IL DOVERE È MALATTIA
IL DOVERE È MALATTIA
Se la vita fosse questo fiore, apprezzeremmo ciò che ci rimanda nell’immediatezza, la sua bellezza, la sua luminosità, il suo colore cangiante, il suo profumo, il suo piacere, non il dovere di esistere.
Il dovere automatizza, genera autoctoni, automi, robotizza, softwarizza, è la negazione e la negoziazione del sé, della logica, se diventa stereotipia dell’ intelligenza; chiede a tutti lo stesso rigore, il dovere livella, sacrifica se stessi all’ altrui vantaggio, vive per tutti della stessa autorità, fa defluire nello stesso ovile, fa della creatività il suo falsificatore, mette in riga, fa tabula rasa delle fantasie, il dovere non sogna e non fantastica mai, taglia ogni forma di autonoma prospettiva.
Prima il dovere, dopo il piacere. Non c’è espressione più angusta ed ipocrita di questa affermazione, molto apprezzata nel periodo post bellico, in cui bisognava rimboccarsi le maniche per ricostruire lo scempio operato dalla follia della seconda guerra mondiale. Il dovere è una filosofia largamente divulgata, è un modo comune di pensare, di dire, un modo di fare solito, un atteggiamento cronicizzato di soffrire la vita. Nel dovere ti domandi sempre il perché, e se lo agisci, lo assecondi fintanto che resisti, e se lo fai fino all’ estremo, ti consumi e ti ammali, ti accorcia la vita.
Se prima viene il dovere, si parte al peggio, viene prima la fatica, il sacrificio, la croce, lo strazio, il logoramento, la stanchezza, la coercizione, non la motivazione e l’ entusiasmo, è una impostazione para educativa, la stessa scuola è stata improntata su questo modello arcaico; il dovere è un modo di essere che consoli la tradizione, un altare della patria, un campo santo che tragitta il gregge, intere generazioni in condizioni disumane, il dovere immola, inchioda su rigidità frigide ed istrioniche.
Il dovere è un comandante autoritario di un esercito senza arruolati, impartisce, crea obbedienti, non riflette, esegue, massifica, ha il dito puntato e impartisce il modo di agire, non devi pensare, verso l’ alienazione di sé. Il dovere fa ciò che i padri, i nonni, i bisnonni e la guerra hanno sempre fatto e deciso; crea una flotta di esecutori cecchini che, con l’ alibi del dovere, compiono crimini di guerra a loro giustificati, oppure orienta verso la buona condotta compiaciuta. Chi vive per il dovere, non vive della sua coscienza, ma di quella di chi non sa o anche di quella che giustifica il crimine.
Il dovere è un Boy Scout, un bravo ragazzone di una canonica fuori tempo e fuori mano, l’ uomo del dovere è cavallo e cavaliere della patria, ma è anche una persona nobile d’ animo che difende i valori e di grande dignità, di contro è anche un uomo d’ onore che ha i principi di un mafioso nascosto nel dovere, della buona e della cattiva condotta, è ambiguo, perché la pazzia è obbedire, frustrato, contro i suoi principi.
Il dovere è l’ oppio dei popoli, non esattamente la religione, anzi il dovere è una vera e propria religione, perché sincretico, criptico, assolutista, è una corrente di fanatismo. I fanatici del dovere e il movimento dei fanatici del dovere si pongono come una vera e propria istituzione e sono imperniati e ruotano su questo fantasma istituzionale.
L’ uomo del dovere è un uomo dispiaciuto, triste, accondiscendente, proiettato al servizio, possiede l’allarme rosso del senso di colpa, immolato verso la disponibilità, non si sa per quale valore o medaglia al merito, è alla ricerca di un misero consenso sociale, contro quel pensiero sovversivo del piacere, tentatore o peccatore.
Ma quale peccato ci sarebbe, laurearsi per il piacere di studiare o per una sete di conoscenza. Come nella “genesi” il desiderio di conoscere è già causa del peccato originale . I figli andrebbero messi al mondo per il dovere di procreare o per il piacere di amarli ? L’ amore e tutt’altro che dovere.
Una vita di doveri, diventa una vita di obblighi, impegni e responsabilità continue. Essi rappresentano la negazione dell’ affettività, generano anafettività; l’ anafettivo usa l’ alibi del dovere per giustificare la sua incapacità a manifestarsi emotivamente, esordisce dicendo ” ti voglio bene con i fatti, a cosa servono le parole d’ affetto ” ?
Il dovere è un manufatto, un artefatto preconfezionato, un surrogato di presenza. Il soggetto del dovere, è tecnico e distaccato, è un medico disumano, un ingegnere calcolaore, un esattore bancario, è freddo, ossessivo, perfezionista, un rompi cazzo normativo, ha solo in testa le regole da rispettare e se esce fuori dal seminato, si ammala, soffre per affetto mancato ed è per questo che non è in grado di prenderlo ne di darlo perché non ha conosciuto compassione, comprensione ed empatia.
Il discente che studia per dovere, distrugge il suo impegno, sbaglia tutto, scoppiato, molla a due passi dalla laurea, mentre scarabocchia disegni, le sue vere aspirazioni, a svantaggio del piacere. A volte le nostre distrazioni sono le vere nostre vocazioni, sono le vere strade negate dal dovere.
La donna che per bramosia anela alla sua maternità, concepisce la sua attitudine, poi lamenta il mutuo del suo dovere per tutta la vita. Dovrà rinunciare totalmente a se per i suoi pargoli, se diverranno il solo suo vero senso della vita e per questo li rovinerà per soffocamento.
Il dovere coniugale, come lo vogliamo chiamare ? Contratto d’ altare, abitudine a stare insieme, senza diritto all’ individualità, all’ autonomia ? Sarebbe una sottomissione, come un vero e proprio debito da pagare, o un mutuo di unione, o solo un obbligo. Cosa cambia, in tale prospettiva, rispetto alla molestia, o alla violenza domestica ?
Il dovere coniugale è la giustificazione perfetta alla paura di dialogare e di porsi nella verità. Il dovere è chiusura verso la sufficienza, rimangono solo ruoli, incastrati nella incapacità di mettersi in discussione.
Coloro che vivono di soli doveri e posseggono tali difficoltà, dovrebbero allora davvero avere il dovere verso se stessi di mettersi in analisi, un’ analisi che non sceglierebbero mai, perché riconoscono solo negli altri l’ errore e per questo, auto condannati alla propria eterna solitudine.
Se la vita fosse questo fiore, apprezzeremmo ciò che ci rimanda nell’immediatezza, la sua bellezza, la sua luminosità, il suo colore cangiante, il suo profumo, il suo piacere, non il dovere di esistere.
giorgio burdi
ContinuaLa Saccenza della Sofferenza e l’ Arroganza della Diffidenza.
LA SACCENZA DELLA SOFFERENZA
e l’ Arroganza della Diffidenza
Colui che soffre è comprensibilmente afflitto, al limite di ogni forza, rassegnato, flaccido, sfiduciato,scontroso, insopportabile, al limite del pianto, dei suoi singhiozzi, e delle sue disperazioni,
si rompe, si spacca, è fragile, infastidito, insofferente, è ricotta, coatto, ossessionato, vive al limite e nel peggio della propria condizione, per lui non c’è soluzione, tutto è divenuto complesso, non c’è parola, presenza che tenga per comprenderlo, per poterlo aiutare o che lo scuotino, è molto critico e la sua sofferenza è tale che diventi complesso poter contattare chiunque.
Egli è visibilmente provato, lo incontri sempre a fine corsa, al capolinea, ti dice che questa è la mia ultima change, e ti chiede,senza alcun suo impegno, quanto tempo ci vorrà, giunge dopo aver caricato il suo ultimo tir di problemi, al limite di ogni sforzo, indeciso se andarsene o rimanere, è alle corde, è teso e tanto fragile da rompersi, acuto o cronicizzato, è un funambolo, barcollante sulla corda della vita, cammina in ginocchio sul cilicio, al confine con la fossa, non curante, ti chiede quanto costi, piu che alla vita oensa sempre alla tariffa, pensa sempre di farcela, anche se striscia, è sfregiato dall’ ansia e le sue ganasce dal brussismo, si ricirda di se al limite, non conosce prevenzione, procrastina con l’ acqua alla gola, giunge in apnea, perché le persone che soffrono, si concepiscono come nate per soffrire, si lasciano andare al limite di ogni umana sopportazione, e pur di non sentirsi matti, non chiedono mai aiuto, anche se sono ad un passo dalla benedizione.
Abbonati al 118, si trascurano fino all’ indrcenza, critici fino al limite della diffidenza, senpre auto convinti che non serve e non funziona nulla, diventano veggenti, predomina l’ arroganza e il pregiudizio che la loro esistenza sarà sempre con un altro fallimento; collaborano poco e sabotano l’ aiuto, per rincorrere confermare quel timore tanto temuto , per dimostrare che in fondo avevano ragione, ma sono i veri artefici del loro stesso destino,determinato dalla loro sofferta e construita arroganza.
Se entrano in analisi, ti aspettano al varco, cavillosi, puntigliosi, caotici con se stessi, ma precisini ,solo con gli altri , sono alla continua ricerca di un tuo difetto, per cercare qualsiasi alibi, per convalidare il loro diritto all’ auspicata fuga. Se, nel tentativo di aiutarli, tocchi il loro dolore e se peggio gli indichi la causa, ti punta il dito, ti accusa che gli hai fatto male ed ora la colpa del loro dolore è tutta tua.
Ma alle volte nel loro caos, la matassa da sbrogliare non c’è, il vero problema è il loro non problema; giungono già colti, edotti, preventivamente già consultati con i ministeri di chat gpt, instagram e dr google e il vero problema è che non sei uno specialista perchè non sei un avatar e pertanto, se hanno letto, tu non hai piu di loro competenze.
Il dolore e la sofferenza di un uomo in preda alla sua disperazione, lo rende statico, bradipo, insostenibile e ingestibile rispetto a se stesso e a chi gli gravita attorno. Non riconosce l’opportunità del cambiamento, è convinto che non ci sarà mai nulla di buono ed in grado di poter cambiare la sua condizione per lui insostituibile.
Non c’è essere umano in grado di ritenere sostenibile qualsiasi propria sofferenza continuativa ed acuta, che non sia la sofferenza degli altri. Le sofferenze altrui hanno sempre un minor valore rispetto alle proprie.
Il saccente è spesso convinto che il suo problema dipenda da una questione di carattere o di destino, che abbia delle forze oscure esoteriche o della natura o che ci sia il possesso di un demone nel suo inconscio, che non in grado di dominare e domare.
Per contro si lamenta, si dispera, supplica e piange, chiede aiuto e caccia via tutti come degli inetto con le mani tra i capelli, non esiste persona o professionista capace, onesto, che diventi un incompetente ed impotente, opportunista, economista, capitalista, speculatore sulle malattie. Chi soffre si lamenta, rifiuta ogni sorta di aiuto se non tocca il fondo. Chi soffre è difficile da trattare, devi davvero essere un equilibrista, che per tirarlo fuori, se non collabora, ti tira dentro la sua fossa.
La lamentela di chi soffre, alle volte diviene così prepotente ed insistente, ansimante ed asfissiante, che appare tutt’ altro che debolezza: la lamentela alle volte rende tanto, è l’ unica potenza del dolore, perchè è accentratrice di presenze.
L’ arroganza della diffidenza si evince nella tendenza alla facile squalifica professionale e all’ interno della presunzione dell’ impossibilità di esercitare ogni forma di aiuto e di cura, in tal senso qualsiasi dolore è presuntuoso.
L’ arrogante della sofferenza si rivela gia mentre si fissa il primo appuntamento. Da fastidio, vuole l, orario ideale, manipolativo che ti costringe e ti porta sui suoi impegni e magari in seduta non si presenta. È una sconfitta pre annunciata che rende prepotente e presuntuoso il dolore che acceca la persona sofferente.
Chi depone le armi, i remi in barca, chi si fa mettere in ginocchio, strisciare o continuare a lasciarsi calpestare o farsi sputare in faccia,
Nutrirà una scarsa fiducia negli altri, sara propenso al fai da te, all’ arroganza nel non credere in nessuno, nemneno nel fidarsi ed affidarsi professionista.
Passa da una arroganza subita ad una agita, la saccenza è aver imparato a fidarsi solo di se stesso anche nel periodo delle vacche magre.
La sofferenza o fa riflettere o rende flaccidi disumani, increduli e cattivi, diffidenti, esclusivisti, narcisisti patologici, esclusionisti, presuntuosi, colti della propria boria , del proprio pathos, la saccenza di chi non potrà mai star bene o essere compreso o mai aiutato, che non conoscerà mai la salute, perché il dolore crogiola, coccola e paradossalmente diviene casa ecunica condizione di vita che rende sufficienti e colti, eruditi sui Bignami delle proprie convinzioni.
Con il proprio dolore si è talmente così protetti all’ interno di un carcere che è, capace di rendere il mondo impotente.
Ida Bauer afferma: “se la sofferenza vi ha reso cattivi, l’ avete sprecata”. La sofferenza può essere curata o diviene cattiveria e presunzione se si afferma la sua non curabilità.
Chi soffre, per urgenza, fa pressing per ottenere un appuntamento, cerca la stanza dei miracoli, ma quando realizza che per aiutarlo devi attentamente osservarlo e studiarlo, perde l’ illusione del miracolo e perdi il ruolo di primario della magica clinica dalle 100 recensioni e se lasci intendere che alla sfera di cristallo dovrai sostituire la sua testa come sfera, decade la sua aspettatuva la tua stima, si fa cerca un pieno di imprevisti, annulla le visite, ma si ripresenta poi per ripetuti codice rosso..
E se l’ addolorata teme che la cura possa diventare dipendenza, la interrompe al nascere omettendo quanto dipendente sia già stato dai propri ventennali sintomi. Non c’è cura che possa mai essere efficace, se non vien fatta con continuità e magaari per una breve e momentanea dipendenza. Un arrogante ludopatico, dopo aver delapidato i suoi beni di circa cinque milioni di auro, chiede in prima seduta un preventivo di spesa per la cura della sua malattia.
E la domanda più affascinante di un paziente è quella che chiede se la prima visita è gratuita, essendo secondo il suo criterio, “solo di conoscenza”, rendendo suo,come un diritto acquisito, il tuo tempo. Questa è la saccenza della sofferenza. Non si è mai sentito chiedere ad un cardiologo se la sua prima visita fosse gratuita. È vero che se fai il lavoro che è la tua passione, non lavorerai un giorno, pertanto che senso avrebbe pagare.
Ognuno cerca il piu bravo professionista, che abbia un curriculum esteso, il più referenziato, il migliore recensito, con la massima esperienza, ma la presunzione del dolore lo porta ad affermare, che 1 € è tanto per un ora di consulenza, ma oltte alla competenza, un ora di vita quanto vale, avrebbe un valore inestimabile ?
Per aiutare un uomo e risolvere un suo problema serve la chiamata, la vocazione, la passione, l’attitudine, l’ umanità, la dedizione e l’ estenuante curiosità del ricercatore, serve la pazienza e la collaborazione di un paziente che si renda paziente, per ripercorrere insieme in modo del tutto complice, empatico e collaborativo, la strada e la risalita verso la sua liberazione.
giorgio burdi
ContinuaL’ AMORE NON BASTA
L’ amore non basta.
Prospettive per attenuare il rischio.
Di chi è colpa quando le storie amorose declinano? Una continua replica di un interrogativo: “chi lo avrebbe mai detto?”, ”cosa non ha funzionato?”, “perché?”
Questo tipo di domande svelano l’ inganno : si ama l’amore o la persona, il desiderio irresistibile dell’ abito bianco? si ama il dipinto o l’ autore? il regalo o chi lo dona ? il regista o il protagonista? emoziona di più una fiction o una storia live ? Si preferisce zoom o un abbraccio, i pixel o la pelle? Fondamentalmente si ama la persona o la percezione di essa?
In realtà pensiamo di vedere, ma sappiamo molto poco dell ‘ altro quando di un amore resta, solo il fallimento, un pugno di zanzare, quando restano le urla o le mani tra i capelli o il desiderio di fuga, o quando lui non c’è, se esce mi sento libero.
Un amore passa attraverso la conoscenza attiva e obiettiva, dedita per incanto all’ altro, non passa attraverso un fulmine a ciel sereno. Diffidare dei colpi di fulmine se non si desidera un fulmine deflagratorio dentro casa o una grandinata di sassi di ghiaccio sulla propria auto fiammante.
Ognuno inevitabilmente, ovviando dalla propria consapevolezza, si innamora di ciò che ha bisogno in quel particolare e determinato periodo della propria vita.
“l’amore che strappa i capelli è perduto ormai”, recita De Andre, perché se c’è lo strazio, c’è già la perdita, perdita di una convinzione, disillusa, probabilmente di non aver mai conosciuto quella persona.
Chi è ? quella persona, ora insopportabile, ma allora amata follemente e condotta all’ altare ?
Un me, proiettato . In certi momenti di poca obiettività della nostra vita è molto difficile distinguere noi, le nostre concentrazioni, dagli altri, noi vediamo noi stessi, difficilmente chi ci gira attorno, vediamo i nostri desideri come sentiamo da soli i nostri dolori. Bisogni proiettati, direbbe Freud parlando dell, amore.
Quando c’è un fallimento, si è amato un amore invisibile, visionario, inesistente, dove di esistente c’era solo il proprio bisogno, si ama una idea, l’ isola che non c’è, un appagamento momentaneo un amore a tempo determinato, ma non sarebbe potuto essere altro se non quel delirio, fumo in un banco di nebbia, e non l’amato visibile, l’ amato visibile diviene un incubo.
Quante separazioni per incompatibilità di carattere; come mai? Inizialmente erano compatibilissimi da credere di condividere la propria esistenza assieme, ma poi, estranei nella migliore condizione possibile, o nemici nel peggiore dei modi?
L’ amore è cieco, ma l’amore invece per essere tale deve essere veduto, nel pelo nell’ uovo, nelle fessure dell’ anima, fra le dita dei piedi, non solo tra il rimmel e il mascara, ma osservato nei dettagli, negli spiragli di luce abbagliante, guardato minuziosamente, nelle crepe del buio dell’ anima . Nulla viene lasciato al caso durante la festa, ma viene del tutto trascurato il festeggiato da tenere nel letto.
Osservare, un tono di voce feroce,una spinta, una spina in gola, un boccone che non va giù, un blocco intestinale, l’ angoscia nel petto o una dissenteria, in un approccio misogino o misantropo, o subire la discreta violenza di un’ assenza persecutoria reiterata e coercitiva, con la sua aggressività passiva, latente o manifesta che si voglia, sono tutti dati di fatto di ciò che superficialmente viene trascurato e che il tempo, se non curate, li restituirà poi come delle metastasi.
Mancanze sorvolate per anni, portate al confine dei limiti, si riveleranno in patologie, dolori come delle slavine e caduta a pezzi del corpo come dei massi in una strada dissestata.
Le scoperte di oggi sono i sentori di ieri. Quanto sarebbe importante poter ascoltare i sentori. La disillusione di un sogno per sgamare in un incubo .
Per questo l’ amore è cieco, perché pericolosamente l’amore ama e vede sé stesso e la sola voglia di essere contraccambiato; è drogato dal bisogno, con rispettive crisi d’astinenza. Qui, rispetto alle droghe, è il contrario: tanta più assenza di sostanza affettiva si riceve dalla famiglia, più il pericolo di sbagliare la sostanza partner è incombente.
Molto spesso si afferma, “sono pronto per amare”, per “mettere su famiglia” , ma pronto di che, se la maturità d’ amare deve essere fondata sulla consapevolezza e non sulla pressione del bisogno e della proiezione. Se l’ amore resta la meta a prescindere e non un mezzo, è l’ annuncio di un fallimento in partenza.
Innanzitutto l intimità non si costruisce a letto. La freccia rossa del letto confonde l’idea di intimità.
Il letto, convince che l’intimità è già di casa anche lì dove non c’è alcuna parola condivisa. Chi va a letto e non parla o dialoga, attiva un amore sordo muto. Bisogna essere profondi prima di sprofondare nel sesso, così come i conflitti non si possono risolvere a letto, li si complicano con un altro eventuale terzo che verrà trattato come incomodo.
Non può esserci intimità senza il desiderio di parlarsi sempre, più di qualsiasi altra cosa importante al mondo.
il cuore batte in una convivenza, ma è un battito solo fisiologico; l’amore non basta se non c’è PAROLA, se non c’è parola, diviene agenzia di servizio, ditta appoggio, attaccamento, abitudine, dipendenza o sex addiction.
“ L’ amore non basta. Ma leggendo queste parole sarebbe lecito pensare che questa affermazione è un ossimoro.
Se due persone sono realmente innamorate non c’è ostacolo realmente insuperabile.
D’altronde chi di noi non ha detto almeno una volta nella vita che “l’Amore vince sempre”? Ma la verità è che l’Amore non basta!
La felicità è un bellissimo arcobaleno e l’Amore è uno dei colori che lo compone.
Seppure il più affascinante, da solo, suo malgrado, rimarrà sempre e solo un bellissimo colore.
Il problema è che un colore così famelico, forte e ambizioso al tal punto che da solo ambisce alla potenza di un arcobaleno, con il passare del tempo, può deteriorarsi perché uno sforzo oltre le proprie capacità è possibile, ma questo molto spesso ha un prezzo molto alto da pagare per chi lo sostiene.
Se non affiancato e sorretto dagli altri colori, quindi, il triste destino di questo colore ambizioso, forte e affascinante sarà quello dei salmoni che muoiono dopo lo sforzo compiuto nella migrazione per la deposizione delle proprie uova. Sbiadirà giorno dopo giorno fino a diventare un pallido grigio. “ ( Valerio ) .
Amore è la promozione e lo stupor per l’ altro, il fascino ammagliante del dialogo continuo, è parola verbale, è parola extra verbale condivisa, è restare senza maschera, è il desiderio di avere e condividere passioni, di parlare sempre e tacere mai.
giorgio burdi
ContinuaDESIDERO ERGO SUM
Desidero Ergo Sum
Il Motore della Vita
Tanto di rispetto per Cartesio, ma le scienze di oggi sono molto lontane dalle sue elaborazioni filosofiche, dai suoi famosi aforismi e dalla sua nascita avvenuta nel lontano 31 marzo 1596.
Di lui, non esiste definizione più discutibile come quella di “ Cogito Ergo Sum “, penso dunque sono. Facciamo molta attenzione a quando pensiamo, a cosa pensiamo ? Domanda retorica, pensiamo ai problemi. Quando siamo pensierosi siamo prevalentemente in uno stato preoccupazionale.
“ Desidero Ergo Sum “ , “ Desidero, Dunque Sono “ . Questa è l’ affermazione più rappresentativa di una persona, ovvero, cosa altro avremmo di fondamentale, se non il nostro vettore motivazionale presente nei nostri desideri ?
È il desiderio che incanta e accende la vitalità, esso porta all’ attenzione l’ essenza di se, la vera spinta ad esistere.
Il Desiderio è un vero e proprio propulsore di vitalità, sollecita la mente che la fa sussultare attraverso la pelle. Il desiderio sovrasta la paura, il piacere è il vaccino della paura. Questa è la legge della mente.
Il desiderio Sollecita la ricerca, ostina il biologo, lo psicoterapeuta, il matematico ad osservare i fenomeni e a ricercare in essi il nuovo, a dare voce all’ ignoto e alle mancanze, avide di essere comprese.
Un desiderio anima la fantasia, sollecita condivisione, diventa causa ed effetto di un’incontenibile estasi tra ignoto e conosciuto. Qualsiasi forma di ignoto eccita una ricerca.
La stessa sregolatezza è tutto ciò che non sta affatto bene agli altri. Essa è l’evidenza di una diversità sconcertante. Abilitarsi allo sconcerto rende strong e maturi. È il desiderio che delinea il confine tra noi e gli altri. I nostri desideri rappresentano i peggiori disappunti, la distanza e l’ esplosione della polemica per gli altri.
Un desiderio impetuoso, trova nella seduzione la sua massima espressione, attraverso quelle emozioni i involontarie che fanno vibrare i sensi, esse sono talmente veementi e prepotenti che allo stesso tempo mostrano la nostra più intima fragilità, perché rivelatrici di bisogni.
Il desiderio è la motrice che risolleva dall’ordinario, è il pacco regalo delle novità, è la sorpresa nel cilindro che regala lo stupor, è fibrillazione adrenalinica, slancio, passione, vita e vita ancora.
Il desiderio è cavernivolo, ma la sua consapevolezza lo rende elevato ed illuminato tanto da saperlo gestire, chi non riesce a codificarlo, non lo sa gestire, lo subisce e ne resta predominato come fosse una malattia.
Il Desiderio è allo stesso tempo tormento e piacere, auspica al godimento. Più si è tormentati, più si ha un appetito smisurato di desideri.
Il tormento passa in assenza di desideri.Quando i desideri si fanno smisurati, spaventano e diventano tormento.
Non ci sarebbe la propensione al piacere, se ci fosse la sua assenza o la sua scomparsa.
Tutto ciò che dà piacere lega e genera dipendenza perché ricercatrice di presenza, di complicità, ma lega e dà dipendenza anche ciò che frustra e genera dolore, nel tentativo di ricevere amore.
In tale dinamica, esiste una smania insopportabile attraverso pretese non giustificate per catturare e rendere l’ altro preda ed oggetto del proprio piacere e nello stesso tempo proprio tormento.
Quando l’ oggetto del piacere c’è, risulta essere seduttivo, quando si ecclissa diviene solitudine, vuoto. Ma il desiderio può e deve prescindere dall’ altro. Quando il desiderio prescinde dall’ altro, viene raggiunta l’ autonomia perché raggiunge l’apice dello star bene e del desiderio di sé.
Chi alimenta il desiderio continuo dell’ altro, si allontana da se, alimenta il suo decentramento , ma, allo stesso tempo, il desiderio di sé, come amore e auto realizzazione di se, promuove una relazione esaltante.
La convinzione che noi siamo i desideri che proviamo, ci permette di apprezzarci, di osservare la meraviglia che diamo, questo ci cambia lo stile e la prospettiva di vita, aumenta l’ autostima e ci rende meno avvezzi alle malattie e ai sensi di colpa.
Passare dal mood del pensare e del dover essere, verso il desiderio,
conduce ad una sofferta libera emancipazione da una arretratezza cavernicola, da quel modo popolare di pensare stereotipato, da tutti coloro che inconsapevoli di quale prigionia mentale li attanagli, vorrebbero riproporci, come un mantra,lo stesso identico pensiero reiterato, comune della società della caverna, come critica del desiderio puro, per riproporci inesorabilmente, come magia delle ossessioni, le stesse grate degli obblighi e degli arresti.
Si palesa un continuo confronto e conflitto sociale tra il pensiero della caverna e il desiderio come prospettiva emancipata, come se quest’ultimo fosse una minaccia verso il disordine, un demone della perdizione dal quale difendersi.
Questo conflitto si pone come un tentativo di recupero alle funzioni oscurantiste precedenti, nel tentativo di indurre a quel perpetuo familiare senso di colpa di vivere un se auto rinnegato, assente, privato dei piaceri, a svantaggio del demone desiderio.
I desideri repressi del quotidiano creano una catena interminabile di sintomi e malattie. Gli stessi sintomi sono gli indicatori diretti della negazione di se, sono la non esistenza. Ma la vita fondata sui dolori e sulle privazioni che senso avrebbe se tutte le scienze hanno il solo scopo di superarli.
Se la vita è nel desiderio, non si comprende per quale forza malefica della natura, dovremmo subordinarci al non senso, al sacrificio. E chi l’ha deciso e per quale legge del pensiero, il desiderio non sia costruttivo, e non realizzi e non costruisca tutte quelle attitudini fini ad ora attribuite agli obblighi ?
Solo i desideri motivano i più grandi progetti della vita e le più grandi imprese ciclopiche, ci rendono mentalmente produttivi e monumentali, mentre il dovere, l’obbligo, il sacrificio, il senso di colpa, sono modalità rappresentative dell’ insicurezza, rendono tremendamente dipendenti ai dogmi. Ognuno resta dipendente se rimane dipendente al senso inesorabile del solo dovere se da esso non si emancipa.
L’ antipodo è istruirsi al desiderio, ed è il passo più lungo della gamba, perché per emanciparsi, il passo deve necessariamente essere più lungo del solito.
δesidero εrgo σum
giotgio burdi
Dalla Sofferenza, alla Serenità, al Desiderio: un Tragitto verso la Felicità
Sofferenza, Serenità e Desiderio.
un tragitto verso la felicità.
Spesso siamo continuamente adagiati nell’ attesa di eventi che ci cambino la vita, sospiranti di passare dalle precarietà delle sofferenze, alla serenità auspicata e rilassata, aspiranti verso il desiderio.
La sofferenza immobilizza, è aggressiva, imbambola, frena,isola, introietta, implode, impedisce l’ intraprendenza, lega i pensieri, lega le mani, inibisce la caparbia, demotiva l’iniziativa, ti scoraggia, ti siede e ti stende, rende fobici, insofferenti e insoddisfatti, fa ginnastica passiva, demonizza gli eventi, si lamenta sempre, è astenica, passiva,è statica, istrionica, blocca, affossa, seppellisce, è ritrosa, nervosa, introversa, arrendevole, è paranoica, attende solo sentenze, è diffidente, è un urlo disperato di vita, giudica e teme il giudizio, è intrusiva di pensieri di malattie e di morte, ti incarta, ti imballa e paralizza.
La serenità è una meta tanto sospirata, acquieta, è stasi, si distacca dalla realtà, evita intrighi, confusioni e conflitti, non è invadente, né invidiosa, è indifferente, fa la brava, è pia e bigotta, non si impiccia, è ipocrita, si astiene, è buddista, fa yoga, pilates, è discreta, si distacca, trattiene, è fedele, è uno status quo di grazia, non muove una foglia, è un mare piatto, caos calmo, è paziente e severa, non punta il dito, non si compromette mai, è super partes, non si schiera mai, è un angioletto, scaccia l’ impulso a vantaggio della noia, orientata alla malinconia, evita le iniziative, pur di ottenere la calma ed essere difesa.
Il desiderio è turbolenza, inquietudine, emozione, effervescenza, esalta la ricerca, è diavoletto, orientato all’ amor proprio, non cede al senso di colpa, non colpevolizza, vive e lascia vivere, è complice, è rock and roll, è Dire Straits, persegue il piacere, è un fuoco d’artificio, una cascata tiepida, genera benessere, è frenetica nel condividere, è riservatezza, vorrebbe urlarla, è pressione adrenalinica, battito cardiaco nelle arterie, è un metro sopra la testa, se ne frega del giudizio, è parente stretto dell’ edonismo, un botto di petardo a capodanno, che delinea un inizio tumultuoso.
Chi è tranquillo, si accontenta, ma chi si accontenta non gode, si ferma, si orienta all’ ozio. La tranquillità fomenta l’attesa, e se attendi troppo, trovi la noia. La tranquillità è passiva, cerca ciò che già conosce, Il desiderio è attivo, fomenta l’ osservazione e la ricerca, accoglie il nuovo sconcertante e non lo spaventa, brucia la noia, è audace, è Cape Canaveral, il propulsore e la spinta al bello, è il contrario dell’ attesa, è iniziatore, protagonista e determinista, è intraprendente, osa, è caparbio, parla chiaro, spiattella e se ne fotte del populismo.
Che male c’è nel desiderare, se le situazioni, le persone che ci sono attorno sono fatte di corteccia, e le loro sofferenze son legate ad una vita di apparenze, sopravvivono di essenzialità, vivono di solo calcio, di numeri ed algoritmi, di pesi e di misure, di ascese, di accumuli da esattori, calcolatori, pressoché capitalisti, miseri arricchiti, di un vuoto esistenziale, i veri poveri sono i ricchi, freddi in petto, tecnici anafettivi, scevri di sentimenti, di ogni stimolo di emozioni, vivono di porno e trattengono le lacrime, monolitici, tutti di un pezzo, affidabili colonne fredde di travertino, cappelle cimiteriali, lontani fugaci punti vista di riferimento, muti, statici di sicurezza e serenità apparenti.
Basta un tetto, del sesso, del cibo e la pecunia, per essere sereni ? Anche, ma Senza un flusso di parole condivise, come una fiamma ossidrica, che legame o saldatura ci sarebbe?
Chi desidera è intraprendente, suda a maniche di camicia bianca rivoltate, ha i calli sui neuroni, è resiliente, è un ricercatore di mille soluzioni per un solo problema, piuttosto che mille problemi per ogni soluzione, invece chi è tranquillo, non gliene fotte nulla, ne del problema ne della soluzione invece chi soffre, subisce i problemi, non vede mai soluzioni ed è un residente in via passato al numero zero.
Esistono pochi altri, piacevoli veri, uomini alfa, attivi, positivi, intraprendenti, costruttori propositivi, accoglienti, non oppositivi, non resistenti, fatti per far vibrare, scuotere e brillare, operatori di risorse, illuministi, che hanno mille colori per interminabili mille sfumature di grigio, che lasciano e fanno vivere, non sono né invidiosi, ne complottasti, ne competitivi e gioiscono per i successi altrui.
Star bene da soli è il primo obiettivo, ma star bene con certi altri è un obiettivo superiore che va oltre di noi, è il non plus ultra, Se stai bene con te, riesci a fare a meno degli altri, e se riesci a fare a meno degli altri ti cercano tutti.
Bisogna piantarla di demonizzare il desiderio, esso è la chiave che permette l’ attrazione per tutto, per lo studio per i lavori per le relazioni vere. Senza il desiderio si è spenti, non ci sono ne motivazioni, ne sapori, ne mare, ne arcobaleni, non si godrebbero i figli, il lavoro, la casa.
L’assenza di godimento, è l’ alienazione, della motivazione a vivere, dei bisogni, e delle intime attitudini, è l’ essere votati al dolore, al già noto, obsoleto e scontato, al dovere, del “ si deve, per forza”. Quale croce o buio è fine a se stesso, se non è invece orientato alla luce oltre il tunnel ?
Se non avessero senso il piacere e il godimento, non saremmo mai nati, non saremmo mai stati concepiti; è il piacere che spinge all’ accoppiamento, alla vita e la vita rinasce se si possiede la spinta verso il piacere. Per quale motivo di follia allora dovremmo ontogeneticamente essere orientati a soffrire ? Vive chi reagisce al dolore attraverso il suo urlo di vita.
In assenza di piacere non avrebbero senso tutte le attività cliniche e sanitarie, compresa la mia, tutte alleate nel dichiarare guerra al dolore, alla sofferenza umana; il dolore non è mai la meta, ma il tramite per la salute, il benessere e la gioia. La vita va goduta, sul proprio balconcino sul prato o sul balcocino di Licata, come un caffè arabico, cremoso e dolce nel suo essere amaro e profumato nel suo sapore.
Quando si dice, è una persona viva, si intende attiva, agguerrita verso il dolore umano, serena, generatore naturale come l’ istinto che lo caratterizza, del desiderio di esistere, di godere quello che è e quello che fa piaccia o no agli altri. Tanto le sofferenze, i doveri e le responsabilità chi li scorda? Tra l’ altro non ci ricorderanno manco per essi. Le sofferenze ci saranno sempre e sono talmente tante, che sarebbe il caso difendere sempre l’ umore e la vitalità per la quale avranno più memoria.
Chi lo dimentica è vincolato alle proprie zavorre, non si ribella mai, non sbraita, e non spacca mai nulla per disperazione, con il rischio di identificare la vita al peso delle zavorre della mongolfiera, lasciale cadere se vuoi risollevarti dal terreno e dal fango, verso il crepuscolo dell’ orizzonte. Bisognerebbe lasciar traccia delle bellezze, considerato che abbiamo spesso solo la memoria del peggio.
Non si può essere poeti solo quando si soffre ma andrebbe dato onore ai poemi sulla gioia.
Chi possiede la malattia del dovere, trasmette la cultura della rinuncia, dell’ accontentarsi e del contenersi; chi possiede la cultura della vita vive inevitabilmente per il piacere che per sua prospettiva, si auto conduce alla propria felicità.
giorgio burdi
L’ IPOCONDRIACO
L’ Ipocondriaco e il bambino adultizzato
Che cosa è l’ipocondria ? È la paura di vivere, di convivere con la fobia di accollarsi ripetutamente malattie e morti impellenti inesistenti, pensandole, è una malattia fumogena, si teme di ardere su un arrosto di pensieri materializzabbilii.
La vita dell’ ipocondriaco scorre nella dimensione di una bolla grigia dell’esistenza, è l’ uomo della nuvola di Fantozzi, dove la sola obiettività è quella di potersi impellentemente ammalare, vive in uno stato continuo di auto sabotaggio delle proprie aspettative, in una capsula spaziale, in una schermatura auto protettiva, espressione di una vita consumata all’ angolo delle opportunità.
L’ ipocondriaco fa una vita da spettatore indifeso, dedicata a proteggersi da invasioni marziane, le vere invasioni, in effetti, sono tutt’ altre, quelle della sua famiglia d’ origine extra terrestre, c’è un covid perenne nella vita di un ipocondriaco, mai protagonista del suo quotidiano e depositario di sedimentazioni “radioattive” di conflitti passati.
Tutto dipende da quanto è stato impregnato e formato ad essere spettatore di situazioni malate, assorbendole, e quanto poco tempo ha dedicato al suo protagonismo nel fare ciò che era, godendo dei suoi desideri, rimasti repressi.
L’ ipocondria rappresenta una virtualizzazione della realtà, una fantascienza in un horror creduto e immediatamente sostenibile.
Per sconfiggerla, bisogna cedergli, perché sarebbe come cedere ad un fantasma, alla visione di lungo metraggio di fantascienza, ad un viaggio interstellare ed Inter galattico di StarTrek, ad uno stato mentale auto suggestivo.
Essa proviene dall’ orrore distorto del quotidiano passato, agito in un presente decisamente migliore. È un presento rovinato inconsciamente da una memoria del passato. Il passato è l’astigmatismo della nostra mente, ciò che noi vediamo, il più delle volte, non è ciò che esiste, vediamo ciò che abbiamo già veduto, vediamo la memoria.
L’ ipocondria è memoria, che polarizza negativamente il pensiero. In questo caso la memoria agisce involontariamente come una cronaca nera del presente, in un ripasso continuo di un Tg24, di tormenti su un filo spinato.
L’ ipocondriaco cerca ripetutamente rassicurazioni presenti, per memorie anguste passate.
L’ ipocondria è una frenata continua sull’ asfalto del proprio percorso, è l’ espiazione di colpe che non ha mai commesso, è il fagotto e la zavorra dei sensi di colpa, l’ assunzione dei peccati, è la paura per le proprie idee, dagli altri, giudicate folli, non condivisibili, è il il dito puntato contro, la svalutazione del gioco della vita spensierata del bambino che è stato, è il ridimensionamento del proprio Eros, la supremazia dell’ istituzionalizzazione.
L’ Ipocondriaco recita il verbo condizionale, e se, e se, e se, è proteso al futuro, ad una progettualità che non c’è, impotente e incredulo di progettare il presente, dove il sintomo rappresenta solo l’ alibi di una sfiducia alla quale è stato formato nel passato.
Lipocondria è una forma di progettualità del futuro per evitare di progettare il presente, è la fuga dal presente, da un presente impoverito del senso, fatto di obblighi, da facchino con valige cariche di alibi di beghe. L’ ipocondria impone la risoluzione di un passato fastidioso ed incistito.
Nell’ ipocondriaco, il peggio degli altri diventa il proprio, teme che tutto ciò che accade agli altri, accada a se. Anzi è già accaduto, perché si sente già male. Ha una mescola, una centrifuga di confusione tra gli altri e se. C’è la perdita della propria individualizzazione. L’ ipocondria è la confusione e la fusione con.
Da cosa nasce ? Dalla messa in disparte del soggetto interessato, a vantaggio dei suoi antichi cari.
L’ origine è famigliare, di chi ha fatto della propria infante – adolescente, da genitore ai propri genitori, inserito suo malgrado, in responsabilità non dovute. Da situazioni super apprensive e protettive genitoriali incapsulanti. Tali formazioni acquisite, continueranno ad agire nella coppia presente, tramutandola al passato.
L’ ipocondria è la narrazione e la voce di una esistenza passata, sui fotogrammi di una pellicola presente.
È la sofferenza e lo strazio per i conflitti i dilemmi e le precarietà delle malattie relazionali arcaiche di famiglia.
Un ipocondriaco è figlio di genitori ansiosi – apprensivi – ipocondriaci o litigiosi e psicosomatici.
Pertanto, l’ ipocondria è la malattia della sua stessa famiglia originaria, col sacrificio di se, per non dispiacere la stessa.
Lipocondriaco si è convinto o si è fatto convincere, che lui viene dopo tutti, e i suoi sintomi altri non sono che un urlo all’ esistenza, per un bisogno disperato di riconoscimento e di accudimento, grida, basta, non sono un fantasma, non sono trasparente, voglio che mi vediate.
Urla e sbraita “io esisto” come nell’ espressione socialmente contestata di “Ego-ista”, che etimologicamente recita come: “l’ amore vizioso di se”, nessuno mi ha mai viziati, coccolato, allora lo faccio da me, sbraitando ed urlando il dolore e il diritto ad esistere e a star bene.
L’ Amore viziato di se, indica il diritto di avere i propri visi come desiderio di vivere. Non c’è massima espressione celebrativa e considerazione dell’ amore proprio, se non inneggiare al diritto al godimento della vita, come antagonista del dolore dell’ ipocondria.
Chi non aspira nella direzione della dedizione ed auto realizzazione di se, non potrà mai star bene, il vizio di se, come la richiesta di coccole, il flirt e l’ Eros è auto celebrazione per una celebrazione di se alla vita mai riconosciuta, è ciò che bene per se, che si distingue da ciò che era bene per la famiglia. Senza l’affermazione del vizio di se, i vizi possono diventare altro, ipocondria o dipendenze.
Attraverso l’ ipocondria si cerca di perseguire, per intercessione dei sintomi, attenzioni, considerazioni, rassicurazioni, guide, sicurezza in persone adulte.
L’ Ipocondriaco non gioisce mai, e se lo fa, è trattenuto, teme di pagarla cara con un pegno, e come un superstizioso, teme la gioia e l’euforia, la felicità, come se ne fosse immeritevole, perché immeritevoli e non dovute le attenzioni passate, e vive l’ esistenza, come fosse un esame senza fine, senza alcun titolo finale, ed ogni esame reale diviene di fatto una tragedia costernata di sintomi.
In conclusione, l’ ipocondriaco pensa sempre e pensa al peggio, pertanto il suo pensiero è malattia, è un adulto rimasto quel bambino, sempre turbato e preoccupato. Ma possiede una parte forte e sana, lo stesso bambino adolescente, giocherellone , semplice, che fa capricci per giocare, perspicace ed immediato, che possiede ancora sogni da realizzare.
Il muscolo del pensiero sabotatore, si può ridimensionare e distruggere, dando ragione al “SENTIRE”, al PROGETTARE L’ ATTITUDINE” più fluidi, immediati, interconnessi ai nostri cinque sensi, e al potere della spontaneità a quello fantasioso e creativo che ognuno possiede per ripercorrere ciò che in passato era stato sabotato, proseguendo nel presente verso la propria auto realizzazione verso le proprie assolute prospettive.
giorgio burdi
ContinuaQUI ED ORA
Tenere i piedi nel presente è il primo Indizio di Vita. Ascolta qui l’ audio libro di Tolle.
ContinuaNon esistono persone sbagliate. Siamo tutti particolari.
Non esistono persone sbagliate. Siamo tutti particolari.
Siamo tutti diversi, abili diversamente, accumunati da una umanità incompatibile, opere cromatiche originali, geometrie poliedriche, sfaccettature brillanti di un diamante, ciechi agli altri lati.
Siamo tutti buoni e cattivi, ipercondriaci, o me ne fotto, diffidenti e socievoli, superficiali profondi, Tutti ricchi e paurosi di povertà, affettivi e freddi in petto, melanconici, depressi, rompicoglioni e logorroici taciturni, ringhiosi cazzari, amiamo vivere, morendo ipocondriaci.
Siamo sottomessi e narcisisti, amorevoli egoisti, in discussione messi in croce e quando conviene comprensivi, siamo irremovibili opportunisti, rigidi malleabili e paranoici paraculi, ironici e sarcastici, passivi aggressivi.
Facciamo tutti lapsus, associazioni, rispecchiamenti e proiezioni, incubi, sogni erotici, flirt, flop e coglionate, Siamo ossessivi perfezionisti, del tempo ce ne freghiamo e siamo ritardatari, perditempo o macchine da guerra, perché è sempre troppo tardi, abbiamo tutti dei bug, dei vuoi di memoria, siamo degli sbadati, degli sbandati, distratti e confusionari, tutti affidabili, ci vogliamo tutti bene, ci chiamano fratello, ma allo stesso tempo siamo degli stronzi e poi tanto buoni da morire.
Ridiamo, tutti piangiamo, dissociati e dissacranti, disadattati, dalla rabbia soffocati siamo asfittici, manco suoni, scrivi, parli o fai, che sbagli, tutti idioti ed intelligenti, umani, sensibili e disumani, tirchi e generosi, siamo tutti belli, e brutti da rifare. È sempre colpa nostra o è colpa degli altri, affogati dal senso di colpa, maciullati dall’ ansia e dall’ ossessione di voler essere adeguati ed omologati.
Obbedienti ai doveri, agli obblighi e alle responsabilità, ribelli e smisurati di evasioni, tutte sono giuste, ma prendiamo sempre quella sbagliata. Affogati nell’ angoscia, assetati da boccioni d’ ansia e dopo la minzione ne cerchiamo altra, nuotiamo nelle lacrime con isteriche risate, iperventilati di ossigeno, abbiamo attacchi di panico, perché con esso vogliamo prendere il volo.
Tutto è magico, con chi poi ti fa morire, e quando ti senti la morte dentro, non c’è alcuno che ti faccia vivere, e senti che sei solo se vuoi farcela, se poi soffri si allontanano e se vivi si avvicinano. L’ intimità è nel dolore non è affatto penetrazione, e chi ti penetra soltanto, ti fa soffrire.
Tremiamo e temiamo il giudizio, perché ci temiamo tutti diversi, e se ci scopriamo uguali, se giudichi, sai che poi giudichi te stesso.
Diventiamo tutti matti se non abbiamo comprensione carezze, e abbracci e parole buone tutte da gustare.
Siamo tutti oratori, venditori di parole, se non le realizziamo, non sappiamo ascoltare, ci parliamo addosso e dentro e non parliamo a chi pensiamo, invadenti discreti, pettegoli e riservati che ci ascoltiamo a stento ma tutti in attesa di capire.
Questi soli che noi siamo, siamo uguali in ognuno che rifiutiamo, e l’ altrui disprezzo e il compiatire, è il rifiuto di noi stessi rispecchiato.
Chi si è ammalato, è perso nel buio dei suoi sotterranei, e chi è più sano, ha rischiarito e fatto luce nelle sue profondità, chi più o chi meno, siamo tutti così, sfumature l’ un dell’altro, opere buie o colorate, note sorde, pause, ritmiche e rumori in sinfonie differenti.
giorgio burdi
ContinuaLA PANCHINA
LA PANCHINA
e la quercia
Che bella siesta è la panchina, sfiniti, buttati, sciallati e sdraiati, forme adagiate su ergonomiche accoglienze. La panchina è una fermata gratuita per contemplare la pinacoteca della natura, ti accoglie sempre, è a braccia aperte, abbracci stradali, nei cortili nei parchi o nelle piazze, ne trovi sempre pronta una che ti chiami.
Se la vedi, ti chiede, fermati, vieni, lasciati andare, sono tua, come un mentore che vuole parlarti, aspetta, accasciati, non continuare, riposa su di me, hai diritto ad una pausa, a riflettere perché tu sei il senso. Io e te siamo il senso per cercare la serenità. Io sono il tuo legno di appoggio, ma tu la quercia anche se ti senti un filo d’erba.
Non può esserci un cammino senza sosta, senza fatica, ne stanchezza, senza frenata, senza incidente di percorso, senza blocco o senza il diritto di sbroccare. Chi si siede non è perduto ma si ritrova e si rigenera.
La panchina ti comprende, ti fa adagiare, ti ascolta, ti abbraccia, è una compagna amica che ti consola.
Accoglie le tue fatiche, le tue rabbie, le tue lacrime, le tue risate, i tuoi baci.
È davvero intima e non lo sa nessuno, protegge la tua privacy, è discreta, non ti giudica, è in assoluto silenzio ed ascolto, è ospitale, non ti chiede mai nulla, di accomodarti come una casa per chi non trova casa.
Quanti ne ho accolti, da chi non si sarebbe mai più rialzato, a chi per allacciarsi una scarpa, nessuno è più qui, sono andati, io sono meta di sosta di rilancio e ripartenza, io sono lo stop e lo start, e come loro, ti rialzerai, complice con me delle tue decisioni.
Ti ricordo che sei uomo, che ti stanchi, e se ti senti cencio o frantumato, come tutti, ma tranquillo, ti riprendi, ma posso confermarti che le noie, le angosce e i fallimenti, sono i gradini della vittoria.
La panchina ci obbliga a fermarci, a meditare, a riordinare, a fare una lista di priorità , a ridurre la corsa, a staccare il pensiero, a rallentare i passi, a godere la chioma dell’ abete sul capo, a sentire la brezza o la salsedine delle onde.
La panchina ci ricorda l’ essenza, che respiriamo, batte il cuore, che nel qui ed ora c’è vita, ci ricorda le priorità, fa da mediazione fra la notte e il giorno, è la convalescenza dopo una malattia, fa ripercorrere, i binari delle parole, il pentagramma della musica, i fotogrammi della vita.
La panchina non richiede un frac, ti accoglie spoglio, nudo, ricco o povero che sia, se ridi o piangi, se urli o taci, ti parla ed ascolta sempre nel suo tacere, non devi dimostrargli o dar conto di nulla. È l’ ossigeno, il rianimatore, l’ abbronzatura o l’incontro inaspettato.
Non c’è panchina senza infinito e libertà, senza un prato, un cielo o un mare, senza una piazza;
La panchina sono le vere persone, i veri, amici, la famiglia, Il gruppo, la squadra o l’analisi, i baci, gli abbracci, non ti giudica mai, sorride insieme, ti aiuta, ti fa alzare….. e ti lascia la mano.
giorgio burdi
ContinuaLA FINESTRA SUL MARE
LA FINESTRA SUL MARE
Quando non hai bisogno di nessuno stai bene con tutti.
Etimologicamente “Nessuno” dal latino “ne ipse unus”… cioè: “neppure uno”.
Il “non aver bisogno di nessuno” è una vera strategia per poter aver qualcuno e innanzitutto avere se accanto.
Cosa vogliamo intendere con questo ? La persona capace, è quella in grado di saper rinunciare agli altri, non per sport di isolamento, ma per la capacità di rendersi autonoma, anche al solo scopo di poter realizzare relazioni stabili.
La stabilità si prepara “in casa propria” , ovvero dentro di se, per non fomentare e reiterare, nell’arco della vita, terremoti relazionali.
Non si tratta affatto di una tecnica per poter realizzare rapporti significativi, o per incastrarsi nel proprio individualismo, ma della necessità di realizzare un vero e proprio cambiamento di atteggiamento, orientato verso di se, sulla centralità della propria esistenza, aspirando alla propria auto realizzazione.
Le persone non auto realizzate, orientano il proprio equilibrio verso chi può sostenere le proprie cause, decentrando il baricentro della propria esistenza verso altri perimetri, così edificando i pilastri in terreni altrui, verso la propria destabilizzazione.
Quando il prossimo detiene il merito di farci acquisire il senso di noi, l’investimento diviene esattamente pari a zero o nullo e decaduto.
Andiamo sempre in perdita, sulla base auto svalutativa di noi stessi, quando non ci sentiamo meritevoli e depositari delle potenzialità che la vita ci ha donato, ma percepiamo gli altri, i depositari, i fortunati di tali risorse.
Ci auto sabotiamo, mettendo un silenziatore alla nostra anima, rinunciamo a noi stessi, appoggiandoci sui meriti e sulle risorse altrui.
Non aver bisogno di nessuno, significa, aver bisogno di se, poter contare su se stessi, sulla propria stima e fiducia. Gli altri, sono la loro strada e percorrono comunque e sempre le proprie formazioni, seguendo parallelamente le quali, ci sentiamo prima o poi inadeguati, inefficaci.
La nostra strada, è la strada adeguata, è resilienza, ma potremmo non incontrarla mai senza una lettura attenta dei nostri talenti e delle nostre naturali attitudini. Chi si accontenta, non gode, ma si annoia, si deprime e si ammala.
Non aver bisogno di nessuno, non significa solo fare il lavoro giusto, sulla base delle proprie attitudini, ma fare un lavoro dentro di se, per illuminarci su come siamo fatti e funzioniamo.
Il non aver bisogno di nessuno, per stare bene con gli altri, è alle antipodi delle diverse forme di dipendenza e si realizza solo con l’auto realizzazione.
La mancata auto realizzazione è al vertice delle frustrazioni e delle nevrosi personali, e se pensiamo al rapporto nell’ ambito delle alle relazioni, un nevrotico, più un altro nevrotico, non fanno somma zero, ma fanno un nevrotico al quadrato.
Nella relazione più profonda, entrambi non hanno bisogno più di nessuno, perché essendo uno, secondo l’etimologia, sono esattamente nessuno, come perfetta fusione di intenti, perché sono stati entrambi rinunciatari della propria realizzazione fondata sugli altri.
L’ auto realizzazione è alla base della propria serenità e della ansimata felicità.
giorgio burdi
Continua