Buoni propositi e il ritorno alla normalità: Indole o destino ? Tutti alibi per non crescere.
Buoni propositi e il ritorno alla normalità: Indole o destino ? Tutti alibi per non crescere.
Prenditi cura di te come fa una mamma che segue nella notte il suo bimbo, nell’ aiutarlo a fare ciò che è.
Sono passati alcuni giorni dall’inizio dell’anno e già le bacheche dei social iniziano a spogliarsi degli auguri di nuova vita, dei pronostici superlativi per quello che verrà, dei rituali necessari al conseguimento della felicità. I parchi di ripopolano di runner, il reparto bio degli ipermercati si ripopola di nuovi clienti; trovano nuova vita gli edicolanti, gaudenti per le alte vendite delle riviste astrologiche.
Non succeda mai che le lenticchie non abbiano portato soldi, che la prima scopata dell’anno non sia foriera di altre piccanti avventure, che la mutanda rossa non garantisca fortuna e felicità. Di solito, come si può vedere, questa vocazione al buon proposito dura, in media, qualche settimana, poi l’anno nuovo inizia a risomigliare all’anno vecchio: stesso lavoro, stessi amici, stessa attività sessuale…
Rieccolo il destino cinico e baro che si ripresenta alla porta, scompensando tutti i progetti per la vita nuova brindata e auspicata. Gli errori iniziano a ripetersi, le risposte alla vita sono le stesse e nonostante sforzi e promesse di cambiamento, finiamo per convincerci che, in fondo, non cambierà mai nulla, perché il destino ha stabilito questo per noi. Il destino si trasforma così, in una destinazione, unica foce dove convergono i nostri giorni.
Pensare che, un tempo, la definizione di destino, non nascondeva tutte queste ombre di staticità, anzi, riconduceva ad un’idea di uomo, in continuo movimento tra le forze immense e potenti della natura. Destino deriva dal greco istemi = io sto. Ma questo “stare” non traduceva la passività, ma quella prorompente vitalità di essere nati tra la vita e la morte, tra ζωη (zoe), il continuo fluire della vita e βιος (bios), la naturale finitezza.
La civiltà greca intendeva la vita come una continua battaglia. Una lezione che ritroviamo nei tanti componimenti tragici giunti fino a noi: l’individuo è immerso nella sua finitezza, nella sua caducità, ma ciò che lo salva è proprio scegliere di non soccombere a questo destino.
La sua libertà risiede nel poter costruire il suo meglio: unica azione che lo libera e lo determina come uomo. Se ci pensiamo, non è poi un caso che Freud, padre della psicanalisi, abbia trovato nell’Edipo re di Sofocle, la chiave di lettura per interpretare nevrosi e isterie, la base teorica della sua scienza.
Nel proprio cammino psicoterapeutico sarebbe utile, rifarsi a questa idea di destino, non statica, ma vitale. Iniziare a comprendere che non esistono eredità passate immobili e immutabili su di noi, che non esistono eventi nascosti e oscuri, pronti a profetizzare i nostri errori, ma io solo, soggetto unico e singolare, che di fronte alla persistenza del fato avverso (la nevrosi, per definizione, è ciclica e replicata) agisco, decido, procuro una cesura, tra quello che fu e quello che sarà.
Però, sotto questo pensiero, resterebbe in piedi la teoria che chi ha una indole riservata, remissiva, non potrà mai cambiare il proprio destino, visto che è solo il fermo atto decisionale a svelare la nostra libertà. Ma parlare di indole è continuare a definire un passato che si ripete e si riassume in comportamenti che è possibile modificare, con la guida del terapeuta.
Ritornando al mondo ellenico, sulla facciata del tempio di Apollo, a Delfi era riportata la frase “conosci te stesso”. Per datazione non poteva rifarsi al concetto cristiano di anima e di coscienza. Conoscere sé stessi voleva dire, pena il mancato esaudimento della preghiera verso il dio, essere pienamente coscienti della propria precarietà e delle proprie possibilità. Concetto vicinissimo alla nostra idea di autostima, ma svuotato da tutti gli inutili corollari che, nel tempo, abbiamo saputo dargli.
Conoscere sé stessi, i propri limiti, le proprie capacità è poter iniziare a fare pace col proprio passato, con i rancori irrisolti, con le rabbie tenute dentro, con i nostri dialoghi incompiuti. È iniziare a costruirsi il proprio destino nel tempo. Dovremo aspettare, quindi, il 31 dicembre del 2020, per festeggiare daccapo? E cosa poi? Il nostro inizio o la nostra fine? Di certo, una soglia così breve non può contenere tutta la nostra capacità di speranza.
Tutto il tempo datoci è un’occasione seria, per dare senso alle cose. Per cercare ciò che va lasciato e ciò che va custodito. Sempre, continuamente, perseverando. Scegliere, decidersi, è la vita stessa a chiederlo. Qualcosa è giunta al tramonto, qualcosa nasconde i fermenti dell’alba. Non ci sono anni vecchi, non ci sono anni nuovi.
C’è il senso del nuovo. Semmai, se ci deve essere un augurio è che sia quello di trovare in questo nuovo, il tuo nome e una notte più chiara auto determinandoti, come una mamma segue il proprio bambino nella notte.
ContinuaL’uomo è più potente del suo dolore e della morte
Che senso ha la sofferenza
L’uomo è più potente del dolore e della morte
Ogni volta che ci troviamo di fronte ad un qualsiasi dolore, veniamo chiamati a rinnovarci, attraverso la sua presenza, possiamo comprendere forzatamente o piacevolmente, che si sta prospettando la necessità di una nuova nascita.
Non siamo nati per soffrire, ma quando il dolore è presente, invita ad una evoluzione verso L’ equilibrio e la serenità, direziona verso un aiuto, una presenza super partes, verso una voce che ci accompagni mano nella mano.
Il dolore mentale o fisico si presenta come un parto verso un nuovo adattamento. È l’adattamento verso la nuova prospettiva che si impone, che strugge l’anima.
La sofferenza denota il bisogno di adoperarsi per una evoluzione che fa spavento. Tutto ciò che è nuovo, orientato verso la sua differente prospettiva, fa letteralmente paura.
Il più delle volte percepiamo solo tutta la veemenza del dolore che oscurantisce la prospettiva del cambiamento. Non lo capiamo, non lo sappiamo, ma quando soffriamo si esige un cambiamento.
Gli stessi sintomi rappresentano una ribellione ad una condizione e in quel momento il dolore rappresenta paradossalmente il nostro miglior amico che vorrebbe indicarci la strada e ciò che di fatto non va.
La sfida del sintomo è dover riconoscere da cosa esso viene generato per avviare una metamorfosi liberatoria rispetto alla situazione generatrice del sintomo.
Accertati che non ci siano cause di natura organica, se hai un dolore alla gola, domandati, quante parole non dici, soffocate a mezza lingua.
Gli acufeni denotano la presenza di pressioni emotive scaricate sui timpani, gli attacchi di panico che ti fanno temere la pazzia o la morte, denotano cosa davvero ti fa impazzire o ti fa morire nella vira quotidiana. La mancanza di autostima non rappresenta uno stato di deficienza personale, ma a quanti giudizi sul mio conto ho creduto.
La ricerca continua del senso della vita, il mal d’ esistere, denota che c’è molto che non da senso alla mia vita.
Comunque sia, il dolore non è nostro nemico ma al contrario un amico che incita verso una trasformazione di equilibri, verso la serenità e la felicità.
Ma, lì dove è complesso cambiare, cosa succede ? La sofferenza impone e propone l’ adattamento e la capacità di accettazione che acquieta e rigenera una nuova nuova forza di vita. Comunque sia,
l’ organismo è sempre reattivo, per adattamento, al miglioramento di se.
La prostrazione della sofferenza rende vulnerabili, spinge verso l’errore, spinge verso una dimensione comunque umana di differenti prospettive. L’ errore rappresenta la ribellione verso il dolore, è un confuso tentativo irrefrenabile verso una prospettiva di miglioramento.
L’errore rappresenta il partner del cambiamento, è un urlo di liberazione, senza sbagli non si cambia. D’ altronde il bisogno di liberazione, in una condizione di sofferenza che genera confusione, non sempre è progettabile, per quanto si cerchi di non sbagliare perché l’errore è sempre ripugnabile, ma esso è il puro ribelle del dolore, verso una evoluzione al di là dello stesso.
L’uomo è più potente del dolore, della morte perché comunque vada o comunque sia, per istinto di vita o di sopravvivenza, l’uomo si difende sempre, lotta e vive in trincea perché auspica sempre al desiderio di vita e di vittoria. Non molliamo mai.
giorgio burdi
ContinuaLo Studio BURDI è anche Mediazione Familiare
Lo Studio BURDI è anche
Mediazione Familiare
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Che cos’è
Mediare significa, accordare le parti, non si tratta di un semplice accordarsi attraverso un comune dialogo, ma attraverso l’ausilio di metodologie specialistiche con studiosi del conflitto di coppia e giuristi, quali lo Psicoterapeuta e l’ Avvocato Mediatore Famigliare.
La mediazione familiare è una disciplina, che prevede studi specifici, che analizza, si prende cura ed è rivolta a migliorare, in modo pragmatico, le relazioni di coppia orientate alla separazione o al divorzio, al fine di rasserenare la qualità della vita di ogni componente, di migliorare la relazione con i figli, ed inoltre, accordarsi sulla gestione patrimoniale.
Obiettivi e Benefici
La Mediazione Famigliare:
attenua notevolmente i conflitti della coppia separanda, separata o divorziata;
conduce ad un accordo soddisfacente;
riduce la frustrazione degli avvocati delle parti, avendo la funzione di ammortizzatore dei conflitti, smorzati attraverso gli strumenti della mediazione familiare;
semplifica, snellisce e da rapidità al lavoro del Giudice, nello stilare il provvedimento;
esonera i figli dai conflitti e ripristina una comunicazione decisamente più civile fra gli ex;
aiuta i figli all’adattamento alla nuova condizione e previene eventuali alienazioni parentali;
non può costituire prova testimoniale, perché è super partes, ed è incompatibile con il ruolo del Consulente Tecnico di Parte. Pertanto la Mediazione Famigliare non può essere una CTP.
non rilascia certificazioni distinte alle parti, ma solo documentazioni comuni di accordo, qualora si raggiunga;
la mediazione familiare evita lunghe cause, con notevolissimi risparmi sulle spese, estenuanti litigi dolorosi, in prospettiva, di una separazione più consensuale, che giudiziale
giorgio burdi
ContinuaPER CONOSCERE SE STESSI bisogna tradurre i silenzi in parole
PER CONOSCERE SE STESSI
bisogna tradurre i silenzi in parole
Quando ci chiedono “ come stai ? “, molto spesso dinanzi ad una tale domanda rimaniamo attoniti, pensierosi. Come sto ? Boh, Spesso percepiamo gli estremi, il massimo dolore o la gioia, per il mezzo non sappiamo rispondere, c’è quasi un vuoto di percezione.
Noi “stiamo” come stanno le nostre sensazioni ed emozioni, noi siamo le nostre stesse emozioni, esse sono caratterizzate da reazioni neuro fisiologiche potentissime, ma silenti, rappresentano la nostra raffinatezza. La sensibilità è il senso di umanità, è saper leggere tali raffinatezze.
Abbiamo bisogno di imparare a scansionare di continuo le nostre reazioni veementi, discrete o silenziose emotive e percettive, per essere presenti all’interno della realtà in cui viviamo, per realizzare la massima consapevolezza di noi e del mondo che ci circonda.
Parliamo in noi e tra noi continuamente e silenziosamente in moto vorticoso, un linguaggio interiore tutto da scoprire, al quale nessuna istituzione ci ha mai aperti o preparati, la conoscenza di noi viene data per scontata, ad essa non è mai data la dovuta importanza.
Nelle scuole primarie studiamo da sempre gli oggetti del pensiero, la fisica la matematica, la letteratura ect, ect, ma non c’ è la materia, “persona”, non è mai stata considerato oggetto di studio, il soggetto.
Conosciamo la giurisprudenza, la medicina, l’ Architettura, ma noi no, nella dimensione emotiva dell’ anima, del pensiero sommerso, di tutti quegli atteggiamenti dell’ affettività che determinano le globali relazioni e le transazioni umane.
Senza la conoscenza di noi saremmo sempre limitati, non saremmo abbastanza umani, vivremmo in relazioni mozzate, saremmo solo tecnici, avremmo relazioni automatiche e meccaniche, materiali, superficiali, monotone, relazioni monologhe.
Spesso osserviamo un medico o un assistente sociale, un professore privi di capacità relazionale umana, è inconcepibile osservare un medico, peggio ancora uno psicoterapeuta o uno psichiatra che curi il paziente prendendo le distanze dall’ uomo.
Leggere in noi significa leggere nel presente e nella nostra memoria.
Nella nostra genetica c’ è la storia di tutta l’umanità, abbiamo una catena elicoidale infinita di storie, in un filo invisibile, il dna, conduttrice generazionale. Esso ci collega alle radici della storia, catena trasportatrice di memorie, di reazioni emozionali, di paure, vitalità, di atteggiamenti, traumi, sensazioni e comportamenti.
Nelle nostre generazioni ci sono i sintomi, le patologie, le funzionalità, depositate nei campi della nostra vita genetico famigliare. I terreni sui quali noi costruiamo la nostra esistenza hanno radici neolitiche e preistoriche.
Noi siamo la memoria del passato e gli innovatori del divenire presente, siamo i depositari di una intelligenza storica e di un inconscio collettivo, siamo l’ acme dell’ evoluzione della specie umana e nella nostra specie ci portiamo l’ umiliazione, l’ orgoglio e il bagaglio del passato.
La congiunzione tra passato e presente avviene attraverso il concepimento, esso è il connubio della storia umana.
Curando noi, curiamo le nostre generazioni passate, e curando il nostro passato, curiamo noi nel nostro presente. Noi stessi siamo gli evolutori del nostro futuro e delle generazioni in divenire.
Noi, facciamo dono delle nostre emancipazioni ai nostri figli e alle generazioni future delle nostre conquiste. Il segreto dell’ evoluzione futura delle nostre prossime generazioni è nella cura e nella lettura e nella cura di noi che ci emancipa.
giorgio burdi
ContinuaPER CONOSCERE SE STESSI bisogna tradurre i silenzi in parole
PER CONOSCERE SE STESSI
bisogna tradurre i silenzi in parole
Quando ci chiedono “ come stai ? “, molto spesso dinanzi ad una tale domanda rimaniamo attoniti, pensierosi. Come sto ? Boh, Spesso percepiamo gli estremi, il massimo del dolore o la gioia, per il mezzo non sappiamo rispondere, c’è quasi un vuoto di percezione.
Noi “stiamo” come stanno le nostre sensazioni ed emozioni, noi siamo le nostre stesse emozioni, esse sono caratterizzate da reazioni neuro fisiologiche potentissime, ma occulte e silenti, rappresentano la nostra intimità e raffinatezza. La sensibilità è il senso della nostra umanità, è saper leggere certe sottigliezze.
Abbiamo bisogno di imparare a scansionare di continuo le nostre reazioni veementi, discrete , silenziose emotive e percettive, per essere presenti all’interno della realtà in cui viviamo, per realizzare la massima consapevolezza di noi e del mondo che ci circonda.
Parliamo continuamente, in moto vorticoso, un linguaggio interiore silenzioso tutto da scoprire, al quale nessuna istituzione ci ha mai aperti o preparati, è dato per scontato, non si è creata la dovuta necessaria del conoscere se stessi a scuola.
A scuola studiamo da sempre gli oggetti del pensiero, la fisica la matematica, la letteratura ect, ect, ma non c’ è la materia “persona”, non è mai stata considerata un oggetto di studio il soggetto.
Conosciamo la giurisprudenza, la matematica, la medicina, la letteratura, ma noi no nella dimensione emotiva, dell’ anima, del pensiero sommerso, di tutti quegli atteggiamenti di affettività, di cattiveria che determinano le globali relazioni e le transazioni umane. Le relazioni umane e i loro interscambi risentono degli umori e delle emozioni soggettive.
Senza la conoscenza di noi, non saremmo abbastanza umani, saremmo solo dei puri tecnici, avremmo relazioni programmatiche e automatiche, materialistiche, superficiali, monotone, avremmo relazioni monologhe.
Spesso osserviamo un medico o un assistente sociale, un professore, privi di capacità relazionale umana ed empatia, un medico che cura il proprio paziente non può curarlo mantenendo le distanze da ciò che lo caratterizza, la sua natura umana.
L’ ipocondria e le malattie psicosomatiche infatti, hanno valenze emozionali e suggestive, come si potrebbe prescindere dall’ omettere le architetture emozionali ?
Leggere in noi significa leggere nel presente e nella nostra memoria.
Nella nostra genetica c’ è la storia di tutta l’umanità, abbiamo una catena elicoidale infinita di storie, in un filo invisibile di dna, conduttore generazionale. Esso ci collega alle radici della storia, essa è la catena trasportatrice, di memorie, di reazioni emotive, di paure, di vitalità, di atteggiamenti, sensazioni e comportamenti.
Nelle nostre generazioni ci sono i sintomi, le patologie, le funzionalità, depositate nei campi della nostra vita genetica. I terreni sui quali noi costruiamo, hanno radici neolitiche, paleontologiche e preistoriche.
Noi siamo la memoria del passato e contemporaneamente gli innovatori del divenire presente, siamo i depositari di una intelligenza storica e di un inconscio collettivo, siamo l’ acme dell’ evoluzione della specie e nella nostra specie e siamo passeggeri presenti col bagaglio del passato.
La congiunzione tra passato e presente avviene attraverso il concepimento, esso è il connubio della storia umana.
Curando noi, curiamo le nostre generazioni passate, e curando il nostro passato, ci curiamo nel presente. Noi stessi siamo gli evolutori del nostro futuro e delle generazioni in divenire. Conoscendoci e curandoci, facciamo dono delle nostre emancipazioni ai nostri figli e alle generazioni future, delle nostre conquiste. Il segreto dell’ evoluzione futura è nella cura e nella lettura di noi che ci emancipa.
giorgio burdi
ContinuaATTACCHI DI PANICO: Come crearli e come curarli
ATTACCHI DI PANICO
Come crearli e come curarli
Forse è passato poco tempo. Forse ne è passato tanto.
Comunque adesso, i ricordi, si sono presi lo strano diritto di richiamare loro sentimenti e sensazioni, fissandoli in improvvisi flashback.
A volte, mi dico di esser stato fortunato nell’aver vissuto l’epilogo del mio matrimonio, da accatastato, come uno dei tanti pacchi di quel trasloco improvviso.
Si andava di fretta e, ogni camera di casa era stata sollecitamente smontata e liberata. Solo in due ci contendevamo lo scomodo affitto: io e il mio cane. Ci eravamo scavati un unico posto vivibile, in soggiorno. Da mangiare, pizza o scatolette e come letto, un divano.
Non so quantificare con precisione, ma credo di esser rimasto lì, stranito, per ore. Io a guardare la tv e il cane a guardare me. Attorno a noi, solo cartoni imballati. Si doveva restituire tutto e subito e qualsiasi proprietà era stata divisa simmetricamente; in maniera precisa, come è proprio della foga del concludere.
Forse è stato anche questo ad aiutarmi a prendere distanza dalla ferita degli eventi. Ero un vagabondo, tra avanzi degli altri, in cerca di qualcosa di buono. Avere davanti ai piedi (e al cuore) quei pacchi, mi costringeva a trovare una mia strada, tra le macerie.
Era estate. Proprio quella stessa, venne definita dai sismologi, una delle più interessanti riguardo i movimenti tellurici. Dopo decenni, la media delle scosse (anche non umanamente percepite), aveva sfiorato i 40 episodi al giorno. Uno ogni mezz’ora. Dicevano che, in situazione di emergenza, il fenomeno sarebbe stato devastante sulla psiche degli sfollati.
Poco dopo, le zone di Amatrice, Accumuli, Pescara del Tronto lo avrebbero confermato. Squadre di psicologi erano stati mandati a presidiare gli accampamenti degli sfollati, perché proprio durante le scosse di assestamento, i sintomi del panico, andavano a interessare quasi tutti gli ospiti delle tendopoli. Il terremoto aveva abbattuto le case, i muri, perfino la stessa concezione di rifugio, dato che non c’erano più luoghi sicuri, dove, appunto “re-fuggire”, terminare la corsa innescata dalla paura.
E’ questo il panico: trovarsi in mezzo ad una libertà assoluta e non saperla gestire. Un respiro più ampio che toglie il respiro, un battito più veloce che confonde il cuore, una realtà improvvisa e inaspettata, così ridondante, da sembrare irreale. Chi è attraversato dal DAP, generalmente conosce un bivio: o cercare di fuggire dall’evento traumatico (“meglio andar via di qui”) o rimanere, aggrappandosi al passato e cercando il familiare in ciò che è rimasto (“ricostruiremo tutto com’era”). Insomma, o si tende all’ipocondria, assumendo farmaci per ogni starnuto o ci si attacca, in modo morboso, ad alcune figure di riferimento (genitori, amici, compagni).
Credo la psicoterapia, individuale o di gruppo, aiuti a ricollocare, il paziente in mezzo ai cartoni dei ricordi, alle macerie della disfatta, alla frattura del fallimento; presentandogli il presente, seppur problematico e caduco, come luogo preciso della guarigione, della remissione dell’accesso. Infatti, si può dire che l’appanicatoviva tutti i tempi verbali, tranne proprio, quello dell’oggi.
I suoi sintomi si confondono tra passato codificato (“non ce la faccio”; “non è per me”; “non sono capace”) e un futuro tragico (“sverrò”; “impazzirò”; “morirò”).
Rituffarsi nel presente, vuol dire pazientare. Aspettare che si sedimenti la polvere, per gustarsi il panorama della maturità e dell’indipendenza. Qualità oggettivamente non raggiungibili per induzione, ma che richiedono il personale coinvolgimento per risorgere dalle ceneri.
Da quell’estate sono trascorsi anni, a volte mi sembrano secoli. Onestamente non so dire dove io sia adesso; una cosa è certa: attorno a me non trovo più cartoni e macerie. C’è, forse, una casa più povera, più silenziosa, più piccola, ma quello che c’è dentro, so che è mio e solo mio.
Il mio cane continua a fissarmi. Lui è fortunato, perché i terremoti li annusa prima.
A noi uomini spetta passarci in mezzo, per diventare più grandi.
Luca
ContinuaIL PROBLEMA È LA SOLUZIONE: istruzioni d’uso per curare le ossessioni.
IL PROBLEMA È LA SOLUZIONE.
L’ abbandono e l’ atrofia emotiva, generatori di ossessioni.
Una macchina perfetta, ecco come mi si poteva definire fino a qualche mese fa: sul lavoro prestazioni sempre al top, successi professionali, riconoscimento sociale, apprezzamento e stima da parte di amici e colleghi, forte senso del dovere, dedizione e abnegazione verso ogni tipo di responsabilità.
Apparentemente tutto impeccabile e gratificante, il giusto merito per tanto sforzo profuso e per il grande investimento fatto nel lasciare la mia città di origine dopo la laurea in ingegneria (conseguita ovviamente con il massimo dei voti) per accettare il meritato lavoro in una società prestigiosa nel campo di applicazione dei miei studi.
Avevo nel tempo orientato la mia vita verso questa direzione, facendo affermare involontariamente e forse inconsapevolmente quella parte di me logica e razionale a discapito di quell’essenza emotiva e istintiva che, per propria natura, è imperfetta, autonoma, libera da schemi e pregiudizi sociali. E tutto questo andava bene, mi sentivo bene, fino a quando realizzo di avere un problema.
Succede tutto sei mesi fa.
L’incontro con il mio fidanzato storico, con l’amore della mia vita, con colui che in passato avevo creduto sarebbe stato il padre dei miei figli, a distanza di diversi anni dalla rottura del nostro rapporto mi ha fatto fare i conti con un bilancio di vita personale che evidentemente non era così perfetto come inconsapevolmente mi convincevo che fosse.
La nostra storia (probabilmente tutti lo pensano della propria) era speciale: ci eravamo cercati negli anni, prima nell’adolescenza e poi da ragazzi adulti, ritrovati e riscoperti sorprendentemente ed eccezionalmente uguali a condividere la stessa idea di vita, ma purtroppo ci eravamo ‘dati per scontati’ e così i micro-obiettivi professionali che ci eravamo prefissati, e per i quali avevamo temporaneamente deciso di stare lontani, nel tempo ci avevano allontanato sempre più dal macro-obiettivo di stare insieme per sempre, la mancanza di condivisione di una quotidianità vera vissuta e di una prospettiva di vita insieme ci aveva portato a ferirci, odiarci, non facendoci ritrovare più, tanto ci eravamo fatti prendere dalle nostre vite separate che contemplavano un noi solo come rapporto a distanza, un noi nel presente, un noi senza futuro.
Quando mi ha lasciato ho patito le più grandi sofferenze della mia vita, e lui non faceva altro che alimentare il forte senso di colpa che mi portavo dentro per essere stata, apparentemente, l’elemento scatenante di quella rottura.
…Ma la vita per fortuna continua, con il mio ottimismo, la mia energia e l’affetto delle persone a me più care sono riuscita ad andare avanti, costruendo peró, un pezzettino dopo l’altro, una corazza invisibile che mi rendeva orgogliosamente immune al dolore per amore…
Qualche contatto avuto poi nel tempo con lui ci aveva fatto riscoprire più maturi, senza rancori e con i bei ricordi del passato sempre vivi, sebbene ormai con percorsi di vita distanti e forse divergenti, ma con la convinzione comunque che la nostra fosse stata una storia speciale.
Ma torniamo al nostro incontro di sei mesi fa: dopo uno scambio di messaggi buttati lì quasi per gioco decidiamo di trascorrere un paio di giorni insieme, così, senza aspettative, in virtù del grande affetto che ci lega, ‘per stare un po’ di tempo insieme e vedere come va.’
Be’, il nostro incontro ha riaperto in me sofferenze e ferite talmente sommerse e represse che fanno molto più male di quelle del passato, mi ha gettato nello sconforto, dal momento che, dopo giorni idilliaci in cui lui ha cominciato a rievocare le meraviglie del nostro rapporto, fa retromarcia e matura la saggia convinzione che tra noi non ci potrà mai più essere niente.
Ed io, che ero davvero partita per quei giorni senza aspettative, con un ‘vediamo come va’, ci sono cascata appieno, sottovalutando le mie debolezze e bastando quindi poco a farmi credere che un ‘noi’ potesse ancora esserci.
E così avviene l’ennesimo distacco dall’uomo che più ho amato nella mia vita. Nei giorni seguenti sono stata fermamente trattenuta dal cercarlo perché avevo lucidamente realizzato che
“non avrei sopportato un ulteriore distacco. E la paura di questo distacco, di qualsiasi forma di distacco, da persone e oggetti”,
comincia da lì ad avvinghiarsi a me, fa a pugni con la mia razionalità, prende il controllo della mia vita.
E così me ne torno a casa, logorata e sofferente, senza aria, disperata, e nella mia testa prende forma la consapevolezza che, dopo tutti questi anni di sacrifici ricompensati da eccezionali traguardi professionali raggiunti, mi ritrovo in una città che non è la mia, senza aver costruito una famiglia, attualmente senza tempo libero perché ‘incastrata’ in un lavoro super impegnativo che ha reso fertile il terreno affinché la mia emotività uscisse da questa vicenda distrutta.
E così la corazza stratificata nel tempo a causa delle delusioni e sconfitte del passato si è sgretolata in un attimo come un vaso di terracotta che, scivolandoci dalle mani, arriva al contatto con il suolo, da dentro è spuntata fuori una bambina indifesa, spaventata, una me che ha terribilmente paura di restare sola.
E allora, sopraffatta e ossessionata delle emozioni che avevo congelato per quasi dieci anni, decido, contro ogni mia passata diffidenza, di rivolgermi ad uno specialista che mi aiuti a decifrare – proprio a me che sono così brava a fare tutto e a dare saggi consigli agli altri… – il labirinto emotivo all’interno del quale non mi riesco più a districare.
E così accetto l’idea di aver bisogno anch’io di aiuto, di aver bisogno di un ‘decoder’ in carne ed ossa (lo dico con la massima stima verso il complicatissimo lavoro che il dottore sta facendo) che mi sta supportando nell’interpretare le ansie e paure che mi tormentano, ma soprattutto mi sta incoraggiando a espormi ed aprirmi ai sentimenti, anche se il mio io più profondo vede il rischio intrinseco, vede la possibilità di ulteriori sofferenze e ha difficoltà a lasciarsi andare verso una dimensione che da anni non è più la sua.
Dal confronto con i ragazzi incontrati in terapia di gruppo (anche lì dopo una prima fase di diffidenza verso una condivisione dei propri problemi) inizio a vedere sciogliersi il mio distacco verso gli altri, il pensiero assurdo che i problemi si devono superare esclusivamente con le proprie forze, apprezzo la genuinità e trasparenza dei ragazzi, tutti esposti a presentarsi per come sono, a tendere la mano, a non giudicare, ad aiutare anche senza volerlo.
Sto scrivendo tanto e di getto e mi rendo conto di non aver ancora chiarito che il mio obiettivo di questo percorso non è più riavvicinarmi al mio ex: ormai, se magicamente tornasse da me come il principe delle favole, non sarebbe quello che voglio e non mi renderebbe felice.
Dal nostro incontro in fondo si è attivato un meccanismo che, sebbene ora mi faccia stare male, sebbene io l’abbia visto e definito come ‘problema’, mi sta aiutando a mettere in ordine un po’ di cose, soprattutto a comprendere l’importanza di essere me stessa e non quello che gli altri vogliono che io sia: magari mi scoprirò un po’ meno perfetta, ma sarò felice di essere consapevole di me.
Stavolta almeno é cambiata la prospettiva, ho capito veramente che devo guardare in un’altra direzione che sia concentrata e sincera su di me.
E soprattutto, grazie alla terapia, ho compreso che la sofferenza e la paura dell’ abbandono, i sentimenti e le emozioni tutte, mascherate attraverso le ossessioni, vale a dire ciò che sei mesi fa mi sembravano il problema, di fatto sono la via verso la soluzione: sono comunque le mie emozioni che, per fortuna, esistono ancora e che mi fanno capire che non sono un robot e che c’è ancora spazio per amare, gioire, rischiare, sbagliare, vivere essendo libera di essere me stessa.
Quando recupero il tempo per me, colgo e lascio esistere l’ affetto profondo o meno, quando accolgo il mio “sentire” silente, i sintomi ossessivi non esistono più, come se non fossero mai esistiti.
C.
ContinuaESSERE CIÒ CHE VOGLIONO
ESSERE CIÒ CHE VOGLIONO
Vita e relazioni senza veli.
Nasco e cresco da due genitori che hanno come principale fonte di gratificazione il proprio matrimonio e i propri figli, interpretati come protesi delle proprie mancanze e del proprio essere.
Per loro, l’ unica fonte di realizzazione dell’ essere uomo/donna è attraverso la metamorfosi in marito-padre/moglie-madre.
Il danno maggiore causato dalla mia famiglia “proletaria” è stato il proiettare sui propri figli le aspettative che i miei genitori sognavano per se stessi.
Raramente mi è stato chiesto e mai è stata presa in considerazione la risposta alle domande: Cosa desideri? Cosa ti piace? Cosa vorresti? Ero di loro.
Non ero una persona, ero un figlio.
Un dipendente, un sottomesso ai desideri, piaceri e volontà dei miei genitori.
Vivevo in una famiglia piuttosto isolata: i miei genitori avevano pochi amici e quei pochi condividevano le stesse politiche sociali. Non avendo altri esempi o figure di riferimento, i miei genitori erano riusciti nel processo di addomesticamento. Il mio vero se è stato stroncato sul nascere.
Ero il figlio che ogni genitore impreparato e insicuro sogna: disponibile, assertivo, empatico, studioso, anticipatore dei loro desideri. La mia priorità era assecondare le loro aspettative.
I problemi del figlio che non dava mai problemi, iniziano quando fui costretto a confrontarmi con uno spaccato del mondo reale: la scuola.
Il periodo scolastico fu pervaso da furiosi scontri in ambito familare, scolastico e amicale. Solo ora ho la consapevolezza di esserne stato io la causa. Io, come individuo inconsapevole, ho cercato e creato lo scontro perchè non riconoscevo le persone che mi circondavano come attori compatibili e approvabili a partecipare alla mia vita. Ero disorientato.
Il vivere in modo isolato, con pochi contatti con la realtà aveva creato in me un idea di mondo diversa da quella che era realmente.
Paragonando la società al mare, io ero convinto di vivere in un golfo, ma mi rendo conto che io fino ad allora avevo vissuto in un acquario.
Perse le mie scarse e precarie certezze, mi chiusi in un periodo di completo isolamento in cui ho tagliato fuori dalla mia vita chiunque e spesso anche me stesso. Nel periodo che ho dedicato alla riflessione (con gli strumenti che avevo a disposizione) ho riconsiderato quali sarebbero stati i miei nuovi untori di verità da idealizzare, ai quali sottomettermi:
i privilegiati del liceo che frequentavo.
Volevo essere uno di loro. Provenivano da famiglie benestanti, avevano bei vestiti, frequentavano bei luoghi, avevano sempre soldi in tasca, non pagavano le conseguenze dei loro errori.
Soprattutto “loro” avevano i propri genitori sempre dalla propria parte, i miei invece, avevano reverenza nei confronti di qualsivoglia autorità.
Avrei riciclato e rottamato senza titubanza i miei genitori arroganti ed impreparati con i loro che all’ apparenza risultavano perfetti. Iniziai con il mimetizzarmi tra i miei coetanei, nella speranza di essere integrato nel gruppo “loro”.
Le auto limitazioni alimentari per corrispondere ad uno dei “loro” comandamenti: magro uguale bello, si trasformano prima in digiuni e poi in abbuffate con rigurgito.
Il processo durò poco perchè semplicemente non ero uno di loro. Mi mancavano sia i soldi che i loro usi e costumi.
Avevo ancora una volta perso la mia identità.
Non ero una persona, ero ancora un figlio. Figlio non più dei miei genitori ma di una ideologia alla quale così come i miei genitori, anche a lei non importava nulla di cosa desiderassi, cosa mi piacesse, cosa volessi.
Ero dipendente dalla dipendenza: imprigionato nella coazione a ripetere:
Scuola, lavoro, relazioni, amicizie, ho cercato e/o creato i presupposti perchè qualcun altro mi desse le linee guida da seguire per essere un bravo dipendente.
Questo circuito è andato in corto quando non ho più avuto qualcuno o qualcosa che mi desse la possibilità di essere un bravo dipendente.
A questo punto ho deciso di rivolgermi allo psicoterapeuta Burdi che mi ha consigliato la terapia di gruppo.
Entrare in una terapia di gruppo è come entrare in una nuova realtà. Quella autentica.
Questo debutto in questa nuova realtà è stato contraddistinto dalla variazione delle mie priorità.
Il primato detenuto dalla conformazione ha ceduto il posto all’ autodeterminazione.
I membri cercano di raccontarsi per quello che sono. Senza maschere, senza patinature, senza veli.
Nella realtà social fatta di filtri instagram e Photoshop, confrontarsi con l’ autentico è raro.
Durante questo percorso ho avuto la possibilità di capire e scoprire i pensieri ed il modo vero di essere e di pensare dei miei “compagni di viaggio”.
Generalmente i sintomi del malessere sono differenti ma le cause sono comuni ai membri del gruppo: essere stati velati. Nel momento in cui si da un consiglio al prossimo su come curare il proprio sintomo, lo si sta dando a se stesso.
Questo percorso mi ha portato alla consapevolezza che non sono più un figlio, sono una persona.
guido
ContinuaLA TERAPIA MORDI E FUGGI
LA TERAPIA MORDI E FUGGI.
Curarsi fai da te, senza impegno
Vi racconto un episodio: l’altro giorno ero in pasticceria, una signora continuava a non rispondere al ragazzo che la pressava perché ordinasse.
Niente, nessuna risposta, era ipnotizzata da un tutorial: “Come farsi le torte a casa e non andare più in pasticceria”. Scherzi a parte, comprendiamo tutti che stiamo cadendo nel ridicolo.
C’è un tutorial per ogni cosa: come pettinare il gatto, togliere un chiodo, come suonare la chitarra elettrica senza corrente, come auto concepirsi, come farsi un figlio in provetta, allungarsi il fallo, come catturare un ratto o operarsi d’ appendicite e seppellirsi da soli, praticamente come bastare a se stessi, come farsi un tutorial e via discorrendo. Non c’è più studio che tenga, ci sono i tutorial per curarsi. Youtube e Dr. Google sono la nuova “specialistica” .
I nativi digitali non me ne vorranno, non voglio togliere nulla a questo originale modo di apprendere, ma sono convinto che il tutorial: “come vivere senza problemi” non lo posterà nessuno.
I problemi vanno affrontati, nell’immediato, perché affinano in noi, quell’esperienza necessaria per non rincontrarli. Qualche anno fa, divenne famosa, in Ucraina, una sorta di terapia d’urto che prometteva soluzioni, quasi miracolose, per le nevrosi di ogni genere.
Consisteva nel seppellire i pazienti, per qualche ora, in una cassa, sotto pochi metri di terra. I risultati erano a portata di mano! La paura della morte scacciava via quella della vita!
Nessuno, però, dopo, ci ha informato della durata dei risultati. Non sempre la terapia d’urto è totalmente risolutiva, moltissimi pazienti, dopo qualche tempo ripresentano sintomi uguali alla patologia di partenza, peggioravano o ne elaborano un’altra con diversi esordi, con una simile eziologia.
La psicologia psicoanalitica, fin dai suoi esordi, si è proposta come un “cammino”, un accompagnamento del soggetto dentro e verso se stesso, perché in esso, come diceva Pontalis (Finestre 2002): “torni il gusto di vivere e le cose trovino il proprio sapore, perché sull’ostilità, sul rifiuto predomini almeno ciò che un pittore innamorato dei colori chiamava cordialità per il reale”.
Una terapia, insomma, che generi un urto nella vita di chi vi si sottopone. Un urto continuo che lo spinga a spostarsi dal suo personale e avvilente status-quo.
Corpo contundente, in questo caso, diviene la “parola”. Un mosto che continuerà a fermentare nell’animo, anche a seduta terminata. Un dialogo avviato in seduta che non è possibile interrompere e che ci segue dappertutto, in ogni situazione e scava, rivanga, rimescola il terreno delle nostre ansie, e rintraccia le cause, dissotterrando tutto quello che può essere utile alla nostra risoluzione.
luca
ContinuaSano egoismo
Il Sano Egoismo. Se ti prendi più tempo, ti rispettano.
Nella vita mi hanno insegnato ad essere “buona” “brava”, “bella” e “gentile” e per far ciò spesso ho dovuto mettere in secondo piano me stessa.
Non mi hanno mai detto pensa prima a te, ascolta il tuo animo per capire cosa ti rende felice, vivi in funzione di te stessa per piacerti, metti in primo piano i tuoi bisogni e le tue necessità, persegui ad ogni costo il tuo benessere che ti da’ serenità e ti aiuta a crescere.
A volte solo essendo fedeli a se stessi si può raggiungere quell’arduo obbiettivo che è l’equilibrio.
Il percorso è tutt’altro che semplice… perché volersi bene è così difficile? Forse perché ci si scontra con l’essere bravi, buoni, gentili e belli per gli altri?
Un giorno mi sono fermata, ho provato a dare ascolto a me stessa ed ho deciso: ora voglio vivere a colori !!
La mia felicità non renderà infelice qualcun altro .. pazienza, la mia allegria rattristerà qualcuno… troverò la forza per andare avanti, il mio entusiasmo creerà invidie e gelosie … me ne farò una ragione!!! Io, o come sempre gli altri ?
La mia libertà ha sempre determinato il dissenso e la prigionia altrui.
E così ho intrapreso il percorso di psicoterapia verso il mio “sano egoismo”, non è semplice, cado e poi mi rialzo e poi cado di nuovo, ma riesco ad alzarmi, ce la faccio ed ogni volta è meglio della precedente, mi sperimento che ci sono e funziona.
D’altra parte “ego” dal greco significa, “io esisto”, volersi bene, e non è un reato, ma un dovere nei propri confronti.
Gli altri prendono da me tanto più quanto io do a me stessa il mio tempo.
Uno che da soltanto, prima o poi si esaurisce, si consuma per l’altro è rischia di non essere più considerata. Se mi penso, mi carico di energie, e il mondo intorno, messo al secondo posto, ottiene di più da me, e riconoscendomi, mi rispetta.
Certo non ho ancora raggiunto tutti i colori dell’arcobaleno però ho una certezza: vorrei, anzi, voglio una vita piena e degna di essere vissuta nel rispetto degli altri ma prima di tutto nel rispetto di me stessa.
Aurora
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