IL BULLISMO
LA POTENZA DI UN IMPOTENTE
La Cicatrice indelebile.
“ho ancora davanti agli occhi il terrore di andare a dormire la notte”
Il bullismo è un fenomeno tristemente famoso e in crescente aumento negli ultimi anni. L’etimologia del termine deriva dall’inglese “to bully”, che tradotto in italiano vuol dire “tormentare, perseguitare”. Nel bullismo il più forte strumentalizza la propria superiorità per arrecare danno al più debole. Attraverso aggressioni fisiche, verbali o psicologiche esercita il proprio potere e domina la propria vittima. Il bullismo a qualsiasi età venga subito, è un’esperienza deleteria, pregnante e angosciante. Tutti quei comportamenti prepotenti e pervasivi portano all’esclusione sociale, a disagi personali e sono il risultato di una forte sofferenza psicologica.
La causa di tale comportamento spesso ha un’origine profonda. Anche se il bullo possa apparire come un soggetto estremamente sicuro di sé, spesso è un soggetto con scarsa empatia e frustrato, fragile e sofferente, pervaso da un senso di inadeguatezza. Le azioni violente possono essere l’espressione di sentimenti di gelosia e/o invidia, così come difficoltà nella gestione della rabbia o il controllo dell’impulsività. Per questo, il tentativo di guadagnare potere, attenzione e ammirazione. Inoltre, spesso il bullo è a sua volta vittima di bullismo e i comportamenti che mette in atto sono un’emulazione di ciò che ha vissuto e sta vivendo. Per ciò, il modo per sentirsi forte ed aumentare la propria autostima è quello di creare un rapporto di sottomissione con la vittima.
Un basso concetto di sé, quindi, può avere conseguenze sullo sviluppo dell’autostima e, non solo condurre a comportamenti aggressivi, ma anche alla vittimizzazione.
Infatti, i bambini tiranneggiati hanno un’opinione negativa di sé e delle proprie competenze, mettono in dubbio il proprio valore ed hanno poca autostima. Fanno fatica a socializzare, si sentono in difetto, inadatti e si abbandonano in stati d’ansia e frustrazione.
Come nella profezia che si auto-avvera, gli attacchi del bullo alimentano le sensazioni di inferiorità, le insicurezze e la convinzione di essere una nullità. Così, essi diventano un obiettivo di attrazione. La scuola diventa il “regno” del bullo, “la valvola di sfogo”, mentre per la vittima il luogo del terrore.
Le famiglie dei bambini tiranneggiati tendono ad essere eccessivamente coese e a rendere i figli molto dipendenti dai genitori. Questo si ripercuote negativamente sui bambini, che maturano grandi difficoltà nell’aprirsi agli altri e nel gestire le difficoltà di relazione con i coetanei.
Il trauma del bullismo può portare i bambini a provare forti sentimenti di angoscia, ansia dei luoghi comuni o paura nel rimanere soli, così come può portare ad essere desensibilizzati, a reprimere i propri pensieri o i sentimenti su quanto è accaduto. I bambini si sentono intorpiditi e perdono qualsiasi tipo di interesse.
Inoltre, come nel disturbo post traumatico da stress, possono verificarsi pensieri intrusivi, flashback di quanto accaduto. È così che il bambino si sente in trappola, in un loop, e continuamente sconfitto.
La storia di Daniele
Le conseguenze di un atto di bullismo però non si ripercuotono solo sulla vita presente dei bambini, ma può avere importanti conseguenze anche sul futuro dell’individuo. Così come ci racconta Daniele, nella sua lettera al bullo:
“Sembra ieri che varcavo la porta di quell’aula maledetta del primo giorno delle superiori e come se fosse ieri ancora mi ricordo quello stato d’animo… la paura di iniziare un nuovo anno, un percorso, l’ansia di non riuscire a socializzare, di trovarmi maltrattato, maledetto, inadatto come già era successo alle elementari, di essere incompreso, insultato, di essere diverso, di non essere uguale a chi ? di non essere come tutti gli altri, di essere considerato una nullità, sensazioni che man mano che passavano i giorni prendevano sempre più piede fino a diventare incubo e realtà… ho ancora davanti agli occhi il terrore di andare a dormire la notte perché sarebbe venuto quel “domani”, quella mattina, quella “maledetta” ricreazione dove tutto era possibile… dove andavo al bagno e quando tornavo in classe vedevo lo zaino preso a calci , la merende buttata in terra o nel cestino, disegni sulla lavagna per prendermi in giro essere considerato il soggetto inetto della classe, non si sa per quale ragione… ; potessi tornare indietro avrei preso a calci e pugni tutti chiunque mi veniva ad insultare, chiunque mi faceva star male, chiunque si fosse messo sulla mia strada; purtroppo però non si può tornare indietro, ma solo avanti ed io voglio andare avanti voglio stare bene e voglio la serenità, quella serenità che mi è mancata in quei cinque anni…forse è proprio per questo che adesso sono cosi… che penso solo a divertirmi, a maggior ragione da quando mi sono lasciato con la mia ex, sono freddo, cinico, razionale con solo la voglia in testa di “scopare” e non avere più sentimenti ed emozioni verso nessuno, ne ricordo solo di negative, per non stare male di nuovo e non avere più pietà di quella pietà e rispetto, che ho sempre avuto e non mi ha portato da nessuna parte… e tu, mamma, sei una grande mamma sempre presente, troppo accorta… eh si quel troppo che secondo me è controproducente perché non mi ha fatto crescere mi ha fatto essere insicuro non mi ha fatto mai sbagliare, sempre protetto da un mondo per lei feroce, non mi hai aiutato a difendermi e di sbagliare, perché a volte sbagliando capisci molto di più rispetto alla cosa giusta da fare e per quanto ti amo come figlio, devo riuscire ad autonomizzarmi e distaccarmi per riempire quei tasselli che mi mancano per sentirmi più uomo, per non essere più quel bambino indifeso e protetto dalla mamma, per avere un mio equilibrio, la mia logica, il mio istinto di protezione e per dire finalmente questa è solo la “vita” mia, la vita di Daniele.”
Daniele
Francesca Scalera
laureata in psicologia clinica e della riabilitazione–Tirocinante Presso lo Studio BURDI
ContinuaL’ OPPORTUNISTA
L’ OPPORTUNISTA
Mi serve, lo uso, lo prendo, lo getto, è un domo pack, una prestazione d’ opera gratuita, una agenzia di servizi, è come uno scarabocchio nel cassetto, un appunto stropicciato, un barattolo nel cestino, un fazzoletto soffiato, un tovagliolo sulle labbra, un profilattico, una scatola di sigari, un vuoto a perdere, un cellofan dei biscotti, l’ acqua degli spaghetti, un sacchetto della spesa, un pranzo in una dissenteria, l’ umiltà in soffitta, il fumo di un toscano, un falò fatto cenere, un botto di capodanno, un battito di ali verso il cielo.
Può un uomo essere così fugace, consumato come uno stuzzicadenti, sola sorgente di informazioni, di prestazioni, di energia da utilizzare, un uomo mono uso usa e getta ?
L’ opportunista è un bulimico, ti fagocita, e poi ti sputa, è un ladro, fa furto del tuo tempo, delle competenze, ti usa, e non sta bene, si ricarica e scompare, dimentica, non fa memoria, è macchiavellico, il fine, è renderti utile, non fa riguardi , non è discreto o riconoscente, gli è tutto dovuto, si spaccia per amico, fratello o famigliare e alla fine, per completare la sua manipolazione, ti dice di volerti bene.
L’ opportunista, non tollera il no, è un manipolatore, adulatore, un affettivo di circostanza, è l’ amico su Facebook, è la bambola di gomma di Tinder, è un invadente, spregiudicato nel giudizio, si autorizza a fare interminabili domande, l’ antitesi della privacy, l’ opinionista è incompetente, è un conformista globalizzato, sa “come si vive”, da consigli non richiesti, è un invidioso, di chi l’invidia non la conosce.
L’ opportunista ti gira le spalle, se ne frega, “ l’ acqua passata, non macina più” , lontano dagli occhi, lontano dal cuore, passato il santo, passata la festa, è l’ uomo che vive alla giornata, domani ci pensa, cinico, ha la memoria corta, è scordevole ed obblighi non ha, ha l’ alzheimer da circostanza, “ Chi ha avuto, ha avuto.,chi ha dato, ha dato… scurdámmoce ‘o ppassato, Simme … paisà! “ . Tutti luoghi comuni, cosi tanto evidenti e presenti che impregnano la nostra cultura e la rendono insignificante.
L’ opportunista, è anche l’ uomo dei favori, che attende dieci volte il loro rientro, non è un meritocratico, salta la fila, è frettoloso, scavalca, arrampicatore sociale, quello dello status simbol, ama, quelli di “una mano lava l’ altra”, o “mi potrà essere utile”, ti promette, è un politico che baratta prestazioni e cortesie.
L’ opportunista è un pappone, un business man, uomo d’ economia, spilorcio d’ affari, barattatore, uno scambista, non spende mai è uno scroccone, fissato alla fase anale, vende fumo, va sempre al ribasso e ti rifila un mattone, alla prima occasione ti vende.
Ti frequenta finché produci, tu vali quanto capitalizza è un consumabile. Materialista spudorato, per lui sei materiale deteriorabile, nemmeno riciclabile, un fecaloma da espellere prima o poi.
L’ opportunista è un ricercatore di opportunità, di prospettive di un suo migliomento. Prendi tre e ne paghi uno.
L’ opportunismo è uno stile di vita dei peggiori vizi capitali di nuova generazione.
L’ opportunista è il materialismo della dignità, l’ assenza e la non curanza dell’ intelligenza, è la rappresentazione dell’ uomo oggetto, che lo vede schiavo. La rivoluzione contro l’ opportunismo è la riqualificazione per un uomo non riducibile ad oggetto di consumo, rappresenta il recupero del rispetto di se dell’uomo e della sacralità del proprio tempo.
giorgio burdi
ContinuaLA RABBIA
La nostra rappresentante sindacale
Se sappiamo osservare la rabbia capiremo su cosa e come lavorare per migliorare il suo utilizzo.
La rabbia è una risposta naturale ed adattiva, grazie alla quale possiamo difenderci in caso di una minaccia reale o percepita. La giusta quantità di rabbia quindi è necessaria e fondamentale per la nostra sopravvivenza.
Quest’emozione può essere vissuta in modo ambivalente: se da una parte questa emozione difende il nostro Sé agendo come protezione dalle minacce, dall’altra parte può essere vissuta come un atto aggressivo verso terzi e se stessi, provocando conflitti intra e interpersonali.
Inoltre, l’ambivalenza di questa emozione si denota anche nella sua manifestazione in quanto può essere espressa sia come rabbia repressa che come rabbia aggressiva. Nella rabbia aggressiva la distruttività, la vendetta e l’esplosività fanno da padroni, mentre nella rabbia repressa troviamo più forme di manifestazione passiva, tradotte in sensazioni come la tristezza, l’impotenza, la vergogna, l’ansia, l’inadeguatezza e l’isolamento.
La rabbia quindi può essere sia una conseguenza, che una distrazione, dall’intenso dolore.
Molto spesso, quando si sperimentano sintomi ansiosi o attacchi di panico, il soggetto non riesce a comprendere da solo le motivazioni che hanno scaturito tali episodi. Così come può capitare anche nella depressione, in questi casi le componenti fondamentali dei sintomi sono proprio la rabbia repressa e il sentimento di intrappolamento.
Proprio come sosteneva Freud “Le emozioni represse non muoiono mai. Vengono sepolte vive e prima o poi usciranno nel peggiore dei modi.” “Infatti, l’intreccio di mente e corpo fa sì che ciò che non viene espresso a livello emotivo, venga canalizzato a livello corporeo.”
Le emozioni represse, tra cui la rabbia, possono essere delle possibili cause di questi sintomi. Questo avviene perché a volte si tende a vivere le emozioni come qualcosa di disconnesso dalla nostra mente e dal nostro corpo.
La rabbia repressa è protagonista anche nei soggetti che hanno una bassa autostima. La visione distorta di loro stessi li intrappola e li limita, non gli permette di esprimersi liberamente.
Spesso le persone che accumulano rabbia, anche verso se stesse, e la reprimono, tendono ad autocriticarsi, ad accettare ogni critica come se fosse vera, sono passivi, oppure eccessivamente disponibili; controllano inconsciamente questa emozione nascondendosi dietro indifferenza o “falsa compiacenza”.
La rabbia contro se stessi è deleteria, tende ad accrescere progressivamente ed innesca un pericoloso meccanismo autodistruttivo.
D’altro canto, la rabbia aggressiva è esplosiva, rabbiosa si agita internamente, investe tutto il corpo e provoca tensioni. Con la sua manifestazione è l’evidenza di un malessere sommerso che, se non decodificato può diventare pericoloso per noi e per gli altri. Una reazione vulcanica impedisce di trovare soluzioni adeguate, di analizzare con lucidità il contesto e le cause che l’hanno portata a manifestarsi.
Saper leggere dentro di noi il processo di attivazione della rabbia vuol dire dirigere l’osservazione e l’accettazione di tutti quei sentimenti di inferiorità, tendenza alla perfezione, mancanza di sostegno e senso di inadeguatezza che possono aver caratterizzato i nostri vissuti trascorsi.
“La rabbia ha una cattiva reputazione, è spesso associata a violenza e aggressività ma anche questa emozione può avere risvolti positivi. La rabbia può essere canalizzata per far rispettare i propri diritti e apportare cambiamenti intorno a noi”.
Durante una seduta di gruppo, un paziente, che può vantare ad oggi di un grande percorso di cambiamento, racconta di come la presa di consapevolezza e l’espressione della rabbia prima repressa sia stata un punto importante nel proprio percorso.
Questa carica emotiva, diventa funzionale e fondamentale nella tutela dei propri limiti e bisogni, e si struttura come difesa del proprio valore personale. Al contrario, è possibile osservare come nei soggetti incapaci di amare se stessi esprimono un tipo di rabbia “disfunzionale”.
Analizzare le origini di una rabbia disfunzionale, può dirigerci verso i nostri irrisolti, verso quegli echi che probabilmente appartengono al passato, ad un’infanzia lontana.
Francesca Scalera
Laureata in Psicologia clinica e della riabilitazione-tirocinante post laurea presso lo studio Burdi
Continua
EROS E THANATOS
L’Impasto delle pulsioni di vita e di morte
Sempre attiva, per amare o per odiare, per far vivere o per distruggere, mai per tendere ad un deperimento naturale
Secondo Freud ogni persona sin dalla propria nascita possiede un “impasto di Pulsioni”, pulsioni sia di tipo libidico che aggressive (Eros e Thanatos). Nello specifico, l’eros è l’insieme delle pulsioni di vita che danno origine alla componente erotica dell’attività mentale, mentre thanatos sono le pulsioni di morte, che danno origine alla componente puramente distruttiva.
Le due pulsioni operano in tutte le manifestazioni possibili, sia normali che patologiche, in modo congiunto. Ogni attività mentale quindi trova la presenza delle due pulsioni, fuse tra di loro. L’energia libidica e quella aggressiva si legano in modo indissolubile alla psiche , come espressione della sintesi tra psichico e somatico. La vita diventa così un bilanciamento fra queste due forze sia a livello individuale che in relazione all’ambiente.
L’aggressività e la distruttività, le pulsioni di morte, sono dei comportamenti reattivi, una risposta alla frustrazione. Va specificato però che, mentre l’aggressività in determinate situazioni può essere una difesa utile alla sopravvivenza, la distruttività si volge contro le radici stesse della vita.
L’aggressività appare come un meccanismo messo in atto al fine di fronteggiare situazioni percepite come spiacevoli o persecutorie.
Gli esseri umani, infatti, non operano solo in relazione alle condizioni poste dall’ambiente esterno ma anche in risposta alle richieste e pressioni provenienti dall’interno. Secondo Freud le pulsioni di morte, quelle distruttive, si esprimono attraverso l’aggressività verso il prossimo e sé stessi. Di fatto, ogni uomo desidera la felicità, ma gli eventi e l’esperienza vissuta possono influenzare in modo negativo il percorso, la psiche e ciò che siamo, portando ad uno sbilanciamento tra le pulsioni.
Si pensi anche semplicemente ad un soggetto ansioso: l’ansia è distruttiva, deleteria, ha un grande impatto sia negli aspetti individuali che interpersonali, compromette lo stile di vita. Le pulsioni di morte in questo caso sono predominanti.
Lo sbilanciamento può verificarsi quando dei comportamenti adottati in passato si sono rivelati inefficaci o, in particolar modo, in caso di una specifica storia evolutiva che ha condotto ad una disintegrazione del sé.
In tal senso il soggetto non possiede altri “strumenti comportamentali” che non siano quelli aggressivi. Questo può portare ad uno sviluppo graduale di un’organizzazione patologica che danneggia la personalità come avviene nelle perversioni.
È importante quindi, operare in modo che le pulsioni vadano di pari passo e siano in equilibrio, dando il giusto valore sia alle pulsioni di vita che di morte.
Senza la morte, senza cioè la cessazione delle tensioni erotiche l’amore sarebbe destinato a rimanere perennemente insoddisfatto ed è così finché siamo vivi. Ecco perché la pulsione di morte sarebbe al servizio del principio del piacere benché nel suo realizzare la cessazione delle tensioni andrebbe, al tempo stesso, al di là del principio del piacere.
“Sotto questo punto di vista, quindi, l’aggressività diviene un elemento organizzatore del sé, finalizzato a realizzarne l’equilibrio qualora venissero avvertite minacce esterne.”
Francesca Scalera
laureata in psicologia clinica e della riabilitazione – Tirocinante Presso lo Studio BURDI
ContinuaLA SOLUTUDINE
Il caos nella solitudine
Ciò che rende socievoli gli uomini è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, se stessi.
Schopenhauer
Ognuno di noi ha un proprio modo di rappresentare la solitudine, di viverla o, d’immaginarsela.
L’uomo fugge alla solitudine costellando il proprio mondo di relazioni, di immagini e azioni. Nel tentativo di placare tale sensazione, l’uomo si procura le gioie e le sofferenze della vita.
La paura di rimanere soli, la necessità e il desiderio di evitarla, costituiscono il principio motivazionale primario nell’uomo, nei bisogni si appartenenza, come bisogno sociale e di sopravvivenza psicologica.
La spinta a fuggire dall’isolamento determina in parte ciò che siamo, o meglio, ciò che sembriamo. La solitudine diventa quasi un nemico dal quale fuggire e, le nostre decisioni, le relazioni, ciò che diciamo e facciamo, sono animati dalla paura di rimanere soli.
“Chi vive dentro di me nell’infinita solitudine dell’unico?”
Ma, perché?
Quando siamo soli, sono i nostri pensieri e i ricordi a parlare, a prendere vita e a farci compagnia. Non sempre però, ciò che ascoltiamo è accettato. Potremmo essere preda di cognizioni negative su noi stessi, sentirci inadeguati, incapaci di affrontare le situazioni della vita o, addirittura senza speranza.
La paura della solitudine quindi, può essere la paura di ascoltarsi e affrontarsi. Fuggire dalla solitudine, circondarsi di relazioni e impegni, quindi, può essere tradotta come una fuga da noi stessi.
Quando torniamo a casa, ci mettiamo a letto e rimaniamo soli, il silenzio viene interrotto dal caos dei propri pensieri. Iniziamo a pensare, a ricordare e le proprie sensazioni hanno più libertà di espressione. E, forse, è questo a spaventare. Non tanto la mancanza dei propri affetti, ma il timore della consapevolezza.
In tal senso, più siamo occupati socialmente e non rimaniamo soli, più abbiamo la possibilità di evadere dai propri disagi.
La solitudine però può evocare aspetti contraddittori: chi colma il silenzio e la paura di affrontarsi con le appartenenze e chi si rifugia nel proprio intimo.
Questo, naturalmente, è strettamente correlato all’autostima e al modo in cui ognuno si vede.
Le persone hanno bisogno di intimità, di calore, un senso di valore e frequenti conferme della loro identità. Questa però non andrebbe ricercata nelle relazioni sociali, ma nel modo di percepire se stessi.
“L’incapacità di sperimentare la solitudine mette in discussione in modo appropriato la propria natura di essere sociale.” (Wood)
Rielaborare la propria storia e vissuto diventa un passaggio fondamentale; ragion per cui la solitudine può essere uno strumento per realizzare un vero incontro con il proprio sé, rivelare le emozioni che proviamo, sentiamo ed inventiamo e ridare valore al silenzio.
Così, saper stare soli diventa una risorsa preziosa, aiuta l’individuo ad integrare i pensieri interni con i sentimenti e, in tal modo, la solitudine non è solo un mostro dal quale fuggire, ma è anche forza e vittoria, conquistata dal riconoscimento di una propria individualità.
Francesca Scalera
Laureata in Psicologia clinica e della riabilitazione-
Tirocinante presso Studio Burdi
ContinuaLE SOMATIZZAZIONI
Quando la testa nasconde, il corpo parla e reagisce sempre
“Per cambiare il tuo corpo devi prima cambiare la tua mente”
“Mi sono svegliato di notte, all’improvviso, sentendo una fitta così forte vicino al cuore. Facevo fatica a respirare. Da lì, una corsa estenuante tra visite e analisi. Ma, nulla. Sono sano come un pesce, eppure ho pensato al peggio! Eppure, i sintomi li ho avuti! Come è possibile?”.
“Lo scorso anno, durante la quarantena, un giorno mi è saltato il ciclo, pensavo ad un ritardo dovuto dall’improvvisa perdita di peso o dall’insonnia. Uno, due, 7 giorni. Nulla! Allora ho pensato che la superficialità nel non usare precauzioni con il mio, da poco, ex ragazzo abbia avuto i suoi frutti.
Ma dopo mesi ancora nulla.
Eppure i sintomi pre e mestruali ogni volta erano presenti! Per questo ogni mese ero convinta che tornasse.
Così, mi sono fatta visitare e dopo tante analisi del sangue, tutto nella norma. TUTTO NELLA NORMA? Ma il ciclo non c’era! Oltre ai danni che può provocarne l’assenza, mi sentivo anche meno donna, come se mancasse qualcosa.
Mi è stata assegnata lo stesso una cura ormonale per cui inizialmente il ciclo è tornato (a stento).
Dopo un anno, però, sono di nuovo da punto a capo. Perché? Ho ripreso peso, dormo e mangio adeguatamente. Sto bene fisicamente ed emotivamente, credo. Poi, mi sembra di non passare un periodo stressante.
E allora che c’è? Dovrei rimandare dal medico!?!.”
Mente e corpo sono due realtà che non possono essere pensate in modo assoluto, bensì come parti integranti. Nonostante per decenni si è creduto nel dualismo tra mente e corpo, ad oggi, è noto, come questi siano strettamente legati.
Il corpo è la mente e la mente è il corpo.
Il corpo è lo strumento di comunicazione perfetto, ha un suo linguaggio, a volte ricopre il ruolo di “messaggero” e soprattutto non può mentire.
Laddove la mente non riesce ad elaborare o a riconoscere un disagio psicologico, il soggetto non può far altro che far parlare il corpo attraverso il ricorso alla somatizzazione. In questo caso il sintomo fisico si manifesta come un campanello d’allarme e costituisce un invito ad occuparsi di sé e del proprio mondo interno.
“Di emozioni si vive, ma ci si può anche ammalare”
Come sostiene Galimberti nel Dizionario di Psicologia (1992) la malattia si manifesta a livello organico come sintomo, e a livello psicologico come disagio.
Molte volte le persone che presentano sintomi somatici nel momento in cui si rivolgono allo psicoterapeuta o allo psichiatra si sono sottoposti già a svariati esami medici e, spesso, sono gli stessi medici che non trovando alcuna causa organica suggeriscono il consulto di uno psicologo.
Di norma, quando una persona sente di stare male o presenta manifestazioni fisiche si rivolge al medico e si sottopone, di conseguenza, a controlli, analisi o day hospital. Dai referti però non sempre viene riscontrata una patologia specifica. A questo punto il soggetto inizia, con ansia e preoccupazione, a destreggiarsi tra un esame ed un altro, sempre senza trovare alcuna causa ai sintomi, perlomeno di natura medica.
I sintomi fisici dunque, nonostante suggeriscano l’esistenza di un disturbo organico, sono il segnale di un disturbo somatoforme. Questi non derivano da una condizione medica, bensì dalla presenza di un disagio mentale.
Ciò che non si vede fa più paura di ciò che si vede.
Il soggetto si trova in una situazione nuova, alla quale non riesce a dare un significato. Alla sofferenza fisica si accompagnano anche difficoltà nelle attività di tutti i giorni. I sintomi influenzano non solo l’aspetto organico ma anche la sfera sociale, intrapersonale e lavorativa.
È doveroso specificare infatti, come i disturbi psicosomatici sono spesso associati alla presenza di un’altra condizione psicopatologia, quale l’ipocondria. Dati i sintomi lamentati il soggetto vive in uno stato di paura, di preoccupazione eccessiva e di ansia. Il soggetto non riconosce la natura psicologica del proprio disturbo, continua a cercare una motivazione medica e avendo il timore per il proprio benessere fisico, a volte, non crede neanche alle rassicurazioni mediche.
Dal punto di vista psicosomatico, l’ipocondria esprime la necessità del soggetto di occuparsi del proprio mondo interno, di comprendere ciò che accade nel proprio inconscio, ciò che la coscienza vede come un mostro.
In quest’ottica, l’elevata preoccupazione ed attenzione per il benessere fisico esprime il desiderio di conoscere se stessi.
Come è stato già sottolineato quindi, il nostro corpo ci racconta, traduce quanto accade nel nostro inconscio e da voce alla nostra sfera emotiva. Ogni sintomo riguarda anche il nostro mondo interno, per cui è possibile pensare al disturbo come un simbolo, un linguaggio, un modo di pensare e di stare al mondo.
Gli eventi passati, la rabbia, l’ansia, i propri desideri o opinioni per esempio, si trasformano in atteggiamenti con cui affrontiamo la vita. Gli atteggiamenti che assumiamo si riflettono nel tono di voce, nella postura, nel modo di camminare, ma anche per esempio nella sessualità, determinano il modo di agire ma anche di relazionarsi.
Per affrontare i disturbi psicosomatici quindi, è importante spostare la propria attenzione dal piano fisico a quello più profondo, identificare (grazie allo psicoterapeuta) gli eventi, le paure e le fantasie che la persona sta cercando di gestire senza esserne consapevole, i mostri che la coscienza si rifiuta di portare a galla.
Francesca Scalera
laureata in psicologia clinica e della riabilitazione – Tirocinante Presso lo Studio BURDI
ContinuaPERMALOSO E SUSCETTIBILE
Permalosità e suscettibilità: E le due facce della stessa medaglia.
Uno scherzo, una parola di troppo o detta in modo fraintendibile, una critica innocente, una battuta o un’osservazione non richiesta… sono tutti aspetti comuni in un dialogo e che, di norma, non recano alcun danno. Per i soggetti permalosi e più suscettibili, invece, tutto ciò può essere motivo di offesa se non un attacco alla propria persona.
Andando ad analizzare l’etimologia del termine, Treccani definisce un soggetto permalóso: “Una persona facile a offendersi, che, per eccessivo amor proprio, si risente e s’indispettisce di atti e parole che altri non considererebbero offensivi (e che per lo più non sono tali nelle intenzioni)”.
Andando a fare un’analisi psicologica, piuttosto, è importante notare come la definizione sopraindicata sia incompleta e parziale. Infatti, contrariamente all’inciso “per eccessivo amor proprio”, la causa primaria di un comportamento permaloso e suscettibile è la mancanza di autostima.
I soggetti permalosi mettono in atto un meccanismo di difesa quale la proiezione. Questo meccanismo può avere dei risvolti sia positivi (si pensi all’empatia), che negativi, come in questo caso. Il soggetto allontana da sé un contenuto psichico che non è accettato e riconosciuto, spostandolo all’esterno…: “il cattivo sei tu”. In altre parole, i soggetti permalosi percepiscono dagli altri le criticità e i presunti attacchi che in realtà risiedono dentro di loro. In questo caso, di fronte ad una parola fuori posto, gli altri diventano ostili, cattivi.
Allo stesso modo, quando una persona ha un’immagine di sé vacillante, cerca nell’altro conferme e gratificazioni. Questo, può influenzare i rapporti personali, le relazioni e le reazioni altrui, intaccando non solo la sfera sociale ma anche, per esempio, quella lavorativa o familiare. Inoltre, di fronte alla percezione di un’offesa da parte di un caro, il soggetto vive tutto in maniera più amplificata. In questo caso non solo aumenterà l’insicurezza e il disappunto verso se stessi, ma si avrà anche la sensazione di essere stati traditi.
“La persona sottopone il prossimo a una continua prova d’amore e ogni mancanza innesca forte delusione, senso di sconfitta, sfiducia e sensazione di tradimento.”
È bene sottolineare, poi, come la permalosità e di conseguenza la mancanza di autostima, abbia cause diverse da soggetto a soggetto (per esempio quelle dovute alla sindrome di abbandono), spesso radicate anche nella prima infanzia, oltre ad avere forme di espressione e reazione diverse.
Infatti, al contrario di un soggetto visibilmente fragile, la permalosità si presenta anche nei soggetti con un eccessivo (apparente) amor proprio, come nel caso di un narcisista. Il narcisista è un soggetto che, dietro le proprie fantasie di grandiosità, maschera un’autostima fragile, sentimenti di inferiorità e paura di un confronto. La permalosità di un narcisista spiega le reazioni di rabbia ad un presunto attacco, ad una critica o un disaccordo, data dalla paura che possa vacillare la propria corazza.
Uno dei massimi studiosi della patologia narcisistica, Heinz Kohut, afferma che tali reazioni hanno “l’obiettivo inconscio di cancellare l’offesa di chi ha osato opporglisi, incomprendere, dissentire o fargli ombra”, così da non dover affrontare e mascherare la propria insicurezza.
Facendo testo alla sindrome dell’abbandono sopracitata poi, i soggetti in questione sono alla continua ricerca di approvazione e gratificazione. Una critica e una presunta offesa, seppur minima, possono portare in memoria le sensazioni di abbandono e tradimento, scalfendo ancora di più la propria autostima e la propria immagine.
Francesca Scalera
laureata in psicologia clinica e della riabilitazione – Tirocinante Presso lo Studio BURDI
ContinuaLA DIPENDENZA AFFETTIVA
“La dipendenza affettiva presenta una terribile limitazione, l’incapacità di essere davvero felice, arginata solo da un rimedio: l’altro.”
Dire basta alla dipendenza affettiva. Imparare a credere in se stessi- Marie-Chantal Deetjens.
LA DIPENDENZA AFFETTIVA
La paura del vuoto e una crepa nel processo dell’ identificazione personale
La dipendenza affettiva, in inglese love addiction, rimanda ad una tipologia di relazione che può essere definita disfunzionale e disturbata. Questa, infatti, si distingue per una situazione di svantaggio del dipendente e da un rapporto “a senso unico”, in particolar modo per colui che sviluppa la dipendenza.
Chi soffre di dipendenza affettiva si sente inadeguato e non degno di amore e vive costantemente con il terrore di abbandono.
È noto come nei rapporti amorosi vi sia la prima fase di “idillio”, la fase di amore romantico, costituita da estrema felicità, passione, euforia e idealizzazione del partner. Durante questa fase alcuni autori (Aron, Brown, Fisher, Xu), hanno individuato in alcuni individui la presenza di sintomi caratteristici dei disturbi di dipendenza, tra cui euforia, desiderio, tolleranza, dipendenze emotiva e fisica, ritiro e ricaduta.
Quando le connotazioni più dipendenti diventano prerogative e necessità assolute, vi è la possibilità di cadere nel versante più disfunzionale del rapporto, quale la dipendenza affettiva patologica.
Il rischio di maturare una dipendenza affettiva, infatti, deriva dalla capacità di entrambi i soggetti di riconoscere la propria individualità e rispettarsi come individui separati.
È utile notare che, in lingua inglese, il termine addiction richiama una condizione generale in cui la dipendenza psicologica esorta alla ricerca dell’oggetto di interesse, senza il quale la vita mancasse di valore.
Il soggetto dipendente si basa su una profonda paura dell’abbandono e fa qualunque cosa per evitarlo, oltre ad una condizione di vuoto emotivo interno che cerca di compensare. Nonostante provino sentimenti negativi come tristezza, disperazione e insicurezza, la loro intensa paura della rottura contagia il legame emotivo, rendendoli vulnerabili, patologici e deleteri. La paura della rottura è tale che rimangono in relazioni che causano loro disagio, sacrificando i propri desideri e bisogni e portando al deterioramento della loro qualità di vita.
La dipendenza affettiva si presenta, quindi, come un modello disadattivo della relazione che determinata una condizione di angoscia clinicamente significativa e deterioramento. La mancanza della persona amata può essere sovrapponibile ai sintomi tipici dell’astinenza da sostanze: ansia, irritabilità, rigidità, sensazione di vuoto e la lacerante ricerca dell’altro (craving). Allo stesso modo lo sviluppo della dipendenza si può caratterizzare da ripetute deprivazioni o rotture del rapporto. Come nella dipendenza da sostanze però, la negazione non fa altro che aumentare il desiderio e quindi aumentare drasticamente lo sviluppo della dipendenza. Così, il dipendente è alla continua ricerca della relazione, nonostante l’esistenza di problemi creati dalla stessa.
Freud parlava di coazione a ripetere, ovvero la tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze. Così, la persona dipendente ricerca inconsciamente un partner che possiede già tutte quelle caratteristiche che la porteranno a soffrire. Anche nel caso di rottura il soggetto andrà a cercare una nuova relazione in cui metterà in atto le stesse dinamiche.
Nella costruzione dei rapporti affettivi, quindi, un elemento fondamentale è la formazione dell’immagine di sé a partire dai processi di separazione e individuazione, che sfociano in quello di “identificazione personale”.
A tal proposito è possibile far riferimento alla piramide dei bisogni di Maslow (1954) che inserisce al quarto e al quinto posto i bisogni di appartenenza ed autostima.
La scarsa autostima spinge il soggetto dipendente a leggere la scarsa disponibilità del partner non come informazione sull’altro, ma come un’errata visione di sé (“non mi ama perché io non vado bene”).
La dipendenza affettiva nasce prima dell’inizio del rapporto di coppia. Questa, affonda le sue radici nel rapporto genitoriale durante l’infanzia. La qualità dei rapporti primari, infatti, determina la strutturazione dei legami futuri, in particolar modo in riferimento agli stili di attaccamento.
Chi da adulto sfocia in una dipendenza affettiva, quando era bambino ha ricevuto continui messaggi da parte dei propri genitori di non essere degno di amore né di attenzioni. Spesso sono stati dei bambini che, per essere accettati si sono trovati a dover dimostrare sempre qualcosa, imparando che l’unico modo per essere amati è quello di sacrificarsi ed annullarsi per l’altro.
È l’esempio di una paziente che, nonostante abbia chiesto aiuto per la propria dipendenza affettiva dal partner, durante una seduta di gruppo si presenta descrivendo anche il complesso rapporto genitoriale; la pressione di questi, la conseguente sensazione di inadeguatezza e la continua sensazione di dover dimostrare e raggiungere un obiettivo per la soddisfazione di tali.
L’elevata ansia per l’abbandono, un alto desiderio di vicinanza, intimità, impegno e preoccupazione ossessiva, veicolano la differenza tra l’attaccamento ad una persona e la dipendenza i quali, sembrano avere un confine molto sottile.
È stato dimostrato come il tipo di attaccamento influenzi l’espressione funzionale o disfunzionale della rabbia. A tal proposito, le persone che hanno maturato un attaccamento preoccupato, predominante nella dipendenza emotiva, sono inclini a provare maggiore rabbia e l’impossibilità di regolamentarla.
“La rabbia ha una cattiva reputazione, è spesso associata a violenza e aggressività ma anche questa emozione può avere risvolti positivi. La rabbia può essere canalizzata per far rispettare i propri diritti e apportare cambiamenti intorno a noi”.
A seguito di un rispecchiamento nel corso della seduta di gruppo, un paziente, che può vantare ad oggi di un grande percorso di cambiamento, racconta di come la presa di consapevolezza e l’espressione della rabbia prima repressa sia stata un punto importante nel proprio percorso.
Questa carica emotiva, diventa funzionale e fondamentale nella tutela dei propri limiti e bisogni, e si struttura come difesa del proprio valore personale.
Al contrario, è possibile osservare come nei soggetti incapaci di amare se stessi esprimono un tipo di rabbia “disfunzionale”.
Dunque, la riflessione conseguente alla presenza di una dipendenza, affettiva e non, si orienta alla ricerca delle motivazioni profonde ed intrinseche (piuttosto che alla sola soluzione) che spingono il dipendente a relazioni deleterie e disfunzionali. È come se la persona avesse imparato a recitare solo e sempre lo stesso copione: per cambiare bisogna arricchirne le trame ed i personaggi.
Francesca Scalera
laureata in psicologia clinica e della riabilitazione – Tirocinante Presso lo Studio BURDI
ContinuaIL CAVERNICOLO
IL CAVERNICOLO
Inno al Codice Rosso
Il cavernicolo è un Intellettualoide, non scolarizzato, vive dalla pancia in giù, cultore del muscolo senza pelo, è uno dalle frasi fatte, affogato di Instagram, si fa di di aforismi, allenatore di bicipiti, esteta brizzolato, figùrino gonfiato, big gim depilato aitante o un vecchio gelatinato, allampadato, attempato rimorchia bambine in Rolls-Royce, un pedofilo, un demone che veste Prada, indossa scarpe di vernice, beve birra alla canna con la narice infarinata, ramingo per i viali, con i pantaloncini e il pacco stretto, pesca negli ipermercati, pronto ad intercettare e con rozza eleganza tenta di rimediare e arruolare.
Il cavernicolo, è un uomo nato xy, ma involuto ad xxx, un homo Sapiens, depilato col Rolex, navigatore di pornhub, pornoroulette e sex cam, traffica in adult friend, badoo, tinder e bumble, kiss kis e sex action, adescatore e vittima nel cyber sex business, residente in un sotto sotto bosco di dipendenze, la sua curiosità si fa ricerca proibitiva, sconfina nell’ orrido, vive nel no limits delle manie, delle sue parafilie, è preso da tutto ciò che lo può rendere posseduto.
I cavernicoli sono persone molto sole, ti fanno tenerezza, perduti nella loro disperazione, sono vampiri che affilano i loro canini, sbavano come iene affamate, hanno la mascella dura di chi spacca le ossa, non sono onnivori ma sensibili carnivori, mirano, puntano e schivi con passo felpato, inseguono la preda, pronti ad assediarla, raggirarla e ed assalirla come carogne.
Per il cavernicolo le donne e le pargole sono carni succulente, agnellini da latte, le assapora e già al pensiero, le rigetta con lo stuzzicadenti, le tratta con cinica supponenza, subdola aggressività passiva, sono serbatoi da riempire, bambole gonfiabili, bocche insaziabile e gustatrici, mucche e roditori slabbrati, al loro passare sbrodola bava come una carogna affamata.
È viscido , bugiardo , sadico, ha una intelligenza da macelleria, e’ grezzo, maleducato e volgare, fischia, dopo il servizio, si gira e russa, resta appiccicato ai suoi social e va via, e’ avaro da fare spavento, non condivide nulla, vive di caccia, alla giornata, non ha progetti, sfrutta finché può, ostenta ciò che non ha, non fa accordi di se stesso, è un indeciso cronico, e’ superstizioso, gira in casa in mutande, bacia in bocca e si struscia sui figli.
Non ha ritegno, ha lo sguardo sudato da lumaca, sembra toccarti e violarti con lo sguardo che oltrepassa quel sacro confine del tempio umano, sembra sporcarlo, sfregiarlo con le sue mucose, come sbranasse un entrecôte; è maldestro, grossolano, si muove come un elefante, ti parla come da padrone, le donne sono piccole schiave di desideri da acquistare e scambiare, racconta le sue prodezze e delle sue collezioni, ad ogni suo comando, gli devono obbedienza e dedizione, perché gli appartengono come gheshe.
L’ abuso, rende forte il cavernicolo e con la vittima, custodi di un segreto inammissibile, attraverso il silenzio, il tacere fobico omertoso, quasi condiviso, li rende complici e paradossalmente uniti in un riserbo da nascondere. È reso forte dal senso di colpa della vittima e dall’ imbarazzo di questi di essere quasi colpevole, ma verrà tradito dall’ urlo dei sintomi che irrompono e sgretolano l’ incantesimo dell’ indugio, lo sbattono prima o poi nell’ angolo tra le grate, da farlo sentire prima o poi vittima pietosa.
Se il cavernicolo è viscido, osa guardarle, se è meschino, parlarle, il peggiore si avvicina per toccarle, il mostruoso vuole entrarci, ognuno ha un suo modo, uno scopo, poterle offrire ai desideri dei propri demoni commensali.
Il cavernicolo è lo irriverente della dignità femminile, un demente che vive in tana, un abbagliato in uno stato di latenza, orientato dall’ olfatto, vive tra sento e faccio, dove nel bel mezzo ha solo poche riflessioni; vive agli angoli dei bar, appoggiato ad un palo, attaccato ad una canna, ha gli occhi a ventosa, è l’ uomo della pietra che vive sulla strada, estimatore di carni fresche bianche, striscia, tira, pippa, si buca e beve e con il cialis in tasca esalta la sua scimmia che con i pugni fa da tamburo sul suo petto.
Il cavernicolo è un molestatore seriale ambulante, non devi far fatica nel cercarlo, lo incontri in ogni dove, appoggiato su una ciabatta, vive col prurito, attivo come un radar, si gratta senza ritegno, e non lo fa per sola scaramanzia, ma per ostentare la propria impotenza ed alleviare i suoi calori.
Sono dispensatori di sofferenze, mediocri, inquinatori, omicidi dell’ anima, fanno della donna il loro ammortizzatore sociale, il pungiball della loro madre subita ed abbandonica, per loro le donne sono una onlus, una vetrina, una luna park che far girar la testa.
Il cavernicolo è un mercenario, un collezionista di sagome di gomma e di cartone, vede le donne come delle gif, bit, jpeg ed mp4, mercanteggia con i suoi intercalari, non sa parlare le baratta e la scambia come un mercenario di schiave, pretenzioso, è un dispensatore di umiliazioni e di offese, facile all’ oltraggio, incline a sminuirle, si nasconde in spallate o ginocchiate, non lascia segni se le picchia, propenso a far volare oggetti e a far finta poi di niente, lo sveli nei suoi folli scatti e se lo molli con fatica, cerca poi la tua amicizia, per poi riprendere la giostra;
ti punta, prende la mira e tira, come cupido senza amore, è una mina vagante che impreca come un persecutore, non conosce casa, vive sul suv, su quattro copertoni, si nasconde come una talpa e dice sempre le stesse cose, scoordina parole, balbetta pensieri, biascica versi, è un mulo ostinato che raglia, un automa insolente, le sue tensioni si scaricano in una pippa o in un bianco pecorino.
Ciò che deve fare lo fa, ostinato, dalle unghie sporche, sudicio, vive nel sudore, si lava poco ma si improfuma tanto, si lancia come un avvoltoio sulla sua tenera preda che soffre, la fantastica già al sangue, adesca se vive nel dolore e di questo ha un merito, è uno specialista e dice che è un benefattore, consuma piano e con gusto ed è convinto che consola e le sue pene; è un mastino da caccia, da combattimento, tormentato, usa la tecnica della fratellanza e della cortesia, la sua meta è la conquista della vetta del “traforo” .
L’istinto non ha limiti, non usa la testa, ma se quest’ultima ci fosse, sedurrebbe, si evolverebbe in conquista; il cavernicolo non è un problema di cultura o di maschilismo o di deviazione psicopatica da profanare l’ opera d’ arte femminile, ma un problema di involuzione umana.
Il codice rosso è la saggezza per difendere il diritto che non si dovrebbe regolamentare, perché è innaturale dover riconoscere quel diritto naturale all’ esistenza dell’ essere donna.
Nasciamo e siamo un po’ tutti dei cavernicoli, ma ciò che ci differenzia è riuscire a superarci per evolverci dal fango, perché si emancipa dalla caverna, chi non resta aggrappato alla sua clava, chi si cura, si apre alla sua anima, chi incontra la propria umanità, chi si legge e scrive, chi prende matite, penne e pagine, per spiccare il volo, dal proprio buio verso il cielo infinito del rispetto di se, della sacra vita delle donne degli uomini , della natura e di tutto il proprio prossimo.
giorgio burdi
ContinuaIL SENSO DI COLPA
IL SENSO DI COLPA
La dittatura dei sensi di colpa
L’ errore possiede per sua natura il suo acerrimo antagonista, il senso di colpa. Senso di colpa ed errore sono accesi ed accaniti nemici, incompatibili onnipresenti ed indissolubili tra di loro, complementari e conviventi, due nemici su un identico argomento, conviventi della stessa stanza, opposti come il bianco e il nero, l’ olio e l’ acqua.
Ognuno di loro si accompagna col suo perfetto diffidente e sconosciuto, quello col quale litigare necessariamente e in continuazione. L’ unico loro scopo di vita è restare in un conflitto procrastinato. Hanno però un compromesso, ora predomina l’ uno, ora predomina l’ altro, consapevoli di ciò che li attende, la tra di loro esplosione, il loro prossimo e successivo conflitto a fuoco.
La loro è una convivenza dedita alla cinica critica, al sarcasmo, al divorzio garantito, divorzio che non avverrà mai, perché colpa ed errore fanno parte della stessa persona, resa schizoide, divisa e lacerata dentro, dalla loro dualità, divisa e piegata in due, segregati nella loro prigione a porte aperte, arenata nei suoi processi decisionali che la rendono incerta e insicura, perché tra colpa ed errore si resta sempre eternamente in sospeso, appesi ad un filo.
È la natura dello stesso legame divorzile che lo rendono in relazione e lo tengono insieme. Quante coppie vivono tra tra colpa ed errore; c’è l’errore e c’è la colpa, c’é sempre nella coppia divorzile chi sbaglia e e di chi accusa l’ errore.
Si immagini lo strazio e cosa possa accadere se ognuno si trovi nella condizione soggetta e divisa tra errore e colpa, in questa condizione, i due della coppia fomentano e lavorano per la rottura, verso un divorzio annunciato.
Mentre l’ errore rappresenta sempre L’ affacciarsi della novità, esso diventa il centro del problema, mentre il senso di colpa si pone come la tradizione, è il perfezionista, il super Id, l’ alter ego, il dominus, è il numero due che per quanto possa essere secondo, per sua autocrazia si rende sempre primo, la colpa si rende moralizzatore e di crede normale, se il senso di colpa avesse la capacità di mettersi in discussione, non sarebbe un senso di colpa, esso ruota attorno all’ errore, è il suo persecutore, per contenerlo e redarguirlo, gioca sempre in anticipo, lo segue durante, ed è innanzitutto è successivo, non lo lascia mai.
il senso di colpa, in quanto persecutore, rappresenta il senso di appartenenza agli altri, l’ abnegazione missionaria, è il missionario, salvatore apparente della patria, il soggetto si lascia fagocitare a vantaggio delle giustizie altrui e il posticipo coatto e l’ annullamento delle proprie. Il senso di colpa ha la peculiarità di posticipare se stessi a tutto. Si rifà al senso del fanatismo religioso come un mafiofo che prega prima di compiere il suo omicidio.
Esso è quella madre simbiotica col figlio nel loro complesso edipico, con ella il figlio non ha possibilità di errare, perché l’ errore sarebbe un’ onta contro la madre, quella stessa madre in virtù della presunzione della sua gestazione, diviene gestore del figlio come se ella fosse proprietaria del figlio.
L’ errore è sempre reo, la causa di tutti i mali, di tutti i dispiaceri, delle sltrui infelicità, dei disappunti e di tutte le rovine, esso è ossessivo se è represso parte in quarta, va a ruota libera, passibile di denuncia e di processo penale, civile; il senso di colpa è un tribunale inquisitorio, ma è anche l’ alibi di tutti i reati, colui che non vuole né vedere né sentire, né parlare, è anafettivo, poco disponibile ma occhio onnipresente, bacchettone, col fiato sul collo e il dito puntato, è cieco, è intollerante, giustiziere ma anche giustificatore del dolore generato, severo, autoritario e clemente, esso possiede l’ ambiguità di un bigotto, un grande ipocrita che non sa decidere, né prendere posizioni, è frenato, non conosce intraprendenze, innovazioni, è un convenzionale, è un paranoico oratore che ti parla addosso, complottista, populista, è la voce del popolo, si crede essere la voce di dio, è la voce delle convinzioni altrui e degli stereotipi, è l’ azione della latenza e del gregge, il senso di colpa è l’ immunità di gregge, è il mister no, immobilizzato sui valori globalizzati e su qualsiasi impulso, frenato verso lo slancio o sospirato desiderio, freme, ha la sua tenso struttura che lo lacera e lo schiatta; ha la pezza pronta a colori, giustifica ogni sua inezia ed inerzia, è un paraurti, un demente senile, non concepisce il rinnovamento, la scoperta, è un antiriformista, biasima il progresso, è tradizionalista, lustra la sua pedina penale macchiata, ricopre le macchie del suo casellario giudiziale, è un assolutore pur essendo un accusatore, è l’ immacolato, è il senza colpa, senza macchia, è il puro di cuore, il confessore degli atti impuri, è un pauroso, frustrato, ma altolocato aristocratico, borghese, perbenista, giudice parziale, mai a proprio favore, sentenzioso.
Il senso di colpa ha sempre l’ alibi dei valori, si rifá e si rimette sempre alla convenzione dei codici dei valori, peccato che tenga conto dei soli valori altrui.
L’ altro comunque è sempre un valore, a prescindere, e noi no ? Ma nella relazione il valore lo si perde se è privo di rispetto, se diviene assenza, violenza e trascuratezza, anaffettività . O bisogna giurare fedeltà comunque a certi valori?
L’ errore si presenta sempre come un anti valore evidente, Non c’è invece valore più grande, se non Te, non ci sono teorie sui valori che tengano al di fuori di questa dimensione: il valore è il rispetto, l’ amore e la considerazione di se.
Il senso di colpa trova la sua nascita, la sua ezio patogenesi sempre nell’ errore e nel primo rimprovero, esso è il suo umus, la sua radice, è un derivato, la sua coltura batteriologica virale, il senso di colpa è la sanguisuga dell’ errore che è il suo sangue, non può esistere senza di esso, morirebbe, è uno sciacallo, una carogna, un vampiro che si nutre del sangue degli errori, non c’è senso di colpa senza errore, non prolifera senza di esso.
Chi preferisce non aver nulla a che fare con l’ errore, è uno che ha paura del rimprovero, rinuncia ad un suo nuovo percorso di sperimentazione per tener a bada il probabile fallimento e le dicerie del numero due. Il numero due è il perfetto alleato della colpa del cosa devono dire gli altri, perché l’errore è il rappresentante del numero uno, del nuovo, del non sperimentato e dello sconosciuto, è un pioniere alla ricerca di nuove frontiere e territori, l unico che permetta la svolta e il cambiamento, trascendere la stasi e la regressione,ha per questa una natura fastidiosa e lacerante. Ogni emancipazione è un parto a vita nuova, un Colosseo in pieno vissuto, dove l’ errore è il vero protagonista come fosse un gladiatore. Il potere talmente lacerante tra errore e colpa risiede esattamente nell’ intercapedine tra numero uno e il numero due.
Il senso di colpa viene vissuto cone il tabernacolo del sacro, un vero e proprio indiscutibile angelo custode, mentre all’ errore viene riconosciuto ed attribuito un ruolo ed un potere di demone, malefico, il tentatore, la mela dell’ Eden, che chiamerei, per la natura del suo potere attrattivo, passione, diavoletto custode.
L’ errore si pone esattamente come la mela dell’ eden, bella, fragrante, profumata, lucida, croccante, succosa, succolenta, seduttiva, da mordere, succhiare, leccare, profumare, gustare, tritare, ingoiare, consumare, distruggere, assimilare, tanto da diventare se.
L’ errore ha un potere altamente seduttivo, nutre il bisogno di voler consumare la conoscenza, possederla e e assimilarla.
Ma come ragiona chi è posseduto dall’ angelo del senso di colpa ? Esso Preferisce restare tranquillo, sereno nel suo paradiso virtuoso, governato dal suo angelo che reclama ed impartisce segnaletiche di immobilismo, preferisce star fermo e stabile, a costo della sua paralisi e del suo decesso, piuttosto che essere preda del potere seduttivo dell’ espansione della propria conoscenza. Il libro della Genesi dell’ antico testamento recita: “Hai voluto mangiare dall’ albero della conoscenza e dovrai errare per sempre” . La passionalità per la vita sprona oltre ogni orizzonte, essa è alla base di ogni forma scientifica che pone in osservazione di quei fenomeni per controllarli ed orientarli. La serenità che propone il tempio della colpa, proclama l’ arretratezza, mentre l’ errore proclama la ricerca e la formazione.
Il senso di colpa è il senso di responsabilità, è il senso del peccato contro gli altri, è il proprio sangue che scorre nelle vene altrui, è la dedizione ed il sacrificio di se per le rassicurazioni altrui, è la residenza del mondo in casa propria, è la socio personalizzazione di se stessi, la riflessione degli altri nella propria testa, è la più alta forma di de personalizzazione di se sostituita dal mondo, è la profanazione della propria opera d’arte e del sentire profondo del numero uno a vantaggio del numero due.
L’ errore è un partigiano ribelle e coraggioso, liberatore dei nuovi territori, occupati dai vandali delle colpe; il senso di colpa è l’ invasore discriminante, è il regime, la dittatura, è l’ oppressore, il despota che non conosce la libertà, ma la sudditanza alla tirannia.
Al senso di colpa bisognerebbe sostituire e restituire il senso di realtà e poterla cambiare.
giorgio burdi
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