I GIRASOLI
I Girasoli di Van Ghogh
Questi fiori avevano un significato speciale per Van Gogh. Il giallo, per l’artista, era un simbolo della felicità. Inoltre, nella letteratura olandese, il girasole è un emblema ricorrente di devozione e fedeltà. Nei loro vari stadi di crescita, fioritura e sfioritura, i girasoli ci ricordano anche il ciclo della vita e della morte.
ASCOLTARE SE STESSI. IL PRIMO PASSO VERSO LA LUCE
Quante volte ci sarà capitato, dopo aver raccontato a qualcuno di qualche ingiusto “attacco” subìto o come tale vissuto, di sentirci dire: “lasciati scivolare tutto addosso, devi imparare a creare un muro dentro te stessa”.
Magari questa è una grande verità però è un obiettivo assai difficile da raggiungere e quel muro spesso lo si vede, in effetti,ma fuori, tanto da sbatterci contro.
Personalmente mi è capitato ma qualcosa di prezioso negli anni è cambiato!
Credo che il primo obiettivo di ciascuno di noi debba essere uno ed uno solo: ascoltarsi dentro, imparare ad ascoltare se stessi.
Dovremmo fare questo esercizio tutti i giorni magari armandoci di un taccuino ed annotando le cose che nell’arco della giornata ci creano malessere ma, ancor più, non fingere con noi stessi che tutto vada bene ignorando ciò che ci viene detto dal nostro mondo interiore a chiare lettere se solo fossimo avvezzi a cogliere ed interpretare quei segnali. Siamo tutti maestri nel tacitare il nostro dolore e ciò per le più svariate ragioni.
Il nostro registro interiore, per fortuna, capta immediatamente e memorizza ciò che ci sta facendo del male e crea un archivio che spesso, senza volere, noi, anche in maniera “involontaria”sotterriamo perchè c’è sempre una parte di noi che dice: “stai calma/o aspetta, prudenza, magari non è il momento di intervenire, di reagire, magari capirà che sta sbagliando…..magari….magari…..magari”.
Il vero problema è che questa strategia, nel tempo, può diventare pericolosa poiché quell’ archivio, quella memoria va in autogestione e gli eventi scatenanti si affastellano secondo un criterio che sfugge alla nostra razionalità e persino al nostro controllo.
Il suggerimento interiore dell’attesa non è di per sé un male a condizione che non si tramuti in un meccanismo di apparente autodifesa che si traduca in un accumulatore seriale di rabbia.
Posso dire oggi, senza tema di smentita, che di tutte le cose che ho studiato nella vita, quella che sono certa richieda uno studio eterno e sempre approfondito sia la ricerca del proprio equilibrio interiore e di ciò che ci garantisce il benessere.
Il tentare di “farsi scivolare addosso” le cose, quando i tempi non sono maturi per questo, può tradursi in una sofferenza inaudita ancor più in una società, come quella attuale, connotata da un gran numero di vigliacchi a piede libero.
Il vigliacco è una categoria umana interessante, e ciascuno a suo modo, nel suo piccolo lo è.
La vigliaccheria si manifesta anche nel semplice tacitare, nascondere, sotterrare le cose che ci fanno soffrire al fine di dilatare e differire i tempi per la conquista delle forze e la maturazione della presa di posizione così da approntarsi alla guerra. E sì, perché quando occorre cambiare le antiche e croniche dinamiche, quelle contraddistinte dalle cattive consuetudini da altri imposte e da qualcun altro subite si apre il conflitto che può divenire mondiale e devastante ed, a volte, ingestibile.
Ma a questo punto possono accadere due cose assai interessanti: l’ ego, prima implosivo, diviene esplosivo, ma questo se, per un verso, diviene spiazzante per chi, fino a quel momento, aveva creduto di conoscere una certa personalità scoprendo che ce n’è una ben più potente, per altro verso quella esplosione ha bisogno di regole perché la rabbia inespressa e sregolata è distruttiva ed autodistruttiva.
Imparare ad ascoltare se stessi significa anche non arrivare ad un punto di non ritorno, significa conquistare la serenità di esprimere il proprio dissenso senza scatenare l’inferno dentro e fuori di noifino ad arrivare ad esprimere il proprio punto di vista semplicemente con voce sommessa, senza urlare, senza alzare i toni.
Sovente il vigliacco è affetto da una grave sordità psicologica, cioè non vuole proprio capire, sentire, ciò che più che chiaramente gli viene detto, e questo solo perché non accetta il “no!”, il “basta!” e non ha nessuna intenzione di mettersi in discussione perché deve poter dire che “sei tu che sbagli”. Ed allora, dopo svariati tentativi volti allo sforzo titanico di “farti scivolare le cose” pur provando a dirgli: “non sono Gandhy! Non superare la soglia che stai rischiando” ecco che alla sordità si aggiunge la miopia, il vigliacco spinge l’acceleratore, va avanti ad oltranza….e si schianta perché a quel punto i giochi cambiano. E quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare!
Ecco, questo è il momento in cui inizia la ballata.
La rabbia è una danza, una partita a scacchi, ha delle regole, che vanno studiate, comprese, apprese, interiorizzate. La rabbia va gestita, non va lasciata a se stessa ma per arrivare a questo prezioso obiettivo occorre riconoscerla e conoscerla, comprenderla e, soprattutto, conoscerne la portata.
Quanto più si accumula quanto più il pericolo aumenta.
Il tempo deve servirci per elaborare non per accumulare! L’accumulo seriale di rabbia può provocare depressione e questa condurre a conseguenze ineluttabili.
La rabbia è un segnale di avvertimento che è bene non trascurare: ci avvisa che qualcuno ci sta facendo del male, che i nostri diritti vengono violati, che i nostri bisogni o desideri non sono adeguatamente soddisfatti o, più semplicemente, che qualcosa non va. Proprio come il dolore fisico ci costringe a togliere la mano dal fuoco, il dolore della rabbia protegge l’integrità dell’Io e ci induce a dire di no a chi ci sta danneggiando. (Harriet Lerner. La danza della rabbia).
Conquistare la capacità di difendere noi stessi, i nostri diritti, di rispondere con moderazione e continenza, ma decisione, fermezza e determinazione ai costanti attacchi di vuol prevaricare dà ossigeno alla nostra anima, alla nostra autostima, alla percezione che abbiamo di noi stessi e che gli altri avranno di noi e forse, ma sottolineo, forse, anche il vigliacco avrà imparato la lezione ma, e qui viene il bello, questo non ci interesserà più e questo perché la maggior parte dei nostri problemi risiede nella costante ricerca del consenso altrui, chiunque egli sia nel nostro immaginario. Ma fin tanto che lo cercheremo non arriverà perché la fame di consenso è, in realtà, fame di attenzioni.
E qui si delinea il passaggio da thanatos ad eros.
Laura C.
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ContinuaIL CAPPELLO CON LA COCCARDA
IL CAPPELLO CON LA COCCARDA
E i sogni della mia vita.
Non cediamo alla tentazione di ignorare il potente segnale emozionale carico di contenuti che il nostro inconscio riconnette a significativi oggetti della nostra esistenza !
Avevo, credo, 26 anni quando mi fu regalato da mia sorella un cappello, a forma di <<bombetta>>, rosso, con un coccardone verde. All’epoca vivevo a Napoli, dove studiavo, ed avevo un sogno, anzi, per la verità, più d’uno. Principalmente volevo diventare ricca e <<fare del bene>>, creare una fondazione che si occupasse degli <<ultimi>>.
Ogni volta che tornavo a casa di mia madre, casa che avevo lasciato dopo la sua morte, avvenuta in maniera del tutto imprevista e fulminea il 22 dicembre del 2000, alle 9,00 del mattino, per aneurisma cerebrale mentre, sole in casa, discutevamo dei preparativi per la vigilia di natale, che non avremmo mai più condiviso, andavo a vedere come stessero i miei numerosi cappelli tra cui quello con il coccardone, acciaccato e pieno di peli (bianchi) nello scatolone insieme agli altri e dove i gatti, nella mia assenza, erano andati a scorazzare.
Avevo lasciato quella casa per andare alla ricerca della mia strada e dove, di tanto in tanto, ritornavo e quando questo accadeva parlavo al mio cappello come fosse stata una persona e gli dicevo: <<un giorno, presto, tornerò a riprenderti!>>: un simbolo, più che un oggetto, di tutto ciò che vi compendiavo, forse la mia stessa vita, anelando, un giorno, a riappropriarmene definitivamente, come di tutto il resto!
Sono tornata in possesso di quel cappello dopo più di venticinque anni! Che grande conquista per me. Naturalmente insieme a lui mi ero riappropriata di tante cose, materiali e non. Mentre lo sistemavo e lo pulivo mi sembrava di stare rimettendo ordine nella mia vita.
Quando l’ho rivisto, a distanza del così tanto tempo frattanto incredibilmente trascorso, recava su di sé gli ineluttabili segni del tempo, come me del resto! Quei segni che persino quando non sono visibili sono percepibili, era anch’esso carico di una malinconica e nostalgica tristezza.
Lo guardavo e pensavo : <<amico mio, quanto abbiamo da raccontarci!>>. Lui era rimasto in quella che un tempo era casa mia, casa di mia madre con la quale amorevolmente e quasi simbioticamente avevo vissuto, ma non era rimasto solo, lo avevo lasciato lì insieme a tutti i miei effetti personali, oggetti cari, abiti, libri, tanti libri, tra cui quelli di musica, il mio pianoforte e Dio solo sa quanti ricordi e quanti sogni!
Quando, finalmente, mi sono riappropriata del mio amato pianoforte e……. del cappello con la coccarda ho pensato: <<eccovi, finalmente! Siamo ritornati insieme>>. Quanto tempo era passato! un battito d’ali, ma erano passati più di venticinque anni! E così, riemergendo la mia razionalità, cercavo di ripercorrerli mentalmente nel tentativo di ricordare come ed in che successione fossero trascorsi, cosa avevo fatto durante tutto quell’arco temporale, la mia vita. E senza che me ne rendessi conto in un attimo mi sono passati d’avanti, come in un film, tutti i principali accadimenti, gli eventi che avevano contrassegnato le tappe fondamentali di quel non breve periodo a cui cercavo di attribuire una successione cronologica. Dicono che quando si muore accada una cosa simile!
E così si sono affollati nella mia mente: la morte improvvisa ed imprevista di mia madre trovata riversa a pancia in giù con i segni evidenti dell’emorragia cerebrale su un lato della testa, la separazione lacerante da quella casa in cui avevo vissuto tanto intensamente, la mia depressione, la mia malattia, la diagnosi di artrite sieronegativa, l’annuncio maldestro del mio prospettato epilogo sulla sedia a rotelle, i diversi studi professionali nei quali, disperatamente, avevo cercato rifugio professionale, l’inizio della mia professione, l’incontro con quello che poi è diventato il mio meraviglioso compagno di vita, la convivenza, l’incontro con mio suocero che si è preso cura della mia salute salvandomi la vita, il matrimonio, i concorsi, le inaspettate conquiste professionali, la separazione dai miei fratelli, la morte di mio suocero, quasi cinque anni in Calabria, da magistrato, alle prese con la mafia, ma anche con un mondo meraviglioso fatto di uno scenario selvaggio e di gente straordinaria, il trasferimento in Puglia, il trasloco, la riaffacciatasi ma non riconosciuta depressione. Quante cose, e certamente qualcuna me ne è sfuggita.
Quanto tempo era passato e di quanto tempo ero stata letteralmente derubata! <<Di quanto cose dobbiamo parlare amico mio!>> dicevo al mio ritrovato cappello. Da quel dì sono trascorsi tre anni e, finalmente, oggi, 11.01.2022, quasi magicamente, già felice di riavere le mie <<cose>> con me, ritrovo il mio tempo. Il tempo per godere di me stessa e ciò anche quando questo porta a ripercorrere passaggi tenebrosi della nostra esistenza ma pur sempre essenziali per il passaggio successivo.
Ciascuno di noi ha un <<cappello con la coccarda>>, simbolo della propria storia e simbolo del percorso esistenziale che ci rammenta come e quanto tempo abbiamo davvero dedicato a noi stessi e quanto tempo, invece, abbiamo elargito ed a volte sprecato per adempiere agli innumerevoli doveri che ci strangolano ogni giorno, soccorrere chi non aveva nessuna voglia di rialzarsi, portarci addosso croci altrui; sottostare alla follia altrui, ma quella vera, fatta di soprusi, di instabilità, di sfruttamento, di egoismo, di cattiveria, di avidità, di narcisismo cronico che prosciugano la nostra energia inducendoci a perdere noi stessi abdicando ogni giorno di più ad ogni particella del nostro essere fino ad arrivare, senza che ce ne rendiamo conto, al suicidio interiore piuttosto che trovare la forza di dedicare quel prezioso tempo a ciò che desideriamo, che merita di essere coltivato perché ci fa crescere e ci fa stare bene con noi stessi e con gli altri imparando a gridare <<NO, basta, ora è il mio turno!>>.
Io il mio cappello l’ho ritrovato e non solo interiormente, lo indosso anche se logoro e quando ciò avviene ci guardiamo e siamo entrambi felici. Ed ora ho appena ricominciato il mio nuovo viaggio con lui e sono già per questo immensamente appagata.
A te amico/a mio, anche se non ti conosco ed anche se non ti conoscerò mai, suggerisco di ritrovare il tuo <<cappello con la coccarda>> e di riprendere il tuo cammino salvifico insieme a lui e scoprirai che è solo l’inizio di un grande <<miracolo>> che partendo dalla tua interiorità cambierà concretamente la tua esistenza per sempre.
Laura C.
Continua
L’ IMPREVISTO
L’ IMPREVISTO
e i contrattempi
“Mi dispiace, ma ho avuto un imprevisto e devo disdire” .”“Ha Dimenticato che mi ha impegnato l orario da cinque giorni ?”
Ho avuto un imprevisto, dovrebbe potersi dire, non ho previsto, non si può essere veggenti per predire tutti i fenomeni, equivale anche ad ammettete che sono stato distratto, non ho calcolato bene i tempi, non ho potuto tener conto, non ho fatto caso, si è sovrapposta una situazione ad un altra.
Oppure, sono un’ottimista che cerca di massimizzare la propria efficienza e che incastra troppi impegni nell’agenda giornaliera che inverosimilmente porterà a termine. Oppure, semplicemente, non riesco a dire di no alle richieste altrui, dando priorità a chi è presente senza tener conto degli altri impegni presi.
Analiticamente, “l’ imprevisto”, ha una connotazione differente , quella difensiva, è una resistenza ad incontrarsi in un nuovo evento ritenuto inconsciamente sconvolgente, oneroso o intriso di paura per un cambiamento.
A volte inconsciamente, accogliamo l’imprevisto nella nostra vita come un segno del destino, troviamo in esso la scusa per crogiolarci e procrastinare, per evitare situazioni scomode senza sensi di colpa.
L’imprevisto, invece, si può e si deve controllare, e se ciò non accade, è una questione di mancata capacità riorganizzativa, sulla base dove il fenomeno precedente diventa secondario rispetto ad un nuovo evento. L’ansia generata dall’imprevisto può occultare la lucidità di pensiero ed alterare i parametri di giudizio.
L’ imprevisto possiede una dimensione sociale, ha la caratteristica peculiare di rappresentare un domino di condizionamenti: disdico perché, ho il covid e sono in quarantena, mi hanno spostato l’ esame ad oggi; il mio relatore non legge la tesi del dottorato e mi lascia in standby da sei mesi.
Questi condizionamenti di vita,, sono forme di imposizioni, di violenza e violazioni agite, dove il più debole attende. Ed in questa attesa, il tempo gli è rubato due volte: non solo non potrà andare avanti nella sua vita, come da programma, ma investirà male il suo tempo, non potendolo pianificare liberamente nell’eventualità che il più forte si faccia vivo.
Imprevisti e contrattempi, sono tutti abusi manifesti, forme di aggressività passive,mobbing, molestie, se reiterate. Il tempo altrui è un patrimonio intimo ed inviolabile, ed il suo rispetto è un diritto umano su cui si fondano le società più evolute. Il rispetto del tempo ha un valore inestimabile perché il tempo è lo stesso uomo.
Chi si trova in una condizione di attesa, muore, si pensi alle lungaggini per i ricoveri o per certe cure che non possono essere erogate, per le file di prenotazioni interminabili. Nelle attese, si bloccano dei meccanismi che, possono dipendere da singole persone “inceppate”, capaci di scatenare tsunami di imprevisti a catena, da mandare in blocco tutta la filiera.
Chi dice ho un imprevisto o, peggio ancora chi non lo dice affatto e lo agisce, inconsapevolmente impone se con la una scelta, si pone nelle funzioni dell’ esercizio di un suo potere prepotente, che avrà le conseguenze su una catena di altri individui.
Nel suo mondo,relativamente osservabile, lascia intendere che la situazione subentrata ha una valenza di gran lunga più importante. Chi esercita l’ imprevisto o lo tace, si comporta da usurpatore, fa del tuo tempo, il suo tempo, una carta appallottolata nel cestino, è come un ladro che ha la mano lesta, è un giocoliere manipolatore degli affari tuoi, ti lascia a bocca aperta perché, è “perfetto” che, che non lo puoi quasi contestare.
Nell’ imprevisto diventi sempre secondario rispetto al resto, equivale a dire, non ho tempo per te, mi interessi relativamente, quasi per me non vali, ma mi devi pensare comunque, una condanna a rimuginare, o a farta pagare senza sapere per quale motivo.
L’ imprevisto ha una valenza squalificante e svalutante della persona, lascia disorganizzati, attoniti, bloccati, ed è generatore di ansia e depressione per le sue conseguenze e lungaggini, è comunque un meccanismo prevalentemente inconscio che induce ad una riorganizzazione, ad un reset, a ricalcolare le agende dei tanti del domino, dove ogni agenda è una vita.
Chi fissa un appuntamento diventa depositario e ci proprietario del tempo e dello spazio altrui, per tutto il periodo di conservazione del patto. Un appuntamento è un timbro di ipoteca su uno spazio della propria vita e la sua disdetta è un porre fine ad un processo senza preavviso.
Dare valore al tempo è solo una questione di crescita personale e di consapevolezza. Davanti ad un imprevisto, l’uomo analitico non si fa prendere da ansie, analizza il problema e ne pianifica la sua risoluzione senza sconvolgere gli eventi successivi e dando valore al tempo altrui.
È indispensabile inserire all’ interno del codice del diritto civile e, ancor più, sensibilizzare sulla cultura del tempo, proprio ed altrui, servirebbero ispettori professionali capaci di far rispettare le fasi lavorative dov’è il tempo viene impiegato. Si pensi al furto di tutti quegli straordinari non riconosciuti e non pagati.
Le società più evolute sono quelle in grado di valorizzare e ottimizzare i tempi. In Giappone il treno a levitazione magnetica deve arrivare alle 11,19, e arriva a quell’ora. Sulla tratta Bari Roma, la freccia rossa deve arrivare alle 11,20, ma arriva alle volte alle 14,30. Consapevole di questo possibile ritardo, l’uomo analitico mette in guardia chi è presente nella sua agenda, lasciando a loro la decisione di rischiare o meno. L’uomo analitico non abusa del tempo altrui, perché impegna bene il proprio.
Coloro i quali invece vengono abusati del proprio tempo, non devono rassegnarsi all’ impossibilità di cambiare, assistere impotenti alla violenza subita, come con lo scoraggiamento e la morte. Al contrario, devono ribellarsi a questa arretratezza culturale, fatta da infrastrutture, burocrazia o individui frenanti, manifestando il disagio, senza timore di essere giudicati.
La gratuità dedicata del propio tempo, è il più grande dono e valore che si possa mai fare. Credo che non ci sia un valore più elevato, se no quello del tempo.
francesca palmieri
giorgio burdi
ContinuaL’ UOMO ANALITICO
L’ UOMO ANALITICO
Ostetrica dell’ anima
L’ uomo analitico appende al chiodo la sua maschera, mette a nudo la sua opera d’ arte, è vero, autentico, è numero uno, aspira al confronto, è reattivo, non disdegna il dolore, lo considera zona intima, ne il conflitto, li ritiene occasioni di sviluppo, si inoltra nei suoi fondali, ci nuota, si immerge, va a fondo più del profondo, va in apnea e sa riemergere, chiede e richiede a chi non risponde, non molla l’ osso, attraversa il buio e vede la luce li dove non c’è, non teme il problema, lo considera la soluzione, non lo schiva, gli va incontro, si impatta, affronta chi lo evita, non procrastina, è nemico dell’ ambiguità, dell’ ipocrisia, dei sotterfugi e delle incertezze, svela il non detto, è insolente, ama l’ indicibile.
Convive con la verità, aborra la menzogna, ha lo sguardo di un hacker, ti guarda dentro ma, ti svela, ma è discreto, è veemente, impertinente, non conosce vergogne, ironico, esprime l’ inammissibile, ama le trasparenze, non si nasconde, non spettegola sugli assenti, perché affronta i presenti, va contro corrente, in avan scoperta, è in prima linea, non attende alcuno e non decide per loro, è intraprendente, non teme l’errore pur di non lasciare l’ intentato, osa sempre e non procrastina, elogia l’ incoerenza, sgama l’ impostore e l’ imbroglione, il serpeggiante e il millantatore, l’ opportunista, non curante di chi ostenta, perché preso dalle proprie risorse e meraviglie.
L’ uomo analitico, non conosce potere se non quello della parola per ogni sibilo e brivido di vita , dialoga sempre, ascolta tanto, ma ti tiene testa, l’ ultima parola è sempre la sua, non ha paura di rispondere, si confronta, schivare il conflitto genera ansia, la risposta è il suo potente,
è collaborativo, non è corruttibile, ne omertoso, ne connivente, non convenzionale, perché la sua legge è la differenza, la simmetria è dittatura, non si lascia manipolare, è comprensivo, osservatore e creativo, improvvisatore, stupisce, non giudica, acceso ribelle contro gli stereotipi, non abita le consuetudini, ne le convenzioni o i dogmi, non è superstizioso, non ha convinzioni, e se ne ha, preferisce averne infinite.
Sa mettersi in gioco, cambia angolo di veduta, va in retro marcia, in divieto d’ accesso, è nauseato dal senso unico o dai luoghi comuni, sa mettersi in discussione, coltiva l’ arte del dubbio, rivede gli schemi di gioco, va al contrario, a ritroso, sotto sopra, di sbieco, di lato, prende la tangente, fintanto che la strada non la trova. Non è diffidente, alla richiesta di consigli, lui risponde, tu cosa senti, perché la sua esperienza non è legge, perché la strada è sempre personale, è un ostetrico che fa partorire se e chi ama e adora quando ognuno è se stesso; accoglie, fa silenzio, è attenti ed è empatico e comprensivo, dedito, raffinato, diplomatico, incisivo e molto affilato.
L’uomo analitico trova il bandolo della matassa, il filo di Arianna, mette tutti d’ accordo, è in grado di tenere insieme e riesce a non tener fuori nessuno, sa farsi contestare, ridisegna il ricamo e ricalcola il percorso, è un leader, conosce l’ esperanto, parla l’ emozione ed è lontano, diverso, ma vicino a tutti, misterioso, lucida la buccia, ma ama la sostanza, è un uomo di contenuti, ma è anche molto pragmatico e carnale, è raffinato ma anche sguaiato, passionale e meditativo, ha sempre tanto da imparare, ci rimette in prima persona, piange, si commuove, si dispera, si incazza e ride a crepapelle, senza nascondersi la faccia.
L’ uomo analitico non conosce vergogne, ne imbarazzi, è umile, ma va a testa alta, è difficile umiliare l’ umile, è astuto, asserivo, imbarazza i sensi di colpa, essi lo temono, fa loro paura, non sanno come incastrarlo, sono austeri, scoraggiati, lo guardano con le braccia scadute, accudisce e da una mano a tutti, non si lava le mani, ma non si sostituisce a nessuno e alle altrui responsabilità, restituisce loro la dignità di potercela fare, condivide i pesi, ma non lascia che diventino un peso, non è la loro stampella, ne il loro bastone, non si lascia ammorbare, si flette, è malleabile, ma non si spacca, è uno speleologo del profondo, uno specialista del problema, ricercatore del minimal e dell’ essenziale, appassionato e revisore delle origini, appassionato delle radici curative, avvia la svolta, non fa ostruzionismo, demagogia, ne lo struzzo, non nasconde la testa sotto la sabbia, riconosce le sabbie mobili dell’ effimero.
L’ uomo analitico, non si scoraggia e non si sconcerta dinanzi alle cadute e alle ricadute, ma, come un bambino, è temerario, si rialza sempre con il gioco tra le dita, si scortica, si rimette sempre in piedi, si disinfetta, torna a giocare, a camminare, a correre e ad avventurarsi nelle sue bizzarrie. Per quanto sia stato vittima del suo passato, sa che non lo potrà addebitare o accreditare sempre a nessuno, ne potrà cambiarlo, potrà solo usarlo per trarne vantaggi, per vivere meglio e rinforzare il suo presente. L’ uomo analitico è l’ uomo del qui ed ora, il suo hic et nunc è il suo cibo, tutto il resto, non esiste, è già stato defecato, è fuori luogo, è fuori tempo, è già partito, la memoria è deceduta e non serve preoccuparsi, ma occuparsi solo adesso.
Considera i sintomi, un gps, la via da ricalcolare, per cambiare rotta per superarli, una mappa per uscire dai suoi labirinti teatrali incastranti, è un uomo di lealtà, ancor più di realtà, i suoi piedi son ben saldi sul suo selciato con l’ anima slanciata oltre i confini del proprio fango,
Se vuole emanciparsi, da valore alle sue origini, non perde tempo sui social nel guardare gli altri, si cura da dentro, se sbaglia non da colpa a nessuno o al suo carattere, al proprio destino, alla fortuna o alla sua sfortuna, perché l’ uomo analitico è determinista, decide, comprende, sbroglia le matasse ed agisce sugli eventi, fa di tutto per non subirli, non fa auguri di buon auspicio o di speranza, non è superstizioso, ma crede che si cambia solo rimboccandosi le maniche.
L’uomo analitico sa assumersi molti doveri, ma sa che dovrà prima o poi votarsi ed abdicare al piacere e ai suoi desideri se non vorrà soccombere, porta a compimento ogni sua opera, che diventa titanica per una vita stellata ma, senza gli slanci verso i suoi desideri, ogni attitudine viene sgretolata.
L’uomo analitico sa, che la sua felicità ha sempre il costo, quello dei suoi fallimenti precedenti e che una volta felice, dovrà ricominciare di nuovo, per altri obiettivi, non c’è felicità senza costi e che non venga prima pagata, perché ogni felicità ha sempre un peso e la sua fatica, essa gira su un cerchio e rigira senza fine tra sconforto, gioia e fallimenti. Il motore di ogni felicità è la sua stessa fatica.
L’ uomo analitico fa paura alla paura, è capace di morire, per questo è in grado di vivere. non perde tempo dietro alle malattie o alla morte, perché ha troppa fretta di vivere, considera l’ ipocondria il collare del mulo, il coraggio che non ha di cambiare, di ripercorrere il tunnel della sua solitudine; l’ uomo analitico si perde e si ritrova, non teme, il deserto intorno, di essere lasciato solo, si smarrisce è fiducioso di ritrovarsi, è sereno, e se si perde esplora i nuovi territori, tutti nuovi da scoprire con le sue nuove avventure, non si preoccupa, e se talvolta teme la propria solitudine, dovrà cercare il mostro che si insinua dentro quella casa.
L’ uomo analitico per poter amare gli altri, ama per primo se stesso, come in aereo, nel caso di improbabile ammaraggio, indossa per primo la maschera per l’ ossigeno, per poi aiutare gli altri. L’ uomo analitico la smette di cercare consensi e conferme, fintanto che comprende che la sicurezza è già insita in se, perché ha sempre il suo numero Uno da interpellare. L’uomo analitico, vive sul suo assetto, sulla propria perpendicolare, lancia il piombo sulle sue oscillazioni, recupera il suo baricentro, ritrova l’ equilibrio e ridisegna le geometrie delle sue relazioni.
L’ uomo analitico sta bene con se e per tanto sta bene con tutti; se è in grado di guardarsi allo specchio, di sorridere e dirsi, ti amo, è in grado di valorizzare gli altri, per quanto valore si da.
Per tutti noi, gli altri valgono, per quanto fango, piombo o carati uno si da; l’ uomo analitico Vive, è fiero ed è grato alla vita, vive Bene. L’ uomo analitico è la sua stessa rivoluzione che cambia il mondo intorno a se che lo circonda.
giorgio burdi
ContinuaIL PENSIERO INTRUSIVO
Come eliminare il pensiero “intrusivo”
Prima credevo fosse impossibile, ora penso solo che sia difficile ma non impossibile.“ Eliminare” un pensiero intrusivo, ricorrente, di qualunque genere esso sia, non è impossibile.
Ho scoperto che battere il palmo della mano sulla tempia sperando che il pensiero esca dall’orecchio sotto forma di polvere, non è così astuto e risolutivo.
Come si fa? Purtroppo ancora non esistono medicinali, formule chimiche, qualche macchina che riesca a disinnescare questi meccanismi basati su ricordi e associazioni mentali. E allora come si può fare? Costringendo il pensiero e persuaderlo a pensare ad altro, anche se la tua testa non vuole farlo. È necessario depotenziare il muscolo dell’ ossessione, pensando ad altrettanto altro però funzionale.
Per poter effettivamente pensare ad altro, bisogna concretamente pensare e fare altro,, altrimenti il solo pensiero è troppo debole. Bisogna fare altro per rafforzare il pensiero che vogliamo inserire e per indebolire quello che vogliamo eliminare. Possiamo ad esempio sostituirli con le nostre passioni, reiterate sul pensiero intrusivo. Questa procedura si chiama riprogrammazione neuro psicologica.
Il trucco è cercare che questo “altro” sia fisiologicamente, a livello di ormoni, neurotrasmettitori coinvolti, più o meno potenziale allo stresso livello del pensiero intrusivo.
Adrenalina, serotonina, endorfine, e tanto altro, tutto concentrato a contrastare e a sostituire quello che si vuole eliminare.
Non basta farlo una volta ovviamente, perché il meccanismo deve essere reiterato tutte quelle volte che invade.
Più si fa, meno forza ha il pensiero intrusivo.
Da che era un pensiero costante, prima diventa qualche ricordo dissipato nella giornata, poi nella settimana, e poi solo qualche “flash” ogni tanto.
La nostra arma più grande è tentare tutte le volte di non concedergli spazio, fargli capire che hai la capacità di coinvolgere gli stessi processi chimici a livello cerebrale pensando anche facendo altro.
Il tuo organismo non si “ciba” solo di quello per sopravvivere.
A lungo andare, il pensiero intrusivo verrà sconfitto.
Eleonora Tegliai
laureanda in medicina
LA VITA È UNA PAUSA TRA DUE BATTITI CARDIACI
LA VITA È UNA PAUSA TRA
DUE BATTITI CARDIACI
Tra due battiti cardiaci c’è una pausa, la essa è la vita tra due pulsazioni, senza i battiti non ci sarebbe ritmo, pensiero, respiro, sensazioni, cammino, ballo, festa, tempo; i battiti sono propulsioni che iniziano al tempo, alla storia, ai natali, ai tuoi compleanni, alla tua prima, sono l’ esordio sul palcoscenico della vita.
La nostra vita è la sommatoria e la congiunzione continua di tutte le pause tra i battiti. Una vita dura quanto le pause. È un dono meraviglioso, la vita nasce attraverso il Big Bang tra due battiti ed una pausa, essi sono i sono detonatori della luce che osserviamo. Senza battiti c’è il buio. Sei il tuo spazio immenso e finito tutto da progettare tra una sequenza di pulsioni cardiache.
Che speco doversi cristallizzare sul passato o nebulizzarsi verso il futuro.
Il battito è solo presente, non esiste un battito passato, tanto meno uno futuro, è solo hic et nunc. Ci sei o meno, esso è sempre inesorabilmente presente.
Il battito è lo start and go del tempo, è l’ attivazione del cronometro che spalma il tempo su una pellicola di fotogrammi. L’ eternità è la pausa finita tra i tuoi battiti cardiaci e il Big Bang del cosmo, che ci estende verso la pausa infinita ed eterna.
La vita dell universo inizia da un Big Bang e continua tra i battiti umani e riprende e continua verso la sua origine, nel buco nero del battito dell ‘ universo.
La vita è come la musica, il suo primato non è nelle note, ma nelle pause tra le sue note, una musica senza pause sarebbe un rumore con variazioni tonali, le note combinate con le pause generano miliardi di costellazioni di melodie, come nella vita.
Dire ho poco tempo, mi manca il tempo troviamo degli incastri, non ce la faccio, vediamo un attimo, non ci riesco, fai in fretta, sono espressioni isteriche del non vivere il proprio tempo, del non poter godere dei flussi continuativi che il ricco quotidiano ci regala.
Ogni istante ci impone di essere presenti a noi stessi e a tutto ciò che ci scorre dentro ed accanto, di far riferimento li dove abbiamo i piedi piantati in quel territorio. Ogni istante di vita ci fa l’ appello, e quando non rispondiamo e non lo ascoltiamo, risultiamo assenti, non ci ricordiamo di noi, risultiamo essere lontani da noi. Essere assenti nel presente è come non essere mai nati, intrappolati in un incantesimo irreale, trasparenti, fuori dal mondo.
Quante volte risultiamo impreparati nelle risposte ? Siamo altrove, lontani, staccionati nel nostro gregge di preoccupazioni e di pensieri. La risposta è frutto della presenza, è data dalla aderenza alla realtà. Quanto più siamo presenti, tante più risposte e domande riceviamo e facciamo nell’ Olimpo della curiosità . È la curiosità che ci rende vivi come bambini, la sua assenza ci rende apatici e degli ebeti indifferenti. La realtà ci insegnerebbe tantissimo se solo fossimo dentro di essa, come dei diretti interpellati ed interessati, come degli osservatori, spettatori e protagonisti. La presenza è ricchezza e riempimento, è coinvolgimento, è curativa, la presenza è terapeutica, l’ assenza è isolamento, impoverimento, rimuginazione, è vuoto, prigionia mentale, è malattia.
Tra spettatore e protagonista, la differenza è nell’ azione; il protagonista osserva, interagisce e modifica la realtà, si diverte, va in conflitto, lotta, sbraita, agisce e reagisce e gli piace, lascia un segno, il proprio contributo, migliora; lo spettatore subisce, auto sabota, si auto celebra, si auto predestina ad un orientamento che lo chiamerà destino, si sente succube, inerme, incapace di azione e protagonismo, di riconoscere priorità e decisioni, si rimescola nelle sabbie mobili della sua introversione pessimistica.
L’ assente non ha mai tempo, perché deve recuperare quello che ha perso mentre era assente, è sempre in ritardo ed in condizione, è in estenuante recupero, deve recuperare e capire quello che non ha vissuto prima, e diventa ladrone del proprio tempo, perché, per recuperare serve altro e lo ruba in quello presente, vive un debito continuo nei confronti di se stesso; il ritardatario è debitore e creditore di se stesso, deve pagare il debito del tempo che non si è concesso con il credito del tempo rimasto che gli resta, destinato a non essere mai vissuto. Il presente serve per ripagare il passato è i suoi errori. Il tal modo, il presente ha lo scopo di recuperare un passato non vissuto.
Una vita fatta di soli impegni, doveri, obblighi e responsabilità, rende automi, esauriti ed assenti. Il piacere e il desiderio, ridanno il senso delle cose e le forti motivazioni verso, essi ci rendono presenti in attimi profondi ed interminabili.
Dobbiamo ricoprirci di giustificazioni e menzogne per il sol diritto di decidere e far esistere il proprio tempo, del quale saremmo i legittimi proprietari, giungiamo a sentirci attanagliati dal senso di colpa di essere in casa nostra, come fossimo estranei.
È un crimine verso se stessi, dover attendere le altrui deleghe e autorizzazioni per decidere di noi di noi e dei propri spazi. Si deve giustificare sempre tutto a tutti ? Dove è il diritto ad esistere ?
La discrezione è evoluzione, è intelligenza, gli indiscreti sono animali insicuri, si rendono a stampelle, per darsi certezze.
Prendi la tua vita tra le mani, non c’è nulla di così tanto prezioso, diventi sicuro di te se non confondi la tua sensibilità e a quella altrui, tutto è bello perché siamo differenti e liberi di esserlo; non chiedere permessi e non lasciarti inquadrare, millantando di conoscerti, per poi manipolarti, e tanto più, non lasciarti dare consigli, o peggio ancora non lasciar decidere per te, chi agisce in tal modo ignora, cura i propri interessi, oscura ed occulta te, è ridicolo, il saggio gioisce per la crescita e la diversità altrui, le tutela, sa attendere, è concentrato sulle proprie attitudini e non mostra fili di invidia, è rispettosissimo, è entusiasta di tutto ciò che è dissimile da se, non è ne invidioso, ne competitor, vive gli altri come un aiuto, come un’ estensione delle proprie potenzialità.
L’ irrispettoso è borioso, saccente senza scrupoli e ne titoli, si erge a genitore, è un critico adolescente adultizzato.
Il rispetto è adulto, è colto, tiene al confine sacro tra le identità differenti. Le persone rispettose sono sincroniche, si attraggono e si adorano, sono in un ingranaggio di uno stesso motore, vanno ingranati, non fanno dell’ altro il meccanismo della propria vita.
Come il respiro e la pulsione del cuore non si lasciano autorizzare da nessuno, vivere dovrebbe essere la stessa cosa.
Imita il tuo cuore, che batte non curante e a prescindere da tutto, è un prepotente propulsore, una turbina che ti fa volare, attraversa il tuo sangue che scorre irrefrenabile, sei su un Kaite, libero di lasciarti portare dalla corrente della bonaccia. Osserva i flussi delle tue parole mentali, i tuoi pensieri, le sensazioni, le tue fantasie, fa quadri delle tue immagini, fa della tua vita la tua pinacoteca, riscaldati al braciere delle tue sensazioni, immergiti nei suoni dell’ orchestra della tua anima.
Rispetta il tempo ricevuto, non ne esiste un altro, è solo questo, è un dono gratuito, non ha chiesto i permessi; vivi come la natura fa, come un filo d’erba, che spacca il cemento, un raggio di luce che ti brucia la pelle, un germoglio che esplode, una cellula che diventa bambino, non chiedono carte da bollo o permessi per esistere; ciò che l’uomo blocca, imprigiona ed impedisce, è contro natura, la natura vince è libera. L’ autocratico, l’ autoritario, il dittatore, vincola, impedisce, frustra ed impone regole, controlla, autorizza a vivere su perverse proprie e precise direzioni.
giorgio burdi
ContinuaIL PILOTA AUTOMATICO
Evitare l’annientamento
Credici che puoi tirar fuori il massimo, investi. Se non investi non cambierà mai nulla. Provaci, nel qui ed ora, perché le cose possono cambiare dall’oggi al domani, da un istante all’altro, come uno switch mentale. Cerca l’elemento che frena l’emancipazione, che crea un senso di colpa. Qual è quell’autorevolezza, quell’ autorità a cui noi siamo sempre rinviati? Ognuno di noi può cambiare questi meccanismi, queste istituzioni mentali.
Riconoscere ciò che si contrappone tra sé stessi e il raggiungimento dei propri obiettivi, permette di essere presenti nel qui ed ora, di imparare a disattivare “il pilota automatico”, per sospendere i pregiudizi e riconoscere i propri pensieri nella realtà.
Possiamo introdurre così il concetto di “Mindfulness”, in italiano consapevolezza, presenza mentale. La Mindfulness si riferisce alla disposizione delle proprie risorse esclusivamente nel qui ed ora, in modo consapevole e non giudicante, all’osservazione dei propri stati emotivi e fisici, cambiando ciò che è possibile cambiare e accettando ciò che non è possibile cambiare.
Per fare ciò è importante anche rivalutare ed affrontare tutti quegli stati emotivi etichettati come “negativi” e “deleteri”, che ci fanno scappare, aumentare il ritmo.
L’ansia, la paura, l’incertezza, la mancanza di controllo, la rabbia.
Ma, perché corriamo? Perché questo tentativo incessante di occupare il tempo?
Rallentare nella frenesia, permette di vivere la pienezza dell’istante, di accettare le incertezze e rinunciare al controllo, di non temere il presente e le possibili vittorie o sconfitte.
A volte, l’incapacità di fronteggiare la propria emergenza emotiva si proietta in un’apparente iperattività. La dipendenza all’azione è un modo per evitare il confronto con noi stessi, per non ascoltarsi nel profondo. La frenesia continua ci pone a distanza di sicurezza e ci illude di avere il controllo sulla realtà.
Dunque, è opportuno domandarsi: cos’è che non vogliamo sentire? Da cosa sto sfuggendo e con che cosa non voglio un confronto?
Correre costantemente, senza essere mai veramente presenti, determina uno stato perenne di tensione e allerta, producendo alti livelli di ansia e stress. In questo modo il respiro si fa corto, i muscoli sono contratti e l’addome e teso. Il tentativo di fuggire dai propri mostri e/o di avere il controllo della realtà, fa perdere il controllo di quella che è la propria realtà.
“L’ansia anticipatoria o l’ansia per la perdita del fondamento dell’esistenza, è la paura della paura, della perdita di sostegno, della caduta nel nulla“.
Gli stati d’ansia e di agitazione si attivano alla percezione di una situazione potenzialmente pericolosa, in cui l’individuo mette in discussione il proprio “poter essere”. Dal punto di vista esistenziale l’ansia deriva dalla consapevolezza e dal timore di un possibile “annientamento”, dalla perdita delle proprie certezze ed istituzioni mentali. Vi è paura di “non poter essere”.
Come detto precedentemente, quindi, è importante cambiare ciò che è possibile cambiare, ma soprattutto accettare ciò che non è possibile cambiare. Essere presenti nella nostra quotidianità e assaporare la bellezza e il piacere nel frenare.
La facilità e la velocità nel fare una cosa non danno al lavoro durevole solidità né la precisione della bellezza.
— Plutarco
Francesca SCALERÀ
Laureata in Psicologia clinica e della riabilitazione- Tirocinante presso Studio BURDI
ContinuaL’ ASSENZA NEL QUI ED ORA
Ansia del futuro o del presente?
“tutto sembra instabile. Il futuro si tinge di colori poco rassicuranti e di una forma indefinita”
Riempiamo le nostre giornate di preoccupazioni; ci muoviamo senza una vera consapevolezza, ma con la mente costantemente trasportata nel passato, a ciò che è stato o sarebbe potuto essere o nel futuro, a cosa sarà.
Viviamo così, con un atteggiamento di proiezione costante, assenti dal qui ed ora.
Ci giustifichiamo parlando di obiettivi e progettualità, ma in realtà navighiamo in pensieri negativi, sommersi da ansia ed apprensione; abbiamo paura del futuro (o di vivere il presente?).
“ho paura di non farcela”, “sarà la scelta giusta?”, “cosa potrà accadere?”.
La paura è un’emozione primaria che, attivandosi alla percezione di uno stimolo potenzialmente dannoso, garantisce la propria sopravvivenza e riveste un ruolo adattivo enorme. Di fronte alla minaccia l’organismo effettua una valutazione, dunque, non è importante in sé e per sé quale sia l’evento esterno, ma piuttosto quale sia la valutazione che il nostro organismo ne da.
Quando le emozioni negative prendono il sopravvento, la paura si prepara a difenderci con reazioni comportamentali dell’evitamento o paralisi (effetto freezing).
Quindi, pensare e immaginare che in futuro possa accadere qualcosa di negativo, l’ansia, la paura, ci portano ad evitare la situazione o a rimanere fermi.
Questi atteggiamenti, spesso, condizionano e sono condizionati dagli aspetti di vulnerabilità individuale.
“Vivere l’ansia significa fare le prove su un palco e concludere che la prestazione non raggiunge uno standard richiesto (da chi?). Da qui la preoccupazione per l’esito della gara. Il pericolo non è presente in quel momento, ma lo è nel futuro. L’atleta entra in contatto con un pensiero, una fantasia e vive l’esperienza dello smarrimento, dell’incertezza verso il futuro, diventando difficile per lui vivere il qui e ora. Egli si stacca fisicamente ed emotivamente dal mondo, lascia il presente per andare nel futuro bloccando l’azione.”
In questo modo, come un circolo vizioso, siamo sempre assenti dal qui ed ora perché costantemente in attesa di un futuro che, quando arriva è il nuovo presente.
Così, come la paura di morire può riflettersi nella paura di vivere, chi è proiettato mentalmente nel futuro effettua uno spostamento: la paura del futuro si riflette nella paura del presente.
In questo modo il presente perde di significato e tutto è accelerato. La paura del futuro segnala la necessità di rallentare e godersi il momento, accogliere le proprie emozioni ed elaborarle.
Francesca Scalera
Laureata in Psicologia clinica e della riabilitazione- tirocinante presso Studio Burdi
ContinuaVERGOGNA ED IMBARAZZO
I freni al Tuo Big Bang
L’imbarazzo e la vergogna sono il peggior nemico dell’ espressione profonda di se, la cristallizzazione della naturalezza e della spontaneità, l’ altra faccia della medaglia della rigidità, amica delle corazze caratteriali, una tendinite dell’ anima, la negazione della bellezza. Sono le pasticche dei freni della vitalità e dell’ emancipazione dai luoghi comuni populisti.
Un bambino, per imbarazzo e vergogna è costretto a vivere dietro alle grate della propria ovattata prigionia dorata educativa, essa pone il confine frustrante tra mondo interiore, prospettive e il mondo sociale dei piaceri e dei giochi , irraggiungibile e pericoloso agli occhi dei suoi fobici adulti .
Un bambino che non gioca, fa il bambino adultizzato che da adulto farà l’ adulto Peter Pan. Un bambino imbarazzato è timoroso del mondo, violato nei suoi capricci, taciuto dalle diffidenze adulte, percosso e umiliato dai loro complessi, abbandona il contatto con se stesso e con la socialità diffidata.
Senza il contatto con la propria pelle non c’è vitalità , si delega sul contatto altrui. La propria pelle diventa la pelle degli altri, certi di esistere solo se gli altri ci sono. Questa modalità genera la frustrante paura per la solitudine e la frustrante persecutoria paura che gli altri abbandonino, tale da fomentare quella odiosa dipendenza affettiva delirante .
La pelle rappresenta il confine contenitivo e delimitante tra la nostra entità e il mondo. La pelle pone il confine tra l’ anima e la profanazione dell’ indiscrezione dell’ invadenza. Ogni parola azione rimbalza sulla pelle se non edifica, passa attraverso di essa se promuove e comprende, se la oltrepassa come una lancia, viola e traumatizza.
La prossemica è quella distanza metrica naturale che ci impone di tutelarci dalle altrui invadenze e di accorciarle quando c’è accoglienza.
Il progetto di approdare alla propria pelle, a Se Stessi, riordina l ‘ assetto verso l’ auto appartenenza, nemica della dipendenza affettiva.
La fobia che gli altri siano abbandonici, innesca un vissuto di irraggiungibilità di relazioni stabili, che fagocita nella rabbia, che il mondo sia ostico e squilibrante, tale da desiderarne la distanza. È la paura che gli altri abbandonino a condizionare gli altri ad abbandonare per l’ incertezza che suscita la paura .
O rimaniamo soli e odiamo il mondo, o impariamo a toccarci e a recuperare il contatto con se per sentirci e percepirci presenti a noi stessi e al mondo. L’ assenza del contatto con se, con il piacere di se e attraverso con la propria auto realizzazione, genera l’ assenza e la distanza dagli altri.
Se qualcuno ci ha violati, toccati, nostro malgrado, viviamo la perdita del confine, la violazione di quel preciso sacro confine esistente tra noi e il mondo. Si annida nella memoria la macchia da voler mantenere la distanza è il distacco da tutto per effetto della generalizzazione.
In analisi sradichiamo le loro mani dalla nostra memoria, certe parti di se che non venivano più considerate, riprendono a far parte di noi come legittimi proprietari . ci riconciliamo con noi stessi e con quegli altri che non c’entrano, condannando il solo violatore che ha profanato noi stessi.
Il recupero della propria pelle è il recupero della propria integra identità che si chiama persona e lo sradicamento e lo scollamento delle mani, dalla memoria, del demone dalla nostra pelle, è lo sradicamento delle loro mani, come delle metastasi dalla propria vita partendo dalla propria memoria, che rimane circoscritta in quel tragico ricordo deprivato dei ponti verso il presente. Questo è un modo metodologico per procedere al recupero del senso della propria integrità e del proprio benessere .
Nei casi di abusi sessuali la vera violenza non è determinata solo dall atto in se, ma dal radicamento dell’ esperienza traumatica, come metastasi immobilizzante la quotidianità.
La memoria del trauma viene percepita non come la memoria del passato, ma onnipresente nel qui ed ora, come un cancro di adesso.
La vitalità esiste innanzitutto nel contatto con se stessi e non con le aspettative altrui, attraverso le loro opinioni c’è l’ incertezza di vivere perché non sono le propria con la conseguente paura di essere sempre sbagliati, tentennanti come funamboli sul filo della vita.
Madre natura ci ha dotati di due gambe e due piedi per essere stabili e camminare su noi stessi, ma facciamo di tutto per camminare con i piedi e stare sulle gambe degli altri, vediamo con i loro occhi e con i loro valori non curanti del valore di noi stessi.
giorgio burdi
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Reazioni di Sissi
Diario, 1 novembre 2021
Sento le spalle chiudere il torace mentre mi guardi, mentre parli e mi chiedi qualcosa. Sono io che chiudo il fiore della mia anima con tutti i petali che conosco perché temo che a guardarlo se ne scorgano le sbavature.
Mi guardi, mi trafori, vuoi prendermi l’anima, gustarla fino a sputarla come se fossi il primo goccio di vino guasto. Tutto questo tempo a correre sui binari, sempre e solo binari, come recinti innevati dove raccogliere sogni e respiri; binari che per me sono la vittoria di sapermi al mio posto, nel posto che il mondo ha accettato di concedermi, un posto a cui mi sono solo adeguata e che non ho scelto.
Ed è sotto queste sembianze rattrappite, incolte, senza venature, che allungo il collo, lascio che il naso esplori oltre gli aromi e mi bevo i colori del mondo. Così brillanti, vispi, vivaci, veri.
E le profondità io le vedo, proprio perché mi sono negate, o forse qualcosa in me è portato a vederle. Quante crepe, quanta lava in questo corpo recinto dai binari della solitudine, da quei nodi rimasti incagliati nelle ancore di barche mai partite.
Ma com’è possibile che la solitudine sia tanto affollata? E sono sempre a chiedermi se il mondo si accorga che le orme che lascio sono orme di mostro, che ho la responsabilità di tutti i miei limiti, che sono un fascio fallito di emozioni belle e che mi chiedo quanto povera sia questa mia anima se non conosce amore, se non conosce carezze.
Quanto è difficile la gentilezza dell’intimo contatto per me. Se la immagino, quasi mi nausea. Eppure la sento in un posto remoto di me, un posto sigillato dall’esperienza di anni di sacrificio segreto e stratificato. Nel contatto mi pare esserci sempre un grido d’aiuto che io non ho energie per offrire. E lo sento sulla pelle quel grido: l’altro diventa lo sventurato che s’aggrappa alle pendici del burrone per non cadere.
Sono io quelle pendici e dell’altro mi rimane la disperazione, gli occhi gonfi di buio e terrore, mentre rimango solida per non farlo cadere. Ma la verità è che a furia d’essere solida mi son saputa friabile e son caduta io nel vuoto non sapendomi aggrappare all’aria, non volendomi aggrappare affatto.
Se ruoto gli occhi nel mio petto, so che esiste un altro tipo di contatto. Eccole, le vedo se chiudo gli occhi: sono due mani tiepide che s’accarezzano, due corpi che emanano calore e profumi a furia di baci infiniti, fiori dischiusi, brividi che scuotono anni e istanti, a seguire lo spartito del cuore che accelera per pompare più sangue, a far vibrare la pelle e il sesso con cerchi concentrici di piacere così simili a quell’acqua che si espande in cerchi sotto il tocco e l’ingresso di un sasso.
Come mi sento simile all’oracolo Cassandra nell’amarezza di sapere con gli occhi interiori questa vasta meravigliosa verità e contemporaneamente come sono simile a chi l’ascoltava nel non vederla fuori io stessa.
Da qui, come un marchio purulento, la vergogna d’essere me, d’essere i miei anni, d’essere la mia storia, di sentirmi il fallimento della naturalezza umana.
Fra questi binari, a sera, sospiro, m’accarezzo e m’asciugo leguance intiepidite dalle lacrime. Il calore che sento me lo dono come la promessa d’essere per me una mano d’intima gentilezza.
Sissi
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