muoveva; non decideva, ma agiva. Nella mia mente era un servitore fedele: svolgeva il suo compito ma non chiedeva mai perché.
Nessun pensiero scomodo lo attraversava, nessun dubbio lo tormentava, ma i suoi occhi erano spenti come una fiamma mai accesa. Se avesse avuto sogni, non so dirlo. Ma certamente gli mancava la libertà. Praticamente ero uno schiavo perfetto. Eppure, nel suo cuore meccanico, c’era un vuoto che nessuna obbedienza poteva mai colmare.
Il Numero UNO era invece un sogno silenzioso. Culla di un’armonia che tutto avvolge. Viaggio eterno, senza destinazione. Nella mia mente era liscio e puro, come l’acqua che scorre. Ogni suo punto era equidistante dal suo centro: il cuore, la sua anima, la sua natura. Il suo centro era il suo segreto: offuscato, nascosto, ma presente. Non conosceva spigoli né angoli da temere. Solo curve morbide. L’ho sentito come un abbraccio che non stringeva. L’ho percepito come una figura armonica da sempre presente, che non conosceva confini, né rotture. In Lui c’era la vita infinita.
La Loro Relazione? Un interminabile continuo conflitto, un dialogo muto di presenza e assenza, un continuo gioco di vicinanza e separazione, sottomissione e dominanza che raccontano una storia senza bisogno di parole, ma piena di dolori ed incertezze.
Il Numero UNO e il Numero Due sono in realtà lo strumento utilissimo, ideato e utilizzato da Giorgio Burdi nelle sue sedute di psicoterapia, per stimolare riflessioni profonde sul concetto del “Sè autentico” distinto dal “falso se”: la nostra vera essenza; chi siamo per davvero; quali sono i nostri desideri piu’ profondi, da dove provengono le nostre convinzioni piu’ radicate e quali sono quelle più autentiche. Lo scopo della psicoterapia di Burdi, è indurre al recupero della propria autonomia emotiva e della capacità di vivere pienamente, e secondo le proprie attitudini più profonde.
Uno e Due convivono dentro ognuno di noi, creando una dinamica complessa. Uno rappresenta la nostra essenza autentica, che ci parla di continuo con una voce flebile ma tagliente come un bisturi, è ciò che siamo profondamente, con i nostri desideri, bisogni e inclinazioni naturali.
Due, invece, si sviluppa attraverso i primordiali processi educativi, come un meccanismo di difesa, una “maschera” che ci aiuta a conformarci alle aspettative familiari, sociali, o culturali, spesso per proteggerci da rifiuti o traumi emotivi. Nel corso della vita, queste due parti restano spesso in conflitto: In certe situazioni, il nostro Numero Due può prendere il sopravvento e, come un servitore fedele, può spingerci a comportarci in modo da compiacere gli altri o evitare il giudizio, a scapito della nostra autenticità, anche facendoci agire in un modo inappropriato ed incoerente a noi stessi.
E generando, cosi’ frustrazione, insoddisfazione, ansia, ecc. Tuttavia, il nostro Numero Uno rimane sempre presente, anche se, talvolta, può resta schivo, timido, nascosto o represso.
La relazione tra UNO e DUE, il dialogo muto, racconta una storia: la nostra e determina il suo destino.
Il compito della maturazione psicologica è quello di riconoscere quando il nostro Numero Due ci domina e lavorare per far emergere il nostro Numero Uno, riducendo il divario tra ciò che mostriamo al mondo e chi siamo realmente. Il nostro Numero due, in questa ottica può essere un motore di crescita e cambiamento nel metterlo da parte, conservando con esso un dialogo autonomo.
Convivere con entrambe le parti significa accettare i nostri punti di forza e alle volte la debolezza del dover cedere, con tutte le influenze date dalle nostre esperienze passate, dalle circostanze attuali e dalle nostre risposte emotive e mentali, agli eventi che affrontiamo, ma riconoscere la nostra realtà presente, momento per momento, e capire che siamo in un continuo “lavoro in corso”.
Un viaggio intercontinentale senza ritorno e senza destinazione fissa. Convivere con entrambe le parti significa imparare a bilanciarle, lasciando che il Numero Uno emerga sempre di più, come avente l’ assoluto diritto al proprio spazio di vita, senza la necessità di nascondersi dietro il Numero Due.
Riconoscere che certe “disposizioni” non ci appartengono, ma sono state “ereditate”, oppure sono state una risposta adattativa ad un qualche bisogno dell’infanzia, è “nutrire il Numero Uno”; Essere consapevoli delle “maschere” che indossiamo e cercare di ridurre la distanza tra come ci presentiamo agli altri e come siamo interiormente è “alimentare il numero uno”; distinguere tra ciò che è una preoccupazione reale e ciò che è un condizionamento è ancora “dare pulsione al Numero Uno”; Ma anche esporsi a piccoli rischi in maniera controllata o prendere decisioni che implicano rischi calcolati, sperimentando fiducia in sé stessi e scotomizzando paure interiorizzate può essere “nutrire il numero UNO”.
Di contro, le aspettative degli altri, o le loro critiche, le pressioni sociali sono l’armatura del servitore fedele del Numero Due. Osservare la relazione tra UNO e DUE, è il modo per liberarsi dai condizionamenti e tirare fuori il proprio Numero Uno. Ma tutto questo non esime il soggetto analitico da una lotta, il quale per favorire l’ emersione del suo Uno, avvia una sua grande rivoluzione.
E’ questo un punto che richiede il coraggio di guardarsi dentro, l’accettazione della propria unicità, e l’impegno costante per vivere in sintonia con le proprie caratteristiche ed il proprio baricentro, senza cercare di conformarsi a un’immagine ideale o a quello che gli altri hanno deciso e si aspettano da noi.
In sintesi, Non si tratta di eliminare uno dei due, ma di integrare entrambe le dimensioni in modo armonioso, auto validando l’ opera d’arte di se stessi.
Valeria Carofiglio
Tirocinante in Psicologia Clinica
presso lo Studio Burdi
I Sottili Fili del Potere
**I sottili fili del potere**
Ogni comportamento è una comunicazione che prevede e nasconde una o più motivazioni, consapevoli o meno. Utilizzando l’espressione di Paul Watzlawick, secondo la quale “non esiste la non comunicazione, ma tutto è comunicazione”, possiamo affermare che c’è sempre una motivazione dietro qualsiasi comportamento, e che tutto è sempre motivato da qualcosa di oscuro o evidente.
Nelle relazioni umane esistono comportamenti chiari, ambivalenti e, in molti casi, o bui nel loro significato. Le motivazioni rappresentano le cause che determinano i comportamenti. Motivazioni chiare ed esplicite, per la loro onestà e trasparenza, favoriscono relazioni sane e fluide.
La maggior parte delle motivazioni umane risultano essere ambivalenti, perché il soggetto non si conosce o non sa perché si comporta in un certo modo, oppure non comprende perché convive con determinati stati d’animo. La mancanza di chiarezza del soggetto diventa mancanza di chiarezza anche per il proprio interlocutore.
La maggior parte delle volte siamo costretti a interagire con un mondo di persone che non sanno perché agiscono o sono in un certo modo; si immagini dunque il caos in cui siamo costretti a vivere. Due persone che non hanno consapevolezza di ciò che provano reciprocamente si trovano già in una condizione di guerra.
L’inconsapevolezza, così come la consapevolezza, hanno in sé un potere: quello di condizionare gli altri. Entrambe rappresentano i fili del burattinaio che muove le relazioni. Bisogna fare molta attenzione all’utilizzo di ogni parola espressa: essa può sicuramente avere un potere curativo, orientato alla felicità, oppure manipolativo.
Ogni parola conduce il ballo del potere: nelle relazioni diventa l’ arma di un potere contro un altro potere, oppure un potere verso l’alleanza di ragioni. Tutte le ragioni, quelle in accordo o in contrapposizione, hanno il loro potere. La relazione umana conserva, nel proprio istinto, il predominio dell’ uno su l’altro. Originariamente, questo nasce da un atteggiamento primordiale e arcaico: quello di tracciare il proprio perimetro.
L’uomo dell’analisi è portato ad abbattere i perimetri. Non ha paura di perdere se stesso o di fallire, perché si possiede da solo; accetta e sfida il potere degli altri su di sé; non si nasconde per timore, non parla di destino e non si lascia né manipolare né condizionare. Se si determina, ha comunque esercitato il proprio potere su se stesso e non sugli altri, nel rispetto di tutti.
Le persone confuse o non chiare vanno temute nell’esercizio delle loro parole o delle loro azioni: esse, in un primo momento, generano malessere. Il malessere subito impone una riflessione su quali parole o azioni lo abbiano generato. Il malessere provato, è determinato dal potere che si concede all’altro e che viene interiorizzato. L’altro entra dentro di noi con il suo potere, sotto forma di malessere. Questa concessione che facciamo agli altri è il potere che diamo loro di risiedere dentro di noi.
Quando sistematicamente rimuginiamo su una questione o un torto subito, dedichiamo ore, giornate e persino anni a pensarci. Diventiamo prigionieri di quei monologhi, ossessionati da soliloqui estenuanti, intrattenendoci con il nostro interlocutore mentale in flussi continui di preoccupazioni, succubi del suo potere, che si incastra dentro di noi, agisce e ci possiede inconsapevolmente come un demone, come in uno stato di trance ipnotica manipolativa. La fine di tale delirio verte solo quando decidiamo, potenzialmente, di chiarire di persona, dialogando sul conflitto che ci attanaglia.
Il potere si esplica sempre su due poli: quello dei vinti e quello dei vincitori. Dove ci sono conflitti, questo dualismo è onnipresente, e le dinamiche relazionali si pongono su un piano di opposizioni, di continui tira e molla su chi deve cedere e chi prevalere, su chi deve vincere e chi soccombere. Se si vuole vivere, la vita impone la propria difesa innata contro questo meccanismo, per la propria sopravvivenza,.
Non c’è nulla di strano, di vergognoso o di sbagliato in tutto questo: la vita è così e bisogna accettarlo. Il conflitto è legge ed onnipresente e la vita è conflitto. Chi non vuole capirlo, non è ancora nato: vive in una fiaba, ma la realtà può diventare più bella di essa, perché il conflitto è la rivendicazione delle diversità e richiede un confronto continuo, può trasformarsi in bellezza, arte, unità, progetto, e soluzioni per chi vuole trovarle.
Il conflitto non annoia mai: vende, intrattiene, dà sempre pensieri; paradossalmente, è ciò su cui si basano le guerre, i telegiornali dell’orrore, tutto ciò che non cerca mai soluzioni.
L’uomo che desidera soluzioni è un uomo risolto, è sul gradino più elevato dell’evoluzione. È un uomo analitico, un uomo umano, che non disdegna il conflitto perché ad esso risponde, lo risolve e, attraverso di esso, unisce le differenze, ricostruisce nuovi rapporti e li ama.
Per crescere ed evolversi, è necessario attraversare il conflitto e confrontarsi con il potere: non si possono evitare, se si vuole costruire qualcosa di serio.
giorgio burdi
ContinuaBigotta
Bigotta
È una persona esageratamente devota, che aderisce in modo rigido ed incondizionato, ai precetti, ai modi di dire e ai principi popolari e alle sue norme sociali. Rappresenta la massima espressione della contraddizione e dell’ ipocrisia. Tali principi vengono utilizzati in automatico, come dei mantra e come uno scudo protettivo, per difendere le proprie fragilità, tramite rimuginazioni di pensieri, invocazioni ed aforismi automatici, per ribadire che cosa pensa il popolo che regna dentro di sé; ella, se decide di vivere, convive eternamente col senso di colpa.
La bigotta è un animale domestico preistorico che non si estingue, intransigente, ha un cuore di pietra, i suoi neuroni li usa per covar le uova e crescere pulcini, devota alle tavole dei tabù, scrive con lo scalpello i suoi editti, non parla mai con se, ma con i saggi della sua caverna.
Procede con i paraocchi a testa bassa, è un asino sottomesso, vede, a due centimetri da se, solo i suoi totem, tira dritto col, “non ti curar e fidar di alcuno”, è irriconoscente se l’ hai aiutata, è dura come un tufo, irremovibile come un bisonte, figlia della sua ossessione, a protezione dei propri feticci, teme di uscire dal proprio seminato, è complicato farle vedere la naturalezza, filtrata dai mostri del proprio passato.
Non si direbbe, ma è una preistorica contemporanea, una radical chic conservatrice, una global, negazionista ad oltranza, contestatrice delle scienze, è analfabeta di se che non sa come funziona, ma è irremovibile e severa come una Rottenmeier, saccente ed arrogante, non concede chance, affogata nella sua boria ammalata di princípi, teme sempre di essere fregata.
Ha una gran voglia di desideri, perché, da una vita, si nutre solo di doveri , ma se le prospetti dei fuori tema, gioisce, ti ringrazia all’ infinito per la gioia che ha provato. Ma l’abitudine di una vita, timorosa di tutto ciò che è nuovo, con la sovrana diffidenza, la riporta indietro sui suoi passi, all’ interno nel suo ovile e al suo gregge.
La bigotta è una profonda insicura, convinta delle sue incertezze, fa caso alle sue fragilità, solo quando va in crisi, poi si pente e rincomincia, presume di sapere come si vive, ma non lo fa, ma se la orienti oltre i confini, vola, ma poi si schianta e fa game over, su tutti i suoi timori.
La bigotta interpella solo chi la avvalora, non dialoga, si impone, interpella i suoi avi, di coscienza non sa di averne, di intelligenza meno che mai, si isola, si chiude e soffre, non decide mai di suo, se non con il suo numero due. Non è mai saggio, chi non rosica un cambiamento, chi non si muove perché teme di sbagliare, muore chi si ferma per il timore dell’ errore, vive chi si lascia più andare.
Cieca per i propri limiti, intollerante per gli eventuali altrui, accusa, punta il dito e chiude, ti sfiducia alla prima occasione, non conosce ragioni e a prova della sua nevrosi, non la senti e si crea il mostro che non c’è. La bigotta è un iraniano, se prendi un caffè con una donna, ti spara, non le permette di sedersi tra i banchi, se non sa è meglio, le soffoca l’ identità col burqa, la preferisce chiusa in casa a venerare la tradizione dei propri avi carcerieri.
Chi Studia, chi fa scienza, chi fa analisi, si emancipa, vede oltre lo scontato, vede l’ immenso, si gestisce in autonomia, eleva la sua torre, mattone su mattone, per sfidare i turbamenti, le tempeste, i limiti delle cose scontate, delle consuetudini, va oltre i limiti dei limiti. Ogni cambiamento sgomenta, fa sempre temere per i propri principi.
Si emancipa solo, chi guarda l’ orizzonte, oltre chi pone i confini.
L ‘ orgoglio è una vergogna, perché è ignoranza, è una ghigliottina che genera la guerra, perché , lasciare i propri passi a vantaggio di quelli nuovi, può aiutare a migliorare e a comprendere che, la felicità inappagabile, esilarante, può essere veloce e a due passi da noi.
Insomma, che dire ! È una fatica essere bigotta, si vive davvero male, è un lavoraccio, straziante ed usurante, si invecchia molto prima e ci si ammala, sfibra e ti fa a brandelli per una vita intera. Essere bigotta è una agenzia complicazioni affari semplici, è una impresa fallimentare fondata sul no-profit. Basterebbe solo e sarebbe necessario, srotolare semplicemente la propria naturalezza e spensieratezza e tutto sarebbe tutto più spianato.
Attraverso l’ aiuto di qualcuno si può rileggere il proprio manuale, sul come essere più colti con se stessi e naturali e lasciarsi un po’ più andare, sul come gioire di più la vita, da poterla portare fino a dieci, ad un livello intenso. impresa molto ardua per una fedele ad essere Bigotta DOP, ( Bdop), perché se poi riesce ad essere se stessa, temerà sempre lo scontrino col conto da pagare. Uff, che vita scontata, che peccato ! Auguri.
giorgio burdi
ContinuaLa Lettera Analitica ( LA ) e la Lettera Terapia ( LT ).
La Lettera Analitica ( LA ) e la Lettera Terapia ( LT ).
Metodo BURDI (c) . Un potente strumento di cambiamento.
Gli eventi indelebili, che restano all’ interno della nostra mente, sono quelli traumatici. Per quanto ci possiamo impegnare per dimenticarli o cancellarli, questa, resta un’ impresa prevalentemente impossibile.
L’ identico paragone possiamo farlo con i file trentennali contenuti in un computer, essi restano dimenticati e nascosti fra le migliaia di cartelle, come se fossero all’ interno di scatole cinesi introvabili, ma, se pur occultate, rimangono sempre esistenti. Nella nostra mente non si cancella nulla, i ricordi restano nella nostra memoria per sempre, anche se la nostra percezione è esattamente contraria, dal trauma si esce ma non si cancellano mai, si possono invece “bonificare” .
Le parole mai dette, le situazioni subite, i gesti aggressivi o quelli violenti, le trascuratezze, le assenze e gli abbandoni, le umiliazioni inaspettate, da parte del padre, della madre, dei partner, degli insegnanti, dei bulli, dei colleghi o deidatori di lavoro, dalla memoria, non si cancellano mai, esse restano mescolati alle emozioni più logoranti, si incrostano nell’ anima come delle placche o pietre di calcare.
La nostra mente è una gran signora, pur di permetterci di vivere in una parvenza di serenità, diventa altamente difensiva della nostra salute mentale, ci favorisce di non ricordare nulla nell’ immediato, nasconde, accartoccia e zippa, qualsiasi situazione del trauma, adoperandosi in quel meccanismo che psicanaliticamente viene definito, rimozione, che per noi non significa affatto eliminare, ma , occultare nell’ oblio.
Per poter ricordare basterebbe, desiderarlo, la nostra memoria antica facilmente può riapparire sotto forma di sintomo o di sensazione rievocativa soltanto attraverso alcune percezioni soggettive, parole specifiche o comportamenti presenti, suoni… ecc.
Alle volte basta un semplice profumo, una sfumatura di un colore, un azione o un pensiero, da poter turbare un istante, da far abbassare o girare il capo, da far riemergere l’ immenso dispiacere depositato.
Nel nostro percorso di vita, veniamo costernati da conflitti e traumi passati, che continuamente disturbano il percorso dell’ esistenza presente e che ci rendono infelici oggi; il passato diviene l’ artefice del cambiamento presente, del nostro umore e delle nostre relazioni attuali, che inconsapevolmente restano di gestione della nostra memoria.
La memoria del trauma passato contiene tutte le istruzioni per l’ uso per come vivere il presente, il passato funge da veggente, sa tutto del presente, sa come andrà a finire, per essa, era già tutto chiaro essa si impone ed agisce con un dictat, tracciando itinerari già visti, di pensieri e di condotte, che col presente non dovrebbero aver nulla a che fare, ma si impongono ad esso. Ogni passato non superato, decide sempre per ogni presente. La memoria del trauma è come una cataratta che non ci permettere di guardare in avanti la realtà, ma il limite dell’ occlusione .
Certe relazioni non funzionano perché, nel decorso personale, vengono tracciati gli orientamenti relazionali presenti e futuri, contaminati ed infestati dal passato. Nella scelta del partner, paradossalmente vengono selezionate persone e situazioni tali da conservare la fedeltà alla tradizione passata, in modo tale da riperpetuarlo, quasi nel tentativo involontario di ripercorrerlo, per risolverlo. Ma la risoluzione, in effetti, attraverso questa modalità, non accadrà mai e non condurrà mai a nessuna soluzione, a nulla di buono, anzi, per quanta tolleranza si potrà avere, complicherà notevolmente col tempo la relazione, fino alla sua disgregazione.
La lettera analitica ( LA ), che indichiamo in Studio, è uno strumento potentissimo di superamento e di “bonifica”, che ripercorre a ritroso e scandaglia la memoria devastante più arcaica di se, che resta legata e confusa per condizionamento al proprio presente. Essa è uno strumento di indagine dentro di sé, avente come obiettivo il rivisitare il conflitto o il trauma, in tutti i loro dettagli, descrivendoli e scrivendoli dettagliatamente.
A primo impatto, la reazione che riscontriamo, alla richiesta di scrivere sul trauma, è di totale rifiuto e resistenza, tale alle volte da interrompere il percorso di terapia, indicato centinaia di alibi. Avvicinarsi al trauma determina sempre una fuga da esso. sembra così impossibile concedersi l’ accesso.
Superata la paura, aumentata la fiducia verso il terapeuta, si chiede al paziente di iniziare a scrivere in modo random, partendo dal primo pensiero, dal primo ricordo o dalla prima sensazione, avendo di vista la situazione o la persona turbativa, accedendo al ricordo un gradino per volta, tradotto rigorosamente in parole scritte che non vanno mai lasciate solo ed esclusimamente pensate.
Gradino dopo gradino, il soggetto si renderà conto di scendere, rampa dopo rampa, le scale dei suoi ricordi, fino ad avvicinarsi all’ epicentro del suo trauma, dal quale ne potrà solo uscirne, con la guida psicoterapica, dopo esserci solo entrato. Gli si chiede di descriverlo, in tutti i suoi particolari, per iscritto e dettagliatamente, nello stesso identico modo di descrivere la pellicola di un film, fotogramma per fotogramma, con tutte le emozioni ad esso interconnesse.
Tale lavoro equivale ad una immersione nelle profondità dell’ inconscio, ed ha lo scopo di collegare il trauma passato, alle disfunzioni del proprio presente e liberarlo da esso.
Il confronto diretto, solamente a voce, con l’ oggetto che è la causa del trauma, non ha un impatto terapeutico, così come accade invece attraverso l’ utilizzo della LA. La lettera analitica ha la funzione di scandagliare, tirar fuori tutti i pezzi del puzzle, pensiero dopo pensiero, parola dopo parola, il ricordo dopo ricordo di relazioni folli ed ostili subiti, realizzando una mappatura di tutto. Nel confronto diretto verrebbero fuori solo frammenti del disagio accumulato.
In questo modo, si da inizio, dal primo pensiero fino all’ ultimo, di rappresentare il turbamento, compattando il puzzle, per poi, per poi avere una visione chiara dei motivi delle diverse sofferenze.
L’ avvicinamento al trauma, attraverso la LA, rappresenta inizialmente l’ avvio e l’ inizio della terapia e della risoluzione dello stesso, attraverso la LA, il paziente illumina la sua consapevolezza sul perché il proprio presente viene, in modo tanto così evidente, condizionato e determinato, in senso disfunzionale dal suo passato.
La LA ha il compito di convincere il paziente, di quanto siano collegati e strettamente interconnessi il suo presente al suo passato arcaico, e attraverso quel filo di pensieri e di parole che ripercorre nella lettera, spiega come i suoi disturbi abbiano quella evidente logica ed origine, nel suo passato. La LA collega, in un ping pong e veloce, e il presente al suo passato e viceversa.
La LA mentre viene stilata, diviene Lettera Terapia LT, nel momento in cui, le situazioni affioranti, diventano rievocative delle emozioni presenti lì dove si sono originate. La LA diviene LT, se le emozioni emergenti, vengono ,al loro affiorare, espresse nella loro massima potenzialità e al loro massimo livello. Succede, molto spesso, che lo stilare della lettera e la lettura della stessa, producano del pianto, della rabbia o delle paure. Per far sì che la LA diventi LT, le emozioni emergenti, non devono essere mai trattenute , ne per vergogna, per imbarazzo, per senso di colpa o per ritegno, ma evacuate totalmente.
Per favorire la massima riuscita terapeutica e la sua massima espressività risolutiva, la LA :
1 va scritta innanzitutto per se stessi, in modo veemente, senza alcun freno inibitorio o imbarazzo, in modo diretto, crudo, senza veli o peli sulla lingua, manifestando, per iscritto, tutto ciò che è stato taciuto alle volte per decenni, va esternato tutto il non detto, tutte quelle verità negate e taciute, per favorire quel riscatto di giustizia tanto sospirata. La LA va scritta, senza alcuna educazione o moralismo trattenitore, senza edulcorarazioni, ma esternando tutto il peggio e tutto l’ affetto che ne resta;
2 ,non va letta o condivisa successivamente con nessuno, se non, quanto prima, con lo psicoterapeuta. Parlarne ad altri, permetterebbe di ritrattarla, contestarla e rielaborarla sulla base dei sensi di colpa indotti da terzi, sabotando il processo terapeutico finale;
3 va letta in terapia individuale o tanto meglio di gruppo, per dilatare ed espandere l’ effetto emotivo, per decongestionare in modo più radicale la memoria del trauma dalle sue emozioni inibite, e non da poco, per rompere l’ atavica omertà relativa al silenzio, che la rendeva complice al carnefice, attraverso quei traumi taciuti, che al momento andavano denunciati;
la LA ,letta in terapia di gruppo, luogo percepito come dell’ unità, lega emotivamente ancora più con lo stesso; il gruppo rappresenterà il luogo di ritrovamento di una nuova famiglia accudente e formativa, la stessa che verrà, di là a poco lasciata, a vantaggio della propria autonomia, in contrapposizione alla dipendenza generata nella vecchia famiglia, nel tentativo reiterato di cercare in essa un amore impossibile da generare dipendenza;
4 la LA, non va consegnata all’ interessato, ma letta direttamente, vis a vis, occhi negli occhi, pianto nel pianto, al fine di sbriciolare il mostro del trauma, guardandolo in faccia, attraverso quel confronto tra la propria potenza ritrovata e la ridimensionata realtà diretta;
5 nella lettura, della LA, non deve interessare se l’ interlocutore, comprenda o meno, l’ importante è aver affermato se stesso, affrontato il mostro a testa alta guardandolo, così da vefetlo per quello che realmente è, non più oggetto fobico, ma piccolo, patologico ed insignificante.
Seguendo le procedure da 1 a 5, alla fine del processo, il paziente, il più delle volte, avverte uno stato di confusione conclusiva e di svuotamento, avviando nei giorni a seguire, un graduale e costante recupero di sé e della sua condizione di serenità e un miglioramento del proprio stato mentale e di salute psico fisica, avvertendo una maggiore potenza di se ed un inizio di cambiamento e di rivoluzione positiva nella sua vita a seguire.
Per l’ interlocutore della lettera, invece, può capitare che prenda consapevolezza e chieda perdona all’ interessato per aver inferto tanta sofferenza ingiustificata, assistendo, alle volte, ad un recupero del rapporto, demolendo quel muro atavico e quel vissuto traumatico che regnava nella relazione e nella mente del paziente.
Se l’ interlocutore, in oggetto, resta irraggiungibile o è deceduto, la lettura intenzionale, in psicoterapia individuale o di gruppo, ha un pari potere terapeutico se accompagnato dalla funzione simbolica del bruciare la lettera, dopo la sua lettura. La mente parla, vive e si nutre di simboli, assocerà alla fiamma della lettera bruciata, il decretare la fine della sofferenza, sotto forma di cenere.
Seguendo la sequenza metodologica dai punti 1 a 5, assistiamo a quell’ operazione che definiamo di “bonifica” e di cambiamento, per l’ evacuazione di quelle emozioni malefiche, che facevano del trauma, del paziente, la sua involontaria onnipresenza ed impotenza e ne detta, da quell’ istante in poi, una metamorfosi sorprendente del modo di sentire, di pensare e di vivere il proprio presente e futuro in modo rigorosamente più leggero e produttivo.
La LA e LT avviano la decongestione e l’antiffiamatorio immediato dell’ anima, esse sono in grado, alle volte, di produrre convulsioni corporee involontarie, anche molto intense e non facilmente gestibili, dolori e contratture addominali, in grado di scaricare le emozioni bloccate del trauma.
Quest’ ultima fase, per alcune circostanze traumatiche specifiche, viene anticipata da sintomi quali: aumento del battito cardiaco, sensazione di vomito, apnea, momentaneo stato confusionale e di assenza, tremori, pianto, agitazione occasionale, clonie e spasmi muscolari. Tutto ciò avviene durante l’ esplicazione della lettera e convive con una condizione di turbamento gestibile, insieme ad una piacevole , predominante e netta sensazione di liberazione.
La LA e la LT, rappresentano una metodologia, sperimentata e curata in Studio da più di venti anni e sono rappresentativi di una metodologia di indagine in sviluppo più profonda dell’ anime e di pianificazione dettagliata di una psicoterapia efficace, è tra i metodi più veloci, in termini di effetti psicoterapeutici duraturi.
giorgio burdi
ContinuaChiacchiere
Chiacchiere
Le chiacchiere sono leggerezza, nuvole, desiderio di ossigeno e di respiro, di volare sempre in alto, di cambiare, ti staccano la spina una gran voglia di andare in standby; esse sono la pausa e la vacanza, la merenda e la ricreazione, il picnic, il tiro al pallone e la passeggiata nel bosco, il bagnasciuga e la sdraio sotto l’ ombrellone mentre mangi una fetta di anguria ghiacciata.
Le chiacchiere sono tutte quelle cose inutili, frivole che non devi riordinare, che ti sbracano e ti lasciano andare, che ti cambiano la vita; sono le mille paia di scarpe o un solo tacco a spillo, cento profumi, un fondo tinta, il fard, il rossetto, i mille colori di uno smalto. Le chiacchiere danno il senso alla vita, che sarebbe pesante come un masso. La vita non è seria, senza le chiacchiere, perché la vita stessa non è seria, perché ha il suo tempo, finisce, è fugace ed aleatoria.
Le chiacchiere sono sobrietà, ti fanno fare a meno anche dell’ essenziale, perché se sei povero non ti fa pensare, se sei ricco, non sai che fartene, se stai bene, ti fanno stare meglio e se soffri, ti tirano su.
Se mangi chiacchiere, sogni e se le realizzi non sogni più, hai solo bisogno ancora di tante altre. Chi sogna, non perde tempo e fa chiacciera, perché essa ti distacca da tutto, spiana la strada, ti fa andare oltre, ti sprona, raccoglie i frutti e notizie utili per proseguire.
La chiacchiera ti fa ridere, è una comica, ti fa scherzare ed insultare, senza risentirne, abbatte le barriere,
ti accorcia le distanze, i confini, ti fa toccare, baciare, abbracciare, prendere le pacche sulle spalle, ti fa voler bene e sentir bene, ti rende simpatico, ti fa brindare con dei calici fruttati al nero di Troia. La chiacchiera è godereccia. È un dolce frollo per conversare, è una farfalla che non pensa.
Le chiacchiere sono come le foglie al vento, che fanno poesia, cadono per fare il tappeto dell’ autunno, sono un fiume in piena, creano corrente e profumi d’ acqua, trascinano scorze d’ albero pietre e tronchi, sono una ragnatela, intricata di pettegolezzi, storie amene e racconti di una fiaba.
Esse sono scintille, che attraverso un soffio accendono la curiosità, coinvolgono e aggregano, sono un arcobaleno che colorano fino allo sfinimento la giornata, con racconti ripetuti fino allo spasmo, all’ esaurimento della risata, attraverso continue analisi differenti.
Sono come un labirinto, nel quale smarrirsi senza logica e all’ avventura senza volerne uscire, se sono molestie, sono un mare di parole, in cui è facile affogare, se non si sa nuotare. Sono un fuoco d’artificio, brillano per un istante e poi svaniscono nel nulla, sono una festa che dura il tempo che trova, è effimera, inutile, ma è tutto ciò che resta .
Le chiacchiere sono un giardino in fiore, dove ogni parola è una spina o un petalo che fanno un bel prato, sono una danza, un flusso di movimenti che delineano l’ armonia di geometrie circolari, è la grazia della sensualità dei veli che accarezzano la pelle e l’ aria. Sono una corrente d’aria che passa tra i capelli, tra le stanze afose, mentre sei seduto su un gradino di travertino mentre mangi un gelato. Chi fa chiacchiera, consuma, non è avaro, è una cicala che sa essere una formica.
La chiacchiera è come il fumo dell’ antico toscano, lascia il profumo e la scia, la luce la rende nuvola sfiora ed avvolge; è un fuoco di paglia, una vampata di luce, un calore che diventa cenere. Sono come la schiuma per la barba, ammorbidisce, decongestiona e scompare se la radi; è la spuma della birra nel boccale, se non ci fosse non sarebbe festa; è la schiuma di mare che ti schizza sulla pelle; sono le bolle di sapone, magiche, gonfie, brillanti per un istante che ti fanno sentir bambino per istante e poi scoppiano.
La vita sarebbe una chiacchera, se non ci fossero chiacchiere e chi non chiacchiera è triste e pallido, non è una persona seria.
giorgio burdi
ContinuaL’ Invidioso
L’ Invidioso
L’ invidia, dal punto di vista psicoanalitico, viene considerata una difesa contro sentimenti di impotenza e inadeguatezza, in cui l’individuo percepisce una condizione di privazione e mancanza dell’ essenziale per il proprio benessere. È evidente che si tratta di una condizione psicologica, più che solo materialistica.
Freud, la collegava alla fase fallica dello sviluppo psicosessuale. Attraverso l’ “invidia del pene” per le donne, mentre per l’ uomo alla messa in discussione della perdita della sua potenza sessuale: l’ invidioso è una isterica o un impotente.
L’ invidioso, nella sua complessità, è un uomo adagiato su se stesso ed inconsapevole, afflitto dal sentimento della privazione e della sfortuna, dedica gran parte del suo tempo nell’ osservare gli altri, non si affaccenda, non conosce la fatica per emanciparsi, è accartocciato su se stesso, è a “folle” e attende che arrivino tempi migliori fortunati, è retratto ad una condizione neolitica, chiuso come un “orso” , introverso, pensa in vernacolo e farfuglia aforismi social.
L ‘invidioso ti conta gli errori, è un rosicone, di suo ha ben poco, si erge solo per correggerti . Se è in auto, ti sorpassa, ti taglia la strada e rallenta di colpo, è un commerciante che vive della sua pochezza che ostenta, è un triggianese che non è nato barese o milanese.
L’ invidioso, è un bullo, un ossessivo auto condannato che guarda fuori, è una maestrina con la penna rossa che ti bacchetta, fa pettegolezzo, interroga senza spiegare, non da risposte, cela la sua privacy e le proprie malattie, come fossero disgrazie, è un ficca naso che ha solo orecchie, un impertinente che ti spara solo domande e se scova fragilità, ha sa di cosa gioire.
Ti ruba informazioni, è un cleptomane che gira per le tue stanze, guarda in tutti i pensili, vive in tana come un predatore in agguato, non fa cene e dagli amici si nutre a sbafo, di suo consuma molto poco, risparmia sull’ aria che respira , usa le unghie come stuzzicadenti, è un avaro bloccato alla fase anale, dispensa con molta parsimonia, è amico per opportunismo, critico e giudice di tutti, è un maniaco del controllo, del cambiare le carte in tavola, è un radar, misura tutto per difetto; secondo Jung, vive immerso nelle ombre della propria famiglia.
Nella scala genealogica, si pone tra un umanoide ed un umano, tra un asociale ed un sociopatico, è un maleducato, se è generoso è per competere, studia su Facebook , è un isolato, piange sul bordo del letto la sua uno depressione, cinicamente ti sorride, dal viso smunto, si logora nell’ acido muriatico del proprio fallimento.
L’ invidioso, è spento, vive nel buio, su una vedetta, al cospetto delle luci altrui, non curante dei loro sacrifici. Il suo pasto preferito è la frittura, più frigge per te, più ti riconosce il tuo valore. Si biasima e si disprezza da solo, per tutto il tempo che spreca nel non perderti di vista. L’ invidiato è un protagonista, l’ altro uno spettatore, una marionetta, un osservatore, uno che ti ronza attorno come una zanzara, è un avvoltoio che attende di ridere di te, finchè tu diventi una carogna.
L’ invidioso compete, ti sfida e ti diffama. Sei il suo metro di misura, se hai uno, ne vuole due, se dici tre, ne dice sei, si arrampica sugli specchi pur di raggiungerti, ha poche idee, solo le tue, crede nel suo fato avverso, è ludopatico, non paga nessuno, è sempre in pensione, ripiega sul divano per le serie taroccate.
Ti fa i conti in tasca, è uno scroccone e per lesinare, lacera la mortadella con le dita, è senza ritegno. L’ invidioso ha la guerra in testa, si logora da solo, perché non sa come fermarti, ti vorrebbe ammalato, e più vai avanti, più si frustra.
I suoi pensieri, ti contorcono intorno ad un filo spinato, nel quale ti avvolge nel suo reticolato, se in lui incappi, ti immischi, non sa da dove colpirti, piu picchia, più si fa male se resti in piedi, è un condannato alla sua stessa isteria.
L’ invidioso è un superstizioso, fa e teme le sentenze, le influenze malvagie, è uno scaramantico, un complottista, è la voce del popolo. L’ invidiato non conosce superstizione, è uno studioso, un uomo di scienza, con fatica non perde tempo, non crede nell’ invidia e negli spergiuri, se ne fotte dei riti vudù, dei maligni, cartomanti e degli sciamani.
L’ invidiato lo schiva, va diritto per la sua strada, viaggia sulla rotta del proprio talento, nel suo spazio vitale come in un incantesimo ipnotico, fa della propria attitudine la sua missione, lo rende concentrato, fiero di se stesso, sordo ai fracassi delle apprensioni sociali .
L’ invidiato è ambizioso, si slancia sempre più in alto di se, cade mille volte, si rialza per duemila, si riprende, sgobba, soffre, fallisce, si ferisce, si sbuccia, si ricuce e si rimette su, vive di incubi, notti insonni, sa rinunciare, si logora, ma poi si espande, esplode e dilata i suoi territori. L’ Invidiato non chiede o pretende mai, non ci pensa e passa, all’altro, tutto è dovuto, ti crea l’ obbligo, è un politico che se ti da, gli devi.
L’ invidiato è un passionale, un razionale, un uomo che vive di umanità, lotta per la fede del bene umano, del suo progetto, per migliorare il mondo. L’invidioso, sventola la bandiera della propria arroganza, desidera il tuo decadimento, è uno strafottente, non lo sfiora mai un minimo senso di colpa.
L’ invidia è un corto circuito, la subisce chi la vive per l’ inquietudine che produce, l’ invidiato invece è più sereno, perché di queste ansie non ne ha.
L’ invidiato è felice di se e se gli altri riescono, è fiero, gioisce per i loro successi, gli fa festa, non li invidia mai, è generoso del suo tempo e delle proprie risorse, con loro non è mai competitivo o arrogante. Anche se non può, aiuta, gli racconta delle sue fatiche, di come si superano i dirupi, lo sostiene e gli offre tutte e due le mani, crede che nella altrui riuscita e lo sostiene, desidera il suo bene se procede a stento, soffre con lui, lo appoggia e gli offre le spalle.
giorgio burdi
ContinuaIl Catetere
Il Catetere
Cosa accade quando siamo costretti a dover convivere con un oggetto, quale è un catetere, ritenuto indispensabile per determinate funzionalità fisiologiche e organiche, ed avvertirne tutta l’ avversione del corpo, attraverso il dolore, per la presenza di un oggetto estraneo non riassorbibile che attraversa il nostro corpo ? In tal senso, un catetere ha una funzione fondamentale di bypass e di drenaggio, potenzialmente temporaneo, che viene accettato solo nell’ attesa che si ripristini una funzionalità e venga immediatamente quanto prima rimosso.
Immaginiamo per un istante, cosa possa significare convivere, in situazioni di disagio relazionale e mentale, in cui si viene coercitati e costretti a rimanere in condizioni di persistente sofferenza, per questioni solo meramente organizzative e funzionali. Ci si ritrova a sentirsi condannati quando il rigetto si fa impossibile, quando il corpo estraneo deve rimanere lì a prescindere, ed ogni forma di liberazione da esso diviene pressoché impossibile tale da produrre una condizione di dolore insostenibile.
Il dolore mentale, alla pari di quello fisico, alle volte è meno sostenibile. Molte pazienti riferiscono di tagliarsi, sentire lo strazio di una ferita sulla pelle, che percepire la lancia nell’ anima di una frustrazione. Comunque sia, ciò che ci permette di avere la percezione di esistere, è il dolore e il piacere, ma tanto di più il dolore. Quando stiamo bene, non ci rendiamo conto, ma quando soffriamo, ci ricordiamo e solo allora ci percepiamo, prima sembravamo non esistere.
il dolore ci da la dimensione e l’ intensità dell’ esistere e per il suo essere così intenso, può mancare da sentirne la nostalgia, paradossalmente ha la capacità di avvicinarci se condiviso, tra due persone che soffrono esso permette di aprirsi e raccontarsi, ci rende intensi e vicini, molto più dell’ amore, sentimento senza radici, carico alle volte di sole aspettative, rispetto al dolore quando è carico di partecipazione. Chi condivide un dolore, ha più l’ opportunità di unirsi ed amarsi, se comunque non diviene la norma. La condivisione del dolore è il preludio dell’ amore se è empatico, anche se il dolore molto spesso viene adoperato come sciacallaggio per adescare.
Il piacere ci mette a contatto più con il mondo, il dolore, esclusivamente con noi stessi e favorisce l’ isolamento. Il dolore ti costringe ad una introversione, a guardar dentro ciò che non vorresti vedere, ad una ispezione dei sotterranei, equivale ad un rifugio, ad un rientro nel guscio in una qualsiasi confort zone, il piacere è velocemente consumabile, proclama la condivisione immediata, l’ estroversione, il dolore è lento, impone la pazienza, impone una relazione paziente.
Quando soffriamo mentalmente, abbiamo dentro di noi tanta roba che non vogliamo rivisitare, da volerci riempire di rumori e di folle intorno. Ma l’ insoddisfazione generata da una modalità simile, può avere il suo compromesso solo attraverso
l’ isolamento. Nell’ isolamento, ci auto condanniamo ad incontrare i nostri ostacoli, a confrontarci ripetutamente con i diversi cateteri, corpi estranei, utili un tempo, ma fastidiosissimi nel presente se persistenti, ci ritroviamo a fare i conti con tutti i nostri numeri due.
A questo punto sarebbe il caso aiutarci nel cambiare rotta, basta ad evitarli, a far finta, come se non ci fossero, consideriamo che non si può sopravvivere a lungo con i tormenti, col loro essere onnipresenti e comunque i corpi estranei devono essere rimossi; parliamo col nostro isolamento, con i nostri disagi e ricerchiamo uno ad uno i nostri cateteri mentali per capire come liberarsene, fatti aiutare, come per un intervento chirurgico che da solo non lo puoi fare.
Il dolore fisico può essere una vacanza, anche se brutta per sua natura. Ti costringe a riflettere a stare con te stesso. Ti permette di staccare con tutto , è uno dei pochi validi momenti in cui, vieni ri fiondato su te stesso e può avere il suo risvolto positivo. Il luogo del dolore è il luogo per eccellenza in cui, vuoi o non vuoi, stai con te. Il dolore ti strattona tutto, ti impone a lasciar perdere, a distaccarti, ti impone l’ abbandono, ti dice, adesso basta, ci sei solo tu, sei tuo, pensa a te.
Ti chiede di mettere da parte qualcosa, pone le tue mani di fronte al mondo, impone lo stop, la manutenzione, il tagliando, urla, lasciatemi stare, raccogli e rimani con poche certezze, ti rimangono solo quelle vere, le migliori, quelle indispensabili con molti abbandoni, ti rendi conto chi hai intorno per davvero, fai caso solo allora all’ effimero, a tutto ciò che è mascherato e inutile, Il dolore fa una selezione naturale, serve a dare un significato più vero a tutto ciò che si è, e a ciò che si ha.
Quando c’è il dolore, non abbiamo più scuse, ne più desideri, se non quello di guarire, non desideriamo nient’ altro e nessun’ altro, vogliamo circondarci solo da chi ci sta più vicini, entriamo in modalità protezione non ci sono piu idioti che tengano, ne bisogni, nulla che catturi vacue attenzioni, nulla che dia stimoli o ci soddisfi, se non unicamente poter star meglio. Ogni ri tornare in salute è un ricordarsi di tornare a vivere, è l’ unica cosa più giusta e migliore che possa desiderare.
Il dolore crea una scrematura inevitabile, genera la differenza, ti sbatte un pugno diretto in faccia, lancia la sfida e il confronto, ti porta sul ring e ti sferra un ceffone, ti dice, sveglia, addormentato, la vita è altro, ti frantuma sullo specchio, guardati e riguardati. Il dolore ti strappa la maschera, ti scaraventa per terra come uno straccio bagnato, ti tratta a muso duro, ti fa vedere gli opportunisti, ha priorità ed ha sempre ragione, non ha filtri, parla solo di te.
Il dolore ti cambia la vita, te la fa ritrovare pulita e purificata, ti dice quello che realmente serve e tutto quello che devi buttare.
È la nostra salute che decide tutti i nostri significati. Quando essa tentenna o viene meno, ritorniamo sempre all’ essenziale. Nella routine del benessere o nel malessere quotidiano, dimentichiamo ciò che abbiamo e di essere vivi, abbiamo la tendenza sistematica a fissarci sempre su un nuovo problema, su un qualche cavillo rompicapo, da non smetterla mai.
Ci lamentiamo di continuo, ci lasciamo tormentare dai conflitti, dallo stile e dalla qualità della vita che conduciamo, ma solo quando vacilla la salute, apprezzavamo la routine, pretendiamo che ci vada meglio, quando invece ci andava già bene, da poter dire che quando andava peggio, andava comunque meglio, ma allora non eravamo propensi nel ricercare i corpi estranei, perché viviamo da predestinati, che la vita debba andare avanti così nella scontatezza, comunque e basta.
Basterebbe già comprendere, cosa all’ improvviso ci cambia l’umore, per intercettare i vari cateteri sparsi e galleggianti nella nostra mente; fare la loro mappatura, caricarsi di coraggio, prendere delle nette posizioni, serve per ristabilire il nostro equilibrio. Equivale a ricercare l’ elenco dei fastidi che non ammettiamo di avere, su tanta roba inutile accumulata, da poterli riporre in una discarica. I nostri dolori dipendono dalle concessioni offerte attraverso una nostra licenza.
giorgio burdi
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benny
Solamente tu potevi trovare il meglio in una situazione così opprimente e fastidiosa, la gioia e il desiderio durante una parentesi di “stasi” fisica che al contempo ti riporta all’interno e ti riporta a te, meraviglioso l’articolo.
Che fortuna che ho avuto a incontrarti in questo momento, sei una persona meravigliosa.. vita pura.
mena
Buongiorno Giorgio, ho letto il tuo post sul catetere. Mi sono molto immedesimata, perché anche per me la sofferenza fisica in questo periodo è sentire un oggetto in gola che mi toglie il respiro, a volte ho paura di morire asfissiata, a volte ho paura di morire e basta.
Per una cazzata, perché di per se è una cazzata, eppure mi sto rendendo conto che si può morire anche per una cazzata, non solo per un cancro oppure per la Sla o per tante altre cose che suscitano un immaginario di gravità nella nostra mente.
Spesso ce ne dimentichiamo che la vita è un soffio, che non dipende da quanti esami e controesami facciamo, da quanto stai attento a questo o a quello.
Io clinicamente sto bene, non ho niente di grave, ho solo una maledetta cosa sulla corda vocale che mi dà un senso di soffocamento per molto tempo durante il giorno.
Ad oggi non ha più senso nessuno dei problemi che avevo, vivrei senza sesso anche tutta la vita, pur di averla di nuovo una vita, senza dolore. Oggi è così, poi già lo so che magari guarisco e tornerò a percepire le cose allo stesso modo di prima, ma da un lato spero che tutto questo, se e quando passerà, possa mostrarmi un diverso lato o senso della vita che finora non ho visto.
La vita ha voluto che smettessi di dire anche solo una parola, ma non basta perché provo ancora dolore, allora ho provato a fare pace con la mia rabbia che è la cosa che nell’ultimo anno mi ha fatto più male, a perdonare e accettare certe situazioni, ma non è semplice.
cristina
Buongiorno Dottore, è impressionante come questo link sia veritiero. E’ esattamente così che mi sono sentita quando ho subito l’intervento. Ero concentrata su me stessa, poco interessata al mondo esterno. Anche prima dell’intervento volevo che il mio compagno andasse a Milano, nonostante fossi preoccupata per Milano.
Preoccupazione svanita appena entrata in ospedale. *Il dolore ti sfinisce, impone lo STOP*. Il problema reale sussiste quando si ritorna alla normalità, quando il dolore fisico scompare e piano piano il dolore mentale ri-torna e vieni nuovamente risucchiata in mille pensieri e preoccupazioni nocive.
ContinuaAlta Sensibilità
Alta sensibilità: Il Desiderio di Essere Capiti
“Certe volte mi piace starmene nella mia bolla. Dove sento più forte il suono del mio respiro. Dal dentro tutto sembra più morbido. Inoffensivo. Li’ al centro, all’altezza del petto ritrovo l’equilibrio, abbandono il bilico e mi godo la calma che cerco. Riabito il mio corpo. E mentre cammino, entro nel primo, poi nel secondo negozietto per fare la spesa e riconnettermi con l’esterno. Il panettiere mi saluta e scambio la prima parola. Parole che escono dalla ruggine di una macchina che fatica a riprendere il passo. Mi piace comprare il pane. Buongiorno signora. È la mano che mi tira fuori dal mare. Qualche passo ancora. Un’altra bottega. Buongiorno signora. Vibro un pochino di più. Qualche passo oltre sono a casa. Scrivo. Mi sento meglio. Inizio la giornata. E me ne frego.”
Quando ero piccola mia madre mi diceva che ero come un gas. Penso volesse dire che avevo dei contorni piuttosto sfumati, e nessuna forma precisa, e che piuttosto mi adattavo al contenitore che mi conteneva. Lei ci aveva visto giusto: credo di aver vissuto i miei primi 45 anni sempre nei panni di quelli che incrociavano il mio cammino: sentivo le loro paure, le loro intenzioni ed anche le loro passioni come fossero le mie. Sulla mia pelle. Era come se l’unico confine tra me e loro fosse la pelle e nessun altro costrutto!! Meno che mai i miei bisogni contrapposti ai loro. Loro erano attraenti e sentivo di esserlo anche io.Semplicemente imparavo a fare come loro, semplicemente li osservavo e ripetevo. Funzionava bene. E talvolta facevo pure meglio di loro. Ho imparato tante cose; avuto tanti successi e sagomato pezzetti di me. Ero abbastanza brava in tutto quello in cui mi cimentavo. Nessuno sapeva che senza volerlo, percepivoprofondamente e imitavo, piuttosto che seguire le mie attitudini.
I miei insegnanti dicevano che ero troppo emotiva. Anche loro ci avevano visto giusto: studiavo, ma la tendenza all’ansia mi faceva dimenticare. Facevo quello che dovevo, lo facevo abbastanza bene ma fino al terzo liceo non ho mai “spaccato”: mi ricordo il gesto della mano della mia professoressa di matematica. Le punte delle sue dita della mano erano verso l’alto e si toccavano l’una con l’altra a intermittenza. Voleva dire che si, studiavo, ma la sostanza non c’era; ma nemmeno ho mai peccato! Ero una “brava bambina”. Al terzo liceo sono stata bocciata. Non perché lo meritassi fino in fondo, ma un accordo tra i miei professori e mia madre voleva liberarmi dal faticoso recupero di quattro materie dovuto alle troppe assenze per malattia, che mi avrebbe fatto partire il nuovo anno scolastico già stanca. Nessuno si è accorto, invece, che io a scuola non volevo andare. Mi annoiavo. Ed ero sempre in ansia. Facevo una fatica pazzesca. La notte sognavo le interrogazioni. Avevo una paura costante. Ricordo il primo giorno della scuola elementare: sull’uscio della porta la maestra mi accoglieva con un sorriso; io guardavo tutti gli altri. Erano li da pochi minuti, come me; ma li vedevo interagire, divertirsi, come se si conoscessero da sempre; Io volevo solo scappare. Mi sentivo solo un narratore, ma dovevo essere un attore.
Mio padre diceva che ero troppo buona, ma in una accezione che non mi è mai sembrata abbastanza positiva. Insomma, forse mi si poteva rivoltare come un calzino e io me lo lasciavo fare; certamente i problemi degli altri li sentivo miei. Dovevo aiutarli. Un po’ più da grande, desideravo iscrivermi all’università di psicologia. Ma ancora mi rimbomba lo scherzo dei miei genitori: “con la tua sensibilità diventeresti oberata dai problemi degli altri. Loro si curano e tu ti ammali.” Dicevano.
Un ritratto ancora oggi appeso nel salone di casa dei miei genitori, fatto da mia madre, mi ritraeva col capo chino ed una espressione di tristezza che mi ricordo benissimo: era ampia, spessa, e a tratti rassegnata. Nei buchi ero facilmente irritabile e sempre arrabbiata.
Io mi sentivo semplicemente diversa e soprattutto sempre inadeguata: Io sentivo una moltitudine di stimoli provenienti da fuori e spesso non riuscivo ad organizzarli. Mi sentivo un senso di smarrimento ed avevo una costante domanda in testa: cosa è questa sensazione in cui mi perdo. Difficilissima da spiegare: la sua connotazione emotiva era del tutto simile ad uno stato di allarme continuo, confusa con uno stato di irritabilità altrettanto costante. E tutto rimbombava. Invece che trovare una risposta, mi saliva l’ansia, o la tristezza, o la rabbia o, ancora, il rimuginio. Costantemente. Ogni cosa che mi sfiorava, mi risuonava. Cercavo protezione. In ogni modo di essere “brava”, cercavo protezione. Cercavo di entrare nelle grazie dei miei genitori, e soprattutto di mio padre. Un suo appunto, una sua critica (e ne faceva di continuo)…. Mi ammutolivano e la vergogna e il senso di colpa mi dilaniavano (letteralmente) la pancia, allora, come in ogni epoca. La ragione di questo desiderio di approvazione costante. Era probabilmente dovuto al fatto che io per prima non credevo nel mio sentire.
Ma ero anche troppo testarda. E se qualcosa non mi andava a genio, lo faceva per ogni cellula del mio corpo. Non era un parere; diventava una questione, direi oggi, identitaria. Se qualcosa mi sembrava ingiusta, dovevo negoziarla, chiedere spiegazioni, parlarne, per dimostrare al mio interlocutore che, nella discussione, non si potevano tralasciare dettagli della narrazione che necessariamente avrebbero portato il mio interlocutore a cambiare la sua idea. Inutile dire: il mio interlocutore questo eccesso di dettaglio neanche lo vedeva, figurarsi se poteva crederlo. Non riuscivo a concepire questa a-sensorialità! I dettagli mi sono sempre arrivati. Prendevo l’autobus per andare a scuola. Aspettavo spesso alla fermata che ne arrivasse uno non troppo pieno: la folla mi disturbava. In quel tempo di attesa, guardavo ogni singola macchina che passava e le persone che erano dentro. Le loro macchine, le loro smorfie piccole e grandi, i colori che portavano…tutto balzava in un colpo d’occhio. Mi pareva di sapere chi fossero. Ovviamente non ho mai saputo se azzeccavo, ma per me non c’erano dubbi. Sentivo per grandi linee stati d’animo e livello di soddisfazione. Attribuivo loro una routine, un lavoro, una attitudine.
A certe mie reazioni esagerate la risposta era sempre la solita: Maturerà.
Questo è un luogo comune.
Io non sceglievo di essere cosi’. Io lo ero, direi oggi, fisiologicamente. E su quel “troppo” che per gli altri sembrava non accettabile, che faceva sorridere e minimizzare, non si poteva intervenire, se non con comprensione, accoglienza, amore. Tutte cose che, seppur presenti nella mia storia, in qualche misura dovevo aver ritenuto non sufficienti. Ho un ricordo nitido dell’imbarazzo ad abbracciare mia madre. Credo di aver cosi’ sperimentato il senso di abbandono, e il fatto che fossi sola. Ricordo che scherzosamente alludevo al fatto che certamente dovevo essere stata adottata.
Sono cresciuta e, come tutti si aspettavano, ero diventata socialmente matura e realizzata. Per scotomizzare la mia “immaturità”, seppur sperimentando il solito panico ad ogni prova, non solo ho conseguito una laurea (non in psicologia) e un dottorato a pieni voti (e per non sentire l’ansia ero stata proprio una secchiona.), ma in quel posto cosi’ “ostile” io ho deciso di rientrarci da professore; All’inizio ho faticato per superare la vergogna, ma poi, per un po’, la passione mi ha trascinato in un vortice. E non sentivo piu tanto disagio. Finalmente non mi annoiavano piu’. Mi sono sposata con un uomo ambito, ho fatto due figli meravigliosi. Sono andata a vivere in una mega villa. E avevo pure i cani da guardia. E ciliegina sulla torta: sembrava mi ritenessero una gran figa!
Percepivo solo una strana scomodità in tutto quello che facevo. Era tutto faticoso, sempre. E da un lato avevo imparato a dubitare di me; dall’altro continuavo ad ambire ad essere perfetta, per poter essere come gli altri: come la “normalità” impone, e poter superare definitivamente il mio senso di inadeguatezza ed abbandono. Per anni mi sono infilata in un ciclo in cui queste due cose si alimentavano a vicenda. Vulnerabile anche nelle relazioni di età piu’ avanzata, cercavo di tamponare come all’università, anche nella quotidianeità. Non mi presentavo mai ad una situazione senza aver (metaforicamente parlando) studiato dalla prima all’ultima pagina, parti speciali incluse. Altrimenti un senso di inadeguatezza mi pervadeva. Ero perfettamente incastonata in una vita da “persona altamente sensibile, corretta”. Come a volte accadeva a quei tempi: ero una mancina che imparava a scrivere con la mano destra.
Dopo pochi anni dalla nascita della mia seconda figlia, tutto l’accrocco vacillava. Io mi sentivo di scoppiare. Tutto è scoppiato. E ovviamente io ero la pazza!! Nella mia mente avevo imparato che ero solo una persona sbagliata (immotivatamente esagerata, sempre incazzata, sempre triste), con una bassa autostima, ed anche una bassa stime di se’, nonostante i successi. Una persona che per qualche subdola ragione, non aveva piu’ accesso a tutti quei dettagli. Che pensava a mettere la merce migliore sul bancone (quella brava bambina di sempre). Vulcanica. Sempre pronta a fare troppo per gli altri. Ma non era mai abbastanza. Chiedevo sempre il permesso di essere vista, o amata. Ero strana, come mi ha definito qualcuno.
Io non mi sentivo strana. Ma non compresa. Avevo a volte il bisogno di chiudermi nella mia “bolla”. Per respirare un po’.
Spesso mi sono sentita isolata. Soprattutto dopo momenti di grande sofferenza emotiva. E certamente, comprendo oggi, spesso sono stata lontana dai miei bisogni di rallentare, di focalizzazione sul compito da fare, di investire in relazioni che potessero consentirmi di essere me stessa, senza contaminarmi o intossicarmi.
….a mia figlia: Bambina Altamente Sensibile, il mio diapason. (ma questa è tutta un’altra storia J)
valeria carofiglio
ContinuaNoia
Noia
Emozione è movimento interno che preme per venir fuori, è potenza generativa, costruttiva.
L’emozione è un momento di trasparenza e autenticità del nostro Io, che emerge con irruenza, si prende il suo momento, il suo spazio, spinge, esce e dipinge, colora il nostro volto, e tutto quello che abbiamo attorno.
Le emozioni pretendono trasparenza, dignità, pretendono presenza per regalarci verità.
Sono mutevoli, piene, concrete ma anche astratte, dinamiche, decise e ingenue esattamente come noi.
L’emozione è autenticità, è numero uno, moto ed ascolto interno, è liberazione delle nostre verità e tensioni, necessaria per il reale benessere.
Può capitare nel corso delle nostre esperienze di sentirci sbagliati nel provare determinate emozioni, di non riuscire a gestirle e cerchiamo di sopprimerle, appiattirle, sezionarle, ce le nascondiamo, andando poco alla volta a eliminare i diversi colori che fino a poco prima ci accompagnavano nel dipinto della nostra tela, soffocandone sfumature, brillantezza e tonalità.
Così da una tela vitale piena, colorata e differenziata il risultato è la possibilità di utilizzare pochi o nessun colore, rendendo il dipinto spento, buio e a tratti incomprensibile.
Con la soppressione delle emozioni l’impulso di vita e il numero uno si spengono e ciò che resta è la noia. La sofferenza di certe esperienze sfiancanti, determinate relazioni impossibili intrise di dolore, il reiterare di pazzi comportamenti, anestetizzano le emozioni. I dolori cronicizzati ci rendono assenti, spettatori di noi stessi, non più protagonisti. La noia è la perdita del proprio protagonismo.
Così ogni attività, ogni evento, ogni contesto perdono di interesse, perdono di potenza, limitando la persona a emozioni fredde, rigide e bloccate. La noia porta ad una chiusura individuale, ogni stimolo perde quota, il suo valore, perché se congeli le emozioni, si tarpano le ali, precipiti nello schianto di uno sguardo fisso nel vuoto.
le emozioni sono il sale, l’ agro dolce, il miele, l’ acido e il piccante, l’ insipido, il tiepido, il ghiaccio, il bollente della vita, traducono il reale in un impatto soggettivo, trasportano, sono espansioni di energia vibrante, impetuosa e Vera. La noia è sensazione di vuoto, isolamento, smarrimento e simmetria tra la gente, impossibilità di percezione di se stessi e degli altri, è distacco.
Le emozioni sono fiumi impetuosi, scroscianti, travolgenti, freschi, veloci, cascate imponenti e meravigliose, ma cosa succede se le blocchi? Se rendi impossibile il loro scorrere, il loro movimento?
L’acqua non ha più riciclo, diventa stagnante, più passa il tempo, più si sporca, diventa torbida, non si vede più il fondo, non si vede più cosa c’è all’interno. Le emozioni trattenute sono un danger, sono come le acque in una diga, più si accumulano, più si rischia di spaccare gli argini della mente e della pelle, di travolgere se e gli altri.
Le emozioni sono le radici di una magnolia, da esse prende il nutrimento per far sbocciare i fiori della vita, che colorano i rami e il paesaggio del nostro eden. In assenza delle radici nulla nasce tutto si secca, i frutti scompaiono.
In assenza delle emozioni viviamo la nostra vita con assenza di profondità, senza desiderio, lasciandoci trasportare da ritmi obbligati, da una routine di apparente tranquillità, monotona e alienante. Viviamo le situazioni per il dovere e la consuetudine di farlo, senza gioia, ne desiderio.
Come si potrebbe ballare un tango senza emozionarsi? Cantare, sorridere, piangere, incazzarsi senza emozioni? Fare l’amore senza passione o desiderio?
Dovremmo allenarci a non bloccare le emozioni, allenarci a farle emergere e farle uscire e sgorgare con tutta la potenza del loro urlo liberatorio, ogni istante sarebbe una festa, una danza scatenata senza attesa di speciali ricorrenze, perché le emozioni sono le nostre ricorrenze per festeggiare di continuo noi stessi, per un pianto non frenato, una risata chiassosa e scomposta, orgogliosi e spregiudicati, fieri di essere vivi dentro una emozione senza coprirsi il volto con le mani.
Allenarci a gioire, ridere, urlare, piangere e commuoverci per liberare la nostra energia, la nostra potenza, liberare il nostro Io, la nostra essenza . Il blocco, la fine e la morte delle emozioni, è la noia.
benedetta racanelli
tirocinante di psicologia
Presso lo studio burdi
Senza Freni
Senza Freni
Chi fa analisi, si mette in discussione, abbatte i limiti, tira fuori le proprie meraviglie. Con essa ritorna integro e stabile, persona di fiducia, ripudia le maschere e non ha peli sulla lingua, è uno su cui si può fare affidamento, ma non all’ infinito.
È quella persona in grado di poter dire a se stessa, c’è in me qualcosa che non va, non funziono, faccio gli stessi errori, sono imprigionata nelle mie nevrosi dei miei automatismi, vorrei svincolarmi, andarci a fondo, scovare le radici, poterle sradicare.
Il problema vero tra chi si mette in discussione e chi non lo fa, è molto serio e profondo, al punto tale che esso viene esteso dal personale ad una relazionale, al sociale. Ognuno potrebbe dire di essere in grado di mettersi in discussione, ma non è così semplice. Ognuno direbbe di essere medico o psicologo di se stesso e che non credono in loro, perché sono puri commercianti. A parte le troppe resistenze e gli alibi presenti in queste espressioni difensive, c’è anche tanta esibizione di ignoranza.
Questo modo di pensare e di agire, viene determinato da chi ignora quei meccanismi mentali, tanto presenti in ognuno, che sono condizionati dalla memorie e da meccanismi interpretativo – proiettivi, limitativi, che intaccano e deviano la vita personale quotidiana delle relazioni e quella vita sociale. Ognuno si attribuisce la capacità di sapersi mettere in discussione, per il fatto di vedersi semplicemente come soggetti pensanti, capaci di auto analizzarsi. Un’ analisi di questo tipo è farlocca, porta solo acqua al proprio mulino.
L’ eccellente padre della psicanalisi Sigmund Freud, riconosce il limite di potersi analizzare da solo e per questioni personali si rivolge dal suo amico psichiatra Josef Breuer, però da questo riconce disappunto, perché non in grado di farla. Per la psichiatra psicanalista Karen Horney, autrice di un famoso libro dal titolo “Autoanalisi”, riconosce il limite dell’ analisi fai da te.
Pertanto gia chi non si mette in discussione ha già un serio problema, ma chi fa autoanalisi fai da te, è un falsario mendace, perché si auto giustifica e commisera, si ri-conduce ai propri torna conti. È patologico chi ritiene di non sbagliare mai, chi mitraglia alibi in ogni circostanza, chi è convinto di avere le ragioni sempre dalla propria parte si condanna ad un’ isolamento auto inflitto.
L’ analisi, quella titolata, va fatta da uno specialista che oltre alle sue competenze, è super partes, non ha obiettivi personali rispetto ai cambiamenti del soggetto, se non quelli concordati. L’ autoanalisi invece non è verificabile ed oggettiva, è del tutto differente per chi ha fatto un percorso individuale o gruppo analitico.
Recitava Jean Paul Sartre, “l uomo è l’ inferno”, invece sottoscritto è felice di entrare nel proprio studio, perché può incontrare persone “normali”. Ciò che rende un uomo sano e normale è unicamente la sua capacità di mettersi in discussione o il suo solo desiderio di farlo. Il mondo fuori è tossico, nevrotico, fuori di testa, psicotico, alle volte da essere odiato.
Chi fa analisi viene riportato alla serenità di se stesso, compie un restyling o il restauro del suo valore che possiede da essere riportata allo splendore dell’ opera che è, raggiunge il suo benessere, impara correttamente e consapevolmente a relazionare con il gli inconsapevoli.
Chi fa analisi, è autorizzato a mollare i propri freni inibitori, è capace di una rabbia ponderata, evoluta, ma incisiva. Chi l’ analisi non la conosce e non sa cosa sia il mettersi in discussione, trasforma la propria rabbia, specialmente quella sommata ed implosa, in impulsività o violenza.
La rabbia è una emozione regale, che si affaccia naturalmente in ognuno, quando si trova in contesti in cui si affranca il bisogno di giustizia. Essa è il nostro body gard, il rappresentante sindacale che ripetutamente invita e chiama all’ appello la propria presenza. La rabbia non è mai pericolosa, ma la sua reiterata implosione, si.
Quando essa si presenta, è delicata, alle volte non trova le parole, si manifesta sotto forma di sensazione di disagio, ma se la reattività è immediata, trova le sue ragioni e gli equilibri appropriati. Ciò che conta è comunque la sua espressione, mantenendo il contatto con i contenuti reali. La rabbia diviene depressione o violenza se ripetutamente viene soffocata.
Chi fa analisi, da ragione e valore ai propri diritti, ai principi, all’io e alla propria dignità, non va mai tralasciata, non detta o nulla di intentato. Essa è l’ espressione della propria intimità. Pertanto, parlare sempre, tacere mai. Ogni qualvolta affiori, una pur microscopica , si viene chiamati all’ appello, al proprio protagonismo, la rabbia è una grande opportunità per essere sempre vivi e presenti.
Se non ascolti la tua rabbia, l’ altro si regola su di te, ti metti in disparte, in secondo piano, scompare la tua autostima, diventi preda e zerbino, ti fai sottomettere e svalutare. Quando non
l’ ascoltiamo, ci ammaliamo e diventiamo i massimi responsabili, perché essa ti parla di continuo e tenta di difendere incessantemente la tua salute. La vita è un incessante confronto e la risposta data produce stimolo ed adrenalina, stanca e svilisce solo chi molla e non l’ ascolta.
Una persona depressa, schiva la rabbia, non ha testa per il confronto e la lotta, è stanco di suo, magari vorrebbe scomparire, si pone già come un perdente in partenza. Una persona mossa dalla rabbia, viene mossa dalla sua pulsione di vita, è più tranquilla, intraprendente e produttiva, produce endorfine e adrenalina; da lì a poco ogni conflitto gli risulterà essere la norma, perché risponde, si confronta, combatte ed ha riscontri, ribadisce, non molla, così da offrirsi l’ opportunità di avviare dei cambiamenti e risultare soddisfatto qualunque sia il risultato, perché ciò che più risolleva è, comunque, aver fatto sentire la propria voce.
giorgio burdi
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