Logos ed Eros
Logos ed Eros
L’ emozione è la via, il pensiero la malattia.
Tutti azioniamo continuamente sottili meccanismi di razionalizzazione nei confronti del nostro stesso mondo emozionale, che per questioni di sofferenze, abbiamo disimparato ad auscultare e a comprendere, da cui tentiamo di proteggerci e di difenderci, rendendo la nostra vita veramente difficile da sostenere.
Come ci ricorda Jung, “Privo della dinamica affettiva, il fenomeno della coscienza perde ogni senso” (1958, 301). Il Logos distruggerebbe se stesso senza la controparte affettiva, antidogmatica e componente creativa dell’Eros.
Poiché Eros significa anche solidarietà e umanizzazione contro le moralizzazioni, le rigide norme della Legge, i suoi divieti, il suo limite.
Per comprendere quale arma a doppio taglio sia il potere razionale dell’uomo senza un supporto d’eros che conferisca valore anche etico alle cose, basta pensare
alla facilità con cui l’opinione pubblica accoglie la pratica di sospendere le cure a un neonato che viene alla luce deforme: tutti sembrano d’accordo nel negare l’accesso alla vita a una creatura così svantaggiata, così ’minorata’, appellandosi ad argomenti razionali che peccano però di giansenismo e nascondono, probabilmente, la paura del diverso.
C’è da dire intanto che, se vogliamo affidarci a criteri rigorosamente e scrupolosamente razionali, dovremmo anzitutto chiederci se e perché siamo sicuri che la mancanza di braccia o di gambe decida realmente del significato e dei risultati della vita di un individuo.
Ma la pericolosità di tali atteggiamenti non sta tanto nel caso specifico, quanto, a un livello più generale, nel concetto di ’controllo sociale’: dalla
soppressione di chi manca di braccia o di altro, alla soppressione di chi difetta di determinati requisiti psicologici o intellettivi che ’qualcuno’ ritenga fondamentali, il passo risulta pericolosamente breve.
Le azioni eroiche, quelle di chi arriva anche a sacrificare la propria vita, sono dettate dal sentimento, non certo dalla ragione, in ossequio alla quale non si potrebbe che optare per la conservazione della propria vita, per la sopravvivenza.
‘Sento’ che devo agire in questo modo: espressione umana comune che illumina circa l’origine emozionale che muove all’azione in determinate circostanze, anche contro le regole e le logiche del quieto vivere e della morale comune.
Ma perché l’uomo finisce per mortificare il suo sentimento al punto tale da essere poi condannato all’aridità e alla schiavitù di una condizione di esistenza rigida e inappagante? Ciò avviene quando l’uomo ha paura delle proprie emozioni.
L’emozione coinvolge laddove la ragione controlla: attraverso il Logos l’individuo guarda al mondo e alle cose in posizione frontale da calcolo e distaccata, dove c’è emozione, al contrario, c’è partecipazione e coinvolgimento.
L’amore abbatte le barriere divisorie tra amante e amato, travolgendo entrambi in un’identificazione reciproca per cui l’uno è l’altro.
La forza dell’Eros spezza ogni resistenza, e sembra annullare ogni remora morale e normativa, trasformando chi ne è oggetto in un trasgressore: la gelosia acceca, l’amore travolge, la passione, nella sua significazione etimologica, è una forma di sofferenza passiva, una possessione per la quale si è preda di qualcun altro.
Le emozioni represse conducono ad un groviglio caotico di pensieri che il logos tenta di sciogliere attraverso folli atteggiamenti e pensieri, tutti da decriptare e sfociare in rituali di comportamenti.
Quanto più i suoi sentimenti sono rimossi, tanto maggiore è l’influenza dannosa che essi esercitano segretamente sul pensiero.
Tutte le dimensioni dell’umano, della solidarietà, del vivere all’unisono sono dettate dall’Eros, dalla sensibilità attraverso cui si può cogliere l’altro nella sua nudità ed essenzialità, al di là delle regole, dei pregiudizi e delle categorizzazioni.
Lo psicologo del profondo è costantemente sottoposto alla richiesta da parte del paziente di una comprensione che va ben oltre il bisogno di decodificare razionalmente il proprio vissuto.
Ciò che si chiede è di essere accolti nella propria totalità, di poter dare voce alle proprie emozioni senza remore e freni inibitori.
la vita nella sua pienezza è norma e assenza di norma, razionale e irrazionale. Quanto più allarghiamo la scelta razionale tanto più possiamo essere sicuri che così facendo escludiamo la possibilità di sapere profondamente irrazionalmente chi siamo (jung 1917, 43-50).
Ciò è possibile solo se si è dato pieno diritto di cittadinanza al mondo dei sentimenti, al “cuore” e all’anima che parlano attraverso un sorriso, uno sguardo, un silenzio.
Credo che, nonostante le difficoltà, valga sempre la pena di avventurarsi sul terreno dei sentimenti e delle passioni e rischiare fino in fondo, giacché il linguaggio dell’eros svela aspetti della realtà che sfuggono al logos e verso il quale è giudice severo.
Avremmo prospettive e Aspettative che non conosceremo mai, se ci adeguassimo supinamente alle regole del gioco imposte dalla collettività:
c’è sempre un momento nella propria vita in cui bisogna infrangere le ‘regole’ e la ’legge’ per poter crescere e maturare psicologicamente.
L’educazione che abbiamo ricevuto dettava prescrizioni rigide: questo si può fare, questo no. Il nostro sviluppo è legato all’atto di infrangere la norma che proviene dall’esterno per sostituirla con una voce e una morale interna.
Per l’uomo pensante, per l’uomo del sottosuolo, l’ uomo delle profondità, giunge sempre il momento della presa di coscienza che richiede un ’tradimento’ nei confronti dei valori collettivi, e la creazione di nuovi valori.
L’uomo del sottosuolo deve trasgredire, deve infrangere le leggi derivate dall’eredità culturale, deve rompere con le regole, se vuole conoscersi, perché non è perimetrabile o scontato.
La coscienza è un’esigenza che si impone al singolo o che almeno gli “procura serie difficoltà”, essa “esige dal singolo che egli ubbidisca alla voce interiore anche a rischio di sbagliare”
Creare i propri valori significa infatti confrontarsi continuamente con la propria dimensione Ombra, con la possibilità di operare il male: “La coscienza più evoluta porta alla luce il conflitto morale latente o acuisce i contrasti che lo arrovellano”
Se il soggetto è sufficientemente coscienzioso, il conflitto è portato fino in fondo;
la sensazione di vivere autenticamente, come essere umano, deriva proprio dal coraggio di andare contro corrente, ascoltando se stesso, e la maturità consiste nel sopportare il peso del giudizio di un collettivo che necessariamente deve stigmatizzare il trasgressore come fuorilegge.
aldo carotenuto
giorgio burdi
ContinuaVivere a Colori
Vivere a colori, sul nero dell’ ansia.
Forse non l’ho mai fatto da quando sono nata, o forse sì ma non me lo ricordo….forse quando ero bambina, non lo so….di certo non “da grande”.
Il perché? Probabilmente non mi è stato insegnato o tramandato, ma solo oggi inizio a percepirlo a pieno. L’ansia e la depressione, mie “amiche” ormai da molti anni, mi hanno privato della ricca gamma di colori che la vita offre.
Troppe paure, troppi pensieri negativi, l’attesa come se debba arrivare una catastrofe sempre dietro l’angolo, una malattia, una morte di un caro se non la mia….quel panico che arriva e non so il perché, mi toglie il fiato, manda la testa in palla, s’impossessa di me e decide lui cosa fare….cioè niente.
Non posso guidare allontanandomi molto da casa da sola, non posso prendere un ascensore, non posso viaggiare in treno o in aereo tranquilla e serena nonostante l’obiettivo sia una vacanza, non posso farlo per tragitti lunghi che mi porterebbero in posti da me tanto desiderati.
Ma anche tra le mura domestiche qualcosa non funziona, ho paura di stare sola di notte, mi mette ansia un temporale, se ho tempo libero non riesco a rilassarmi, a dedicarmi senza fretta o sensi di colpa a ciò che mi piace, che mi fa bene.
C’è sempre qualcosa o qualcuno che viene prima di me, c’è sempre il giudizio dell’altro che chissà cosa pensa, chissà cosa dice, chissà se ci rimane male. Ed io dove sono? A che posto? Boh….forse non l’ho mai considerato, mai prima d’ora, perché solo dopo tanta sofferenza, tante lacrime, tante occasioni perdute, tanti silenzi, tanti vuoti, è arrivato il momento della scalata verso il primo posto.
Ora ho capito che si può fare anche se non ci credevo, ho capito che esistono un’infinità di colori che sono i piaceri, le emozioni, le sensazioni, positive e negative ma comunque vive.
Ho capito che non deve esistere il se condizionale, perché mi intasa soltanto la testa con mille paranoie, offuscandomi la visuale su quello che ho, su quello che sto vivendo e privandomi di me stessa.
Ho capito che posso percorrere 60 km guidando da sola senza che mi succeda nulla, ho capito che non è necessario essere sempre preparata e perfezionista e anzi, allentando la presa, le cose vengono meglio, posso anche permettermi di sbagliare e di dire di no.
Ho capito anche che posso e devo mostrare a mia figlia il bello della vita, i colori….senza i mille sensi di colpa né gli insostenibili sensi del dovere che mi hanno soffocata subito dopo esser diventata mamma.
Certo il traguardo è ancora lontano, vivere serena e senza ansie mi risulta ancora difficile…. ma una cosa è certa, voglio vivere a colori, voglio capire ed aprire la gabbia, voglio far esplodere me stessa e non restare una fotocopia in bianco e nero di me stessa.
Maria
ContinuaLa Gelosia Retroattiva e la Rivalità
La Gelosia Retroattiva e la Rivalità.
Il confronto, la competizione, fanno parte della natura umana. Esistono vari tipi di competizioni, ma credo che una sana, aiuti a migliorarsi e a superare propri limiti.
Ci sono invece quelle competizioni che durano anni, probabilmente da quando si è ancora bambini. Confronti, giudizi, raggiri, conflitti familiari, per i quali gli altri sono sempre migliori di te, non fanno altro che generare imbarazzi e vedere agli altri come competitors e acerrimi nemici.
Si avvia una formazione all’ inferioriorizzazione, screditandoci, a vantaggio di chi diventa il nostro inferno.
Questa formazione distruttiva, lascia tracce nella memoria della nostra autostima, tanto da pensare di se solo ciò che gli altri vedono di noi.
Le ruminazioni e le sensazioni associate a tali ragionamenti fanno si che la rivalità predomini e diventi ossessiva.
La gelosia retroattiva non è da riferirla alle circostanze presenti, ma ad esperienze passate con i nostri veri rivali.
Inizialmente prodotta nel passato dalla famiglia , la rivalità viene rivisitata e poi rimessa in vita nelle relazioni presenti.
Nel modo reiterato, essa perdura sotto forma ossessiva, Allora cosa si potrebbe fare o pensare, sottoposti ad un mantra in cui tutto il mondo sarebbe migliore di se ?
Pertanto, gelosia retroattiva e Rivalità rappresentano le due complici facce della stessa medaglia.
Uno schema di questo genere viene stampigliato nella mente da ricercare un qualsiasi rivale da sconfiggere, uno schifo da superare, i primi rivali che hanno innescato questo meccanismo, da permeare tutta la propria esistenza e gran parte del proprio tempo, è la famiglia, con le sue continue apprensioni, derisioni , insulti ed imbarazzi.
Ma la famiglia non é la sola causa, anche la scuola con i cosiddetti bulli.
Formati alle derisioni in famiglia, indebolito l’io, si subiscono altrettante derisioni e delusioni tra i banchi di scuola, tali da edificare quell’ “opera d’ arte” definita ossessione compulsione e la gelosia retroattiva con i rispettivi disturbi d’ansia, dell’umore e le esplosioni di rabbie.
Diventa arduo sentirsi bella, forte e migliore, si diventa insensibile ai complimenti. Contrastare un ossessione è difficilissimo, ma comprendere le radici e distaccarsene attraverso, la psicoterapia, rappresenta la cura che può guarire.
Reginella
ContinuaFa divertire il tuo cervello
Fa divertire il tuo cervello
Quanto ne gioverebbe il tuo equilibrio mentale se dedicassi al divertimento e al piacere tutte quelle ore che invece passi a rimuginare, a preoccuparti e a temere cose e situazioni che non sono ancora successe e che probabilmente non succederanno mai.
Uno degli errori più comuni che commettiamo da sempre ma che solo oggi ci rendiamo conto di quanto possa aver contribuito al nostro malessere attuale è quello di pensare al nostro corpo e alla nostra mente come a delle macchine perfette.
In realtà alla base dell’equilibrio psico-fisico di ognuno di noi vi sono dei principi fondamentali che regolano il nostro sano funzionamento.
In termini psicoanalitici questi istinti e bisogni che governano il nostro Io interiore vengono definiti con i nomi di due divinità greche: Eros e Thanatos, rispettivamente Dio dell’amore e Dio della Morte.
Eros sebbene richiami il concetto greco di desiderio amoroso – non si riferisce solo all’atto sessuale, ma al bisogno di tutto ciò che stimola il piacere umano, cioè la fantasia, la creatività, l’entusiasmo e il desiderio di vita, Al Dio Eros viene quindi attribuita quella parte del nostro IO legata al divertimento, all’attività fisica e al riposo dallo stress. Thanatos – si riferisce alla nostra parte razionale e inibitoria, che regola gli istinti per l’appunto di morte e di paura, non a caso luogo d’origine di tutte le nostre ansie e insicurezze.
Ora basta chiederti: quale di questi due istinti prevale nella tua quotidianità ?
In una società che ci vuole sempre più veloci, sempre più preparati e perfetti quanto tempo è rimasto per la cura dell’anima ? Per il piacere di un Hobby o della compagnia degli amici per farsi due risate ?
Eppure stiamo parlando di un bisogno che è fondamentale al nostro benessere quasi quanto il bere e il mangiare. Il nostro cervello ha il diritto e il sacrosanto dovere di divertirsi per poter funzionare correttamente.
Il tuo cervello è un muscolo che puoi allenare come qualsiasi altro muscolo del tuo corpo, se per tanto tempo hai concentrato le tue energie verso il lato negativo della tua esistenza, hai sviluppato un allenamento e un abitudine a pensare e comportarti in maniera tutt’altro che costruttiva.
Se riconosci in te questo tipo di comportamento sei sulla buona strada per il cambiamento.
Ricorda che hai il potere di costruire nuovi percorsi nel tuo cervello ma ci vuole più coraggio e pazienza di quanto tu possa pensare perché i tuoi vecchi schemi sono già ben sviluppati e sradicarli è un operazione che richiede tempo e perseveranza. Buon divertimento.
carmen
ContinuaArchetipi: Siamo tutti uguali.
ARCHETIPI
Pensieri ed immagini indicibili. Siamo tutti uguali
Ci vorrebbe poco per conoscere gli altri, basterebbe conoscere il nostro mondo sotterraneo indicibile, ammettere che siamo sempre in lotta con esso, accettarlo, per capire per quale motivo è insidioso o siamo invidiosi, in lotta e in competizione con gli altri.
La lotta contro gli altri, è la lotta contro il nostro indicibile, essa è all’ origine della paura per il giudizio.
Tutti siamo in modalità simile e differente da noi stessi. Gli altri sono la nostra poliedricità, come noi la loro, e insieme siamo la sintesi dell’ umana esistenza.
La nostra mente si esprime per immagini, che sono rappresentative del nostro inconscio ed esse sono universalmente presenti in tutti e condivisibili.
Ogni soggetto crede di essere unico, ma lo diventa, e pertanto crede di non essere in grado, o lo ritiene inopportuno, condividere le sue immagini intime. Ma le nostre immagini sono archetipi onnipresenti in ognuno e condivise o no, esse ci sono, e ci accomunano.
Ciò che ci fa differenti, è il livello della consapevolezza, relativa alla presenza degli archetipi in ognuno di noi, tale da non farci temere alcun giudizio nel poterli esprimere e nel poter essere noi stessi.
È la sola consapevolezza e il conseguente suo agito, che ci rende emancipati.
“Nessun uomo è un’isola, e le immagini archetipe sono rivelatrici della comune matrice umana, questa è la ’materia’ da cui è sorta la coscienza. Questa appartenenza al grande affresco del ciclo della vita è l’aspetto mitico della nostra vita.” [ Carotenuto ] .
Ognuno di noi viaggia cercando di scoprire quale è il proprio mito, per poi viverlo fino in fondo, nel bene e nel male, in tutti i suoi aspetti chiari e oscuri:
possiamo nascere in qualsiasi condizione sociale, con qualsiasi particolare aspetto fisico, ma l’unica cosa importante nella strutturazione di se stessi è la capacità di superare le “prove mitiche”, che sono le prove delle nostre ed altrui “immagini indicibili” , archetipe, cioè quelle prove esistenziali che le immagini dell’inconscio ci indicano come tappe ché hanno costellato il cammino di tutte le generazioni precedenti, il cammino dell’uomo in generale.
Viviamo temendo gli archetipi, ovvero temendo tutto ciò che è presente in tutti gli uomini, viviamo all’interno di continue prove quasi mitologiche, idilliache di sopravvivenza.
La lotta contro gli archetipi rappresenta la lotta contro l’uomo, essa è all’origine delle guerre inutili, guerre contro se stessi.
Sentirsi inseriti in una storia metaindividuale, conferisce una grandissima forza interiore, perché ci inserisce in un universo di significato di similitudini, un universo immaginale, di superamento della solitudine, di cui la psiche è testimonianza comune.
Bisogna imparare a guardare agli eventi in quest’ottica, rifacendoci alle leggende e ai miti, creazioni universali della psiche, per attingere dai loro simboli un insegnamento sempre valido e illuminante che ci rende favolosamente vicini.
Le componenti dell’animo umano sono universali e attraversano la storia trasversalmente, accomunando destini apparentemente lontanissimi tra loro, ci fanno pensare alla presenza di un inconscio collettivo.
Noi tutti siamo così vicini, più di quanto possiamo immaginare, solo che siamo intimoriti dalle nostre iconografie mentali e nel timore di essere giudicati, ci allontaniamo ed entriamo, come degli adolescenti, in continua competizione ed invidia.
Servirebbe una torre di buon senso e di libri interminabili da saggiare, per scalare noi stessi, per emanciparci dalle nostre caverne, per sentirci consapevolmente esseri umani, accomunati e sereni da poterci condividere.
giorgio burdi
ContinuaL’ opportunista
L’ Opportunista
Deluso, se attendi gli altri
In questo articolo vorrei affrontare senza mezzi termini il tema dell’opportunismo.
Essendo molto giovane, fino a qualche anno fa neanche mi rendevo bene conto di quanto fosse diffuso e intrinseco nelle relazioni sociali che spesso portiamo avanti.
Ora, che di anni ne ho ventiquattro, qualche esperienza in più e un pizzico di innocenza in meno, posso dire di conoscerlo bene. Fin troppo forse.
Ritengo (magari mi sbaglio) che ci siano due “tipi” di opportunismo. Quello “sano”, che può aiutarci senza ledere gli altri e senza danneggiare nessuno, non esclusivo e non rivale, perché una volta attuato non va a diminuire le opportunità altrui e potenzialmente accettabile perché definibile come capacità di sfruttare quell’opportunità ghiotta senza vedercela passare davanti e stare lì, fermi a osservare come beoti quell’ennesimo treno che ci sfreccia davanti senza prenderlo al volo.
Poi c’è quello, più diffuso direi, che in modo a volte brutale e talvolta abilmente celato viviamo ogni giorno.
Ma quante ne vediamo di colleghi arrivisti, in università e sul lavoro, che “usano” il più bravo e lo, accogliendolo a braccia aperte in un gruppo di lavoro, solo perché a loro è utile, lasciando i meno bravi quindi (a loro avviso) meno “utili” in disparte.
Oppure, quanti “lecchini” e arrivisti che impostano la loro vita sull’utilizzo dell’altro (spesso il potente) per un proprio futuro tornaconto.
E se talvolta possiamo definire delle relazioni come “transazioni” ossia un “dare e avere”, quante di queste (amorose e non) intessiamo solo per soddisfare un nostro bisogno opportunistico e non certo disinteressato e spontaneo?
Ricordiamoci che nessuno fa niente per niente. Quante di queste ultime sono basate sul motto “ho bisogno di te”, come se il partner o l’amico/a fosse un medicinale salvavita, utile alla nostra sopravvivenza?
Si dovrebbe dire: “ho bisogno solo di me stesso, perché la mia vita può e deve essere bella e meravigliosa anche senza di te, tutto dipende dalla mia capacità di trovare un mio personale equilibrio, ma con te ho quella marcia in più”.
Quante volte si fa beneficenza solo per il bisogno di sentirci apposto con noi stessi, andando per l’ennesima volta ad utilizzare l’altro solo per ottenere un tornaconto basato su una fittizia pace con la nostra coscienza.
Quante volte invece vediamo senzatetto lasciati soli, emarginati dalla società, ognuno con la propria storia e spesso capaci, se si ha il coraggio di aprirci per ascoltarli, di arricchirci con importanti lezioni di vita e -al contrario- “potenti” mai soli? (E non parlo per sentito dire).
Si potrebbe andare avanti per giorni con altre storie riguardo questo tema, ma non voglio fare il pesantone. Però su una domanda mi ci vorrei soffermare. Abbiamo il coraggio di chiederci il perché?
Sono fermamente convinto che anche se non ce ne accorgiamo o semplicemente non lo vogliamo riconoscere, in tutti noi c’è quel pizzico di opportunismo. Che sia “sano” o che sia evidente e “malato”, sta a noi riconoscerlo, facendoci un’autoanalisi.
Quanto “usiamo” gli altri per i nostri scopi, pronti a passare sopra tutto e tutti pur di arrivare al nostro obiettivo?
Carlo Mastroianni
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Dr. Giorgio BURDI
Psicologo Psicoterapeuta
ContinuaSettimanale Psicologo Roma : LA SPONTANEITÀ È ARRIVARE IMPREPARATI
Quando non c’è spontaneità, c’è timidezza, non c’è autostima, c’è solo la folla in testa.
Come la scia del vento che accarezza le foglie, scompiglia i capelli e architetta a spasso continue conciature, ridefinisce mille volti dello stesso volto, svariate bellezze della stessa bellezza, svolazza le gonne in una danza in festa, rigonfia le vele per tracciare le rotte, attiva i mulini, innalza alianti.
La natura è meravigliosa, funziona da sola, non richiede pensiero, va da sola va, trascina e si lascia andare, non controlla nulla, vive ciò che c’è, non cerca niente, ha già tutto ciò che le serve, va con la sua potenza e tutto muove, perché si lascia andare.
La spontaneità è la natura di un uomo, se non è corrotta da contaminazioni di pensieri, doveri, obblighi e responsabilità, giudizi, rappresentano la zavorra al volo, rappresentano la non spontaneità sono pesantezza, ossessione, essi sono un’ ancora, ormeggio, manette al benessere, alla serenità, alla salute.
L’assenza di spontaneità è generatrice di sintomi, è il precursore della malattia, rende coatti automi programmati, residenti del villaggio dei pensieri, lontani dalla semplicità della natura, residenti di meccanismi automatici mentali, incastri di schemi che imbavagliano la vita che parla continuamente.
La spontaneità è ascoltare di continuo la vita che parla, è parlare della vita che senti, è muoversi con la potenza delle sensazioni e delle emozioni.
La spontaneità è corpo, viaggia, la mente, se è contaminata, frena. La spontaneità esiste se mente e corpo hanno fatto pace, se sono allineati, se diventano o sono coerenti ed onesti tra di loro.
La spontaneità è avere il coraggio di accettare che le cose accadano, ma è anche trasformarle a vantaggio della propria direzione, perseguendo i propri obiettivi.
La spontaneità rappresenta un equilibrio tra ciò che va e come vorremmo che cose vadano.
È come imparare a navigare in un rafting, lanciandosi in una rapida, cavalcando una cascata e scendere delicatamente fino alla foce.
Spontaneità non è lasciarsi al caso, è esprimere la propria potenza, svincolata dalle inibizioni e dai sensi di colpa.
Il peggior nemico della spontaneità è il senso di colpa e il senso dell’ obbligo. Questi e le inibizioni trovano la loro causa acerrima, nel senso degli altri e non in se.
Chi perde di spontaneità è mentalmente sempre di fronte agli altri, anzi da questi altri ne potrebbe essere spregiudicatamente e continuamente vincolato e dipendente, dipendendo poco da se, dalla sua obiettività, pensa e fa tutto confrontandosi mentalmente con il suo chiodo fisso, depistatore, gli altri .
Chi perde la spontaneità, ha spostato il suo baricentro da se al mondo, il suo massimo interlocutore sono gli altri, in quel preciso istante non esiste più il se.
Quando ciò accade, non si vive più, ma si vive per una folla mentale, in uno stato confusionale della folla, con la sensazione di svuotamento e di de personalizzzazione di se e deperimento delle relazioni importanti.
Ma la folla alle volte non è solo così interpretabile, vive per se, non lo fa appositamente, vive l’ automatismo dei suoi atteggiamenti appiccicati pedissequamente su tutti, non ragiona, è così con tutti, oppure temiamo il suo giudizio pur inesistente. Questo non nega la presenza di persone fortemente manipolative.
Comunque sia, tali modalità contaminano continuamente il nostro destino, decidono comunque per noi, sempre.
Essere impreparati significa, non prepararsi prima, a nulla, arrivare senza e scevri da pregiudizi che temiamo in continuazione.
Spontaneità è non avere vincoli se non il vincolo con se stessi, è chiedere un annullamento delle interferenze.
Quando non c’è spontaneità, c’è timidezza, non c’è autostima, c’è solo la folla in testa.
La paura di essere giudicati rappresenta la perdita della propria vitalità e della spontaneità.
Bisogna decidere di fronte a chi desideriamo stare, se vivere per resoconti altrui sottoponendoci passivamente a ripetuti, gratuiti indiscrete inquisizioni, continuando a frustrarci contaminando quegli attimi dell’ unica vita che abbiamo con i suoi pochi atomi di meraviglia, o interpellare il proprio partigiano ribelle unico difensore della patria di se.
Partigiano, difendi la tua spontaneità, perché la Tua spontaneità è davvero l’unica tua Libertà, è il vero ed unico luogo dove Tu Esisti, è il Tuo stesso numero UNO, Essa è la stessa Tua Persona.
giorgio burdi
ContinuaSettimanale Psicologo
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Salve,
sto lavorando all’aggiornamento dell’elenco di coloro che desiderano continuare a ricevere gratis la news letter di Studio BURDI e, per questo, anche se lo hai già fatto in precedenza, e te ne ringrazio, ti invito cortesemente a rinnovarmi il tuo interesse rispondendomi con un semplice e veloce OK a
news@burdi.it .
Per apprendimenti
http://www.burdi.it/privacy.htm
Ovviamente puoi anche approfittarne per richiedermi invece che il tuo indirizzo venga cancellato.
Buona giornata e grazie
ContinuaSettimanale Psicologo Roma : MADRE E FIGLIA
Dalla rivalità tra le donne ai contrasti tra i partners
MADRE E FIGLIA
Dalla rivalità tra le donne
ai contrasti tra i partners
All’ interno del lavoro analitico assisto molto spesso al bisogno di risoluzione del binomio amore rivalità tra madre e figlia e viceversa, che alle volte rasenta l’ odio all’ interno di questa relazione.
La rivalità della mamma nei confronti della figlia e viceversa, è una condizione più o meno di tutte le donne. Essa viene trasmessa sotto forma di modelli di atteggiamento da società arcaiche fino ai nostri giorni.
La rivalità tra le donne è una questione generazionale, genitorialmente trasmissibile attraverso il vettore della famigliarità, tali modelli vengono veicolati in modalità virale senza fine, gittati dal passato remoto al presente.
All’ interno di questa prospettiva al femminile, tali relazioni vengono impostate in modalità quasi simili, si possono osservare attacchi e controversie dirette, ed indirette, modalità competizioni, invidie e gelosie coatte, tali da sviluppare valenze di aggressività latenti e manifeste, dove l’ atteggiamento iper critico la fa da maggiore.
Originariamente gli attacchi verso la donna in senso lato, trovano la loro origine nelle rivalità madre – figlia, la misoginia ne è una conseguenza appresa da tale conflitto.
La rivalità tra le donne rappresenta l’ induttore, e l’ istigatore dell’ aggressività verso la donna da parte dell’ uomo.
La rivalità tra le donne è una dinamica formativo al conflitto sociale tra le donne, una dona ipercritica contro l’ altra, propone un modello educativo all’ intolleranza, alla cultura della simmetria e della supremazia.
La madre aggressiva è un formatore, un coach che allena e genera modelli di incomprensioni, di chiusure e distacchi emozionali tali che vengono consegnati da generazioni a generazione, come se fossero atti di proprietà con veri atti notarili.
Rivalità ed amore sono due sentimenti controversi conviventi e contrastanti nella relazione al femminile e la loro coesistenza lascia un conflitto di attrazione e dipendenza.
La rivalità allora da cosa nasce? Essa si struttura sull’ istinto di maternità. Esso viene vissuto come un potere femminile assoluto rispetto al generare ed accudire la vita. La vita che gestirà la donna le conferisce un potere enorme, assoluto, non esiste potere più grande se non quello della gestazione della vita. Chi detiene e gestisce la maternità, con elevata e spontanea responsabilità è solo la donna, l’uomo invece termina e si affievolisce in un piacere fugace.
È l’istinto di maternità che rende la donna seria, essa investe tutto il suo sentire e la sua passione, è seriamente sentimentale e tanto più pragmatica e, a giusta ragion veduta, più apprensiva rispetto all’ uomo, ella rappresenta il binomio perfetto tra estrema delicatezza e potenza.
Questo stesso uomo “aleatorio” , rispetto alla sua donna, divenuta mamma, si porrà come alleato di sua madre e di sua suocere, mettendo in scena quella rivalità arcaica tra la madre e la suocera e la nuova figlia acquisita (nuora), attivando un conflitto senza fine sia sulla base di un Edipo maschile non risolto verso sua madre, ma che sulla base della rivalità tra le donne.
All’interno delle nuove coppie spesso si riscontrano questi due conflitti di un figlio invischiato in un conflitto di Edipo madre figlio non risolto ed una rivalità della figlia moglie con sua suocera e con la sua madre di origine.
Povera la coppia che ignori tali meccanismi, profondamente radicati nella costituzione della sua nuova famiglia.
L’istinto di maternità quindi condiziona la serenità delle relazioni attraverso il suo potere matriarcato.
La serietà dell’ essere mamma, la pone nel posticipare la sessualità a vantaggio della sua maternità, che passa su un piano secondario, favorendo la messa in disparte del suo partner, attenuando il loro gioco attrattivo.
La mamma gelosamente vanta ed ostenta il suo ruolo di accuditrice del suo pargolo, questa sua esperienza diviene il suo assoluto.
La figlia divenuta adulta e mamma a sua volta, si imbatterà con la sua madre originaria in un confronto competitivo sul ruolo, rinforzando la scia della rivalità tra di loro.
L’ istinto di maternità diviene il fulcro delle rivalità nelle relazioni al femminile, caratterizzando nel suo interno un vicendevole egocentrico narcisistico.
Il problema nasce dalla chiusura all’interno del ruolo della maternità. Ogni donna che fa quadrato in esso, rivendica un potere, si chiude, smette di essere mamma della sua figlia adulta, da inizio ad una emancipazione di tale ruolo da madre figlia al ruolo di relazione tra donne.
Poter condividere l’esperienza dell’ essere madre, comunicando su di essa, può accadere sul piano dell’ essere donne, esse solo creano un trade union tra le due.
Una mamma non in grado di guardare nel costrutto della sua anima, se ne è totalmente identificata con essa, non sarà in grado di guardare nell’ animo della figlia.
Una mamma che conserva la sua capacita di guardare dentro certi vissuti è profonda ed analitica, è capace di capire, tacere, osservare e collaborare in modo sereno, comprende la geometria del concepire, del nascere, crescere , limando sul suo potere.
L emancipazione dalle rivalità, nasce dal riflettete sul come e perché si forma un tale meccanismo, allo scopo di poter spezzare l’ impasse conflittuale generazionale madre – figlia, cristallizzata e fermo nel passato dei tempi.
La dualità, rivalità – affetto, può determinare e condizionare tutta la vita della relazione al femminile, da doversene fare una ragione, tale da desiderare di voler rinunciare alla madre, e alla figlia, piuttosto che superare un tale diverbio.
La conquista dell’ autonomia, pur essendo una prospettiva molto positiva per la donna, in tal caso è altrettanto negativa se resta insoluto il suo rapporto con la mamma.
Si potrebbe attenuare e risolvere una tale rivalità, imparando ad inquadrarla come non del tutto appartenente all’ attuale relazione, ma andrebbe inquadrata come una zavorra generazionale estemporanea, che non deve e non può centrare con il proprio presente.
giorgio burdi
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