L’ IMPREVISTO
L’ IMPREVISTO
e i contrattempi
“Mi dispiace, ma ho avuto un imprevisto e devo disdire” .”“Ha Dimenticato che mi ha impegnato l orario da cinque giorni ?”
Ho avuto un imprevisto, dovrebbe potersi dire, non ho previsto, non si può essere veggenti per predire tutti i fenomeni, equivale anche ad ammettete che sono stato distratto, non ho calcolato bene i tempi, non ho potuto tener conto, non ho fatto caso, si è sovrapposta una situazione ad un altra.
Oppure, sono un’ottimista che cerca di massimizzare la propria efficienza e che incastra troppi impegni nell’agenda giornaliera che inverosimilmente porterà a termine. Oppure, semplicemente, non riesco a dire di no alle richieste altrui, dando priorità a chi è presente senza tener conto degli altri impegni presi.
Analiticamente, “l’ imprevisto”, ha una connotazione differente , quella difensiva, è una resistenza ad incontrarsi in un nuovo evento ritenuto inconsciamente sconvolgente, oneroso o intriso di paura per un cambiamento.
A volte inconsciamente, accogliamo l’imprevisto nella nostra vita come un segno del destino, troviamo in esso la scusa per crogiolarci e procrastinare, per evitare situazioni scomode senza sensi di colpa.
L’imprevisto, invece, si può e si deve controllare, e se ciò non accade, è una questione di mancata capacità riorganizzativa, sulla base dove il fenomeno precedente diventa secondario rispetto ad un nuovo evento. L’ansia generata dall’imprevisto può occultare la lucidità di pensiero ed alterare i parametri di giudizio.
L’ imprevisto possiede una dimensione sociale, ha la caratteristica peculiare di rappresentare un domino di condizionamenti: disdico perché, ho il covid e sono in quarantena, mi hanno spostato l’ esame ad oggi; il mio relatore non legge la tesi del dottorato e mi lascia in standby da sei mesi.
Questi condizionamenti di vita,, sono forme di imposizioni, di violenza e violazioni agite, dove il più debole attende. Ed in questa attesa, il tempo gli è rubato due volte: non solo non potrà andare avanti nella sua vita, come da programma, ma investirà male il suo tempo, non potendolo pianificare liberamente nell’eventualità che il più forte si faccia vivo.
Imprevisti e contrattempi, sono tutti abusi manifesti, forme di aggressività passive,mobbing, molestie, se reiterate. Il tempo altrui è un patrimonio intimo ed inviolabile, ed il suo rispetto è un diritto umano su cui si fondano le società più evolute. Il rispetto del tempo ha un valore inestimabile perché il tempo è lo stesso uomo.
Chi si trova in una condizione di attesa, muore, si pensi alle lungaggini per i ricoveri o per certe cure che non possono essere erogate, per le file di prenotazioni interminabili. Nelle attese, si bloccano dei meccanismi che, possono dipendere da singole persone “inceppate”, capaci di scatenare tsunami di imprevisti a catena, da mandare in blocco tutta la filiera.
Chi dice ho un imprevisto o, peggio ancora chi non lo dice affatto e lo agisce, inconsapevolmente impone se con la una scelta, si pone nelle funzioni dell’ esercizio di un suo potere prepotente, che avrà le conseguenze su una catena di altri individui.
Nel suo mondo,relativamente osservabile, lascia intendere che la situazione subentrata ha una valenza di gran lunga più importante. Chi esercita l’ imprevisto o lo tace, si comporta da usurpatore, fa del tuo tempo, il suo tempo, una carta appallottolata nel cestino, è come un ladro che ha la mano lesta, è un giocoliere manipolatore degli affari tuoi, ti lascia a bocca aperta perché, è “perfetto” che, che non lo puoi quasi contestare.
Nell’ imprevisto diventi sempre secondario rispetto al resto, equivale a dire, non ho tempo per te, mi interessi relativamente, quasi per me non vali, ma mi devi pensare comunque, una condanna a rimuginare, o a farta pagare senza sapere per quale motivo.
L’ imprevisto ha una valenza squalificante e svalutante della persona, lascia disorganizzati, attoniti, bloccati, ed è generatore di ansia e depressione per le sue conseguenze e lungaggini, è comunque un meccanismo prevalentemente inconscio che induce ad una riorganizzazione, ad un reset, a ricalcolare le agende dei tanti del domino, dove ogni agenda è una vita.
Chi fissa un appuntamento diventa depositario e ci proprietario del tempo e dello spazio altrui, per tutto il periodo di conservazione del patto. Un appuntamento è un timbro di ipoteca su uno spazio della propria vita e la sua disdetta è un porre fine ad un processo senza preavviso.
Dare valore al tempo è solo una questione di crescita personale e di consapevolezza. Davanti ad un imprevisto, l’uomo analitico non si fa prendere da ansie, analizza il problema e ne pianifica la sua risoluzione senza sconvolgere gli eventi successivi e dando valore al tempo altrui.
È indispensabile inserire all’ interno del codice del diritto civile e, ancor più, sensibilizzare sulla cultura del tempo, proprio ed altrui, servirebbero ispettori professionali capaci di far rispettare le fasi lavorative dov’è il tempo viene impiegato. Si pensi al furto di tutti quegli straordinari non riconosciuti e non pagati.
Le società più evolute sono quelle in grado di valorizzare e ottimizzare i tempi. In Giappone il treno a levitazione magnetica deve arrivare alle 11,19, e arriva a quell’ora. Sulla tratta Bari Roma, la freccia rossa deve arrivare alle 11,20, ma arriva alle volte alle 14,30. Consapevole di questo possibile ritardo, l’uomo analitico mette in guardia chi è presente nella sua agenda, lasciando a loro la decisione di rischiare o meno. L’uomo analitico non abusa del tempo altrui, perché impegna bene il proprio.
Coloro i quali invece vengono abusati del proprio tempo, non devono rassegnarsi all’ impossibilità di cambiare, assistere impotenti alla violenza subita, come con lo scoraggiamento e la morte. Al contrario, devono ribellarsi a questa arretratezza culturale, fatta da infrastrutture, burocrazia o individui frenanti, manifestando il disagio, senza timore di essere giudicati.
La gratuità dedicata del propio tempo, è il più grande dono e valore che si possa mai fare. Credo che non ci sia un valore più elevato, se no quello del tempo.
francesca palmieri
giorgio burdi
ContinuaL’ UOMO ANALITICO
L’ UOMO ANALITICO
Ostetrica dell’ anima
L’ uomo analitico appende al chiodo la sua maschera, mette a nudo la sua opera d’ arte, è vero, autentico, è numero uno, aspira al confronto, è reattivo, non disdegna il dolore, lo considera zona intima, ne il conflitto, li ritiene occasioni di sviluppo, si inoltra nei suoi fondali, ci nuota, si immerge, va a fondo più del profondo, va in apnea e sa riemergere, chiede e richiede a chi non risponde, non molla l’ osso, attraversa il buio e vede la luce li dove non c’è, non teme il problema, lo considera la soluzione, non lo schiva, gli va incontro, si impatta, affronta chi lo evita, non procrastina, è nemico dell’ ambiguità, dell’ ipocrisia, dei sotterfugi e delle incertezze, svela il non detto, è insolente, ama l’ indicibile.
Convive con la verità, aborra la menzogna, ha lo sguardo di un hacker, ti guarda dentro ma, ti svela, ma è discreto, è veemente, impertinente, non conosce vergogne, ironico, esprime l’ inammissibile, ama le trasparenze, non si nasconde, non spettegola sugli assenti, perché affronta i presenti, va contro corrente, in avan scoperta, è in prima linea, non attende alcuno e non decide per loro, è intraprendente, non teme l’errore pur di non lasciare l’ intentato, osa sempre e non procrastina, elogia l’ incoerenza, sgama l’ impostore e l’ imbroglione, il serpeggiante e il millantatore, l’ opportunista, non curante di chi ostenta, perché preso dalle proprie risorse e meraviglie.
L’ uomo analitico, non conosce potere se non quello della parola per ogni sibilo e brivido di vita , dialoga sempre, ascolta tanto, ma ti tiene testa, l’ ultima parola è sempre la sua, non ha paura di rispondere, si confronta, schivare il conflitto genera ansia, la risposta è il suo potente,
è collaborativo, non è corruttibile, ne omertoso, ne connivente, non convenzionale, perché la sua legge è la differenza, la simmetria è dittatura, non si lascia manipolare, è comprensivo, osservatore e creativo, improvvisatore, stupisce, non giudica, acceso ribelle contro gli stereotipi, non abita le consuetudini, ne le convenzioni o i dogmi, non è superstizioso, non ha convinzioni, e se ne ha, preferisce averne infinite.
Sa mettersi in gioco, cambia angolo di veduta, va in retro marcia, in divieto d’ accesso, è nauseato dal senso unico o dai luoghi comuni, sa mettersi in discussione, coltiva l’ arte del dubbio, rivede gli schemi di gioco, va al contrario, a ritroso, sotto sopra, di sbieco, di lato, prende la tangente, fintanto che la strada non la trova. Non è diffidente, alla richiesta di consigli, lui risponde, tu cosa senti, perché la sua esperienza non è legge, perché la strada è sempre personale, è un ostetrico che fa partorire se e chi ama e adora quando ognuno è se stesso; accoglie, fa silenzio, è attenti ed è empatico e comprensivo, dedito, raffinato, diplomatico, incisivo e molto affilato.
L’uomo analitico trova il bandolo della matassa, il filo di Arianna, mette tutti d’ accordo, è in grado di tenere insieme e riesce a non tener fuori nessuno, sa farsi contestare, ridisegna il ricamo e ricalcola il percorso, è un leader, conosce l’ esperanto, parla l’ emozione ed è lontano, diverso, ma vicino a tutti, misterioso, lucida la buccia, ma ama la sostanza, è un uomo di contenuti, ma è anche molto pragmatico e carnale, è raffinato ma anche sguaiato, passionale e meditativo, ha sempre tanto da imparare, ci rimette in prima persona, piange, si commuove, si dispera, si incazza e ride a crepapelle, senza nascondersi la faccia.
L’ uomo analitico non conosce vergogne, ne imbarazzi, è umile, ma va a testa alta, è difficile umiliare l’ umile, è astuto, asserivo, imbarazza i sensi di colpa, essi lo temono, fa loro paura, non sanno come incastrarlo, sono austeri, scoraggiati, lo guardano con le braccia scadute, accudisce e da una mano a tutti, non si lava le mani, ma non si sostituisce a nessuno e alle altrui responsabilità, restituisce loro la dignità di potercela fare, condivide i pesi, ma non lascia che diventino un peso, non è la loro stampella, ne il loro bastone, non si lascia ammorbare, si flette, è malleabile, ma non si spacca, è uno speleologo del profondo, uno specialista del problema, ricercatore del minimal e dell’ essenziale, appassionato e revisore delle origini, appassionato delle radici curative, avvia la svolta, non fa ostruzionismo, demagogia, ne lo struzzo, non nasconde la testa sotto la sabbia, riconosce le sabbie mobili dell’ effimero.
L’ uomo analitico, non si scoraggia e non si sconcerta dinanzi alle cadute e alle ricadute, ma, come un bambino, è temerario, si rialza sempre con il gioco tra le dita, si scortica, si rimette sempre in piedi, si disinfetta, torna a giocare, a camminare, a correre e ad avventurarsi nelle sue bizzarrie. Per quanto sia stato vittima del suo passato, sa che non lo potrà addebitare o accreditare sempre a nessuno, ne potrà cambiarlo, potrà solo usarlo per trarne vantaggi, per vivere meglio e rinforzare il suo presente. L’ uomo analitico è l’ uomo del qui ed ora, il suo hic et nunc è il suo cibo, tutto il resto, non esiste, è già stato defecato, è fuori luogo, è fuori tempo, è già partito, la memoria è deceduta e non serve preoccuparsi, ma occuparsi solo adesso.
Considera i sintomi, un gps, la via da ricalcolare, per cambiare rotta per superarli, una mappa per uscire dai suoi labirinti teatrali incastranti, è un uomo di lealtà, ancor più di realtà, i suoi piedi son ben saldi sul suo selciato con l’ anima slanciata oltre i confini del proprio fango,
Se vuole emanciparsi, da valore alle sue origini, non perde tempo sui social nel guardare gli altri, si cura da dentro, se sbaglia non da colpa a nessuno o al suo carattere, al proprio destino, alla fortuna o alla sua sfortuna, perché l’ uomo analitico è determinista, decide, comprende, sbroglia le matasse ed agisce sugli eventi, fa di tutto per non subirli, non fa auguri di buon auspicio o di speranza, non è superstizioso, ma crede che si cambia solo rimboccandosi le maniche.
L’uomo analitico sa assumersi molti doveri, ma sa che dovrà prima o poi votarsi ed abdicare al piacere e ai suoi desideri se non vorrà soccombere, porta a compimento ogni sua opera, che diventa titanica per una vita stellata ma, senza gli slanci verso i suoi desideri, ogni attitudine viene sgretolata.
L’uomo analitico sa, che la sua felicità ha sempre il costo, quello dei suoi fallimenti precedenti e che una volta felice, dovrà ricominciare di nuovo, per altri obiettivi, non c’è felicità senza costi e che non venga prima pagata, perché ogni felicità ha sempre un peso e la sua fatica, essa gira su un cerchio e rigira senza fine tra sconforto, gioia e fallimenti. Il motore di ogni felicità è la sua stessa fatica.
L’ uomo analitico fa paura alla paura, è capace di morire, per questo è in grado di vivere. non perde tempo dietro alle malattie o alla morte, perché ha troppa fretta di vivere, considera l’ ipocondria il collare del mulo, il coraggio che non ha di cambiare, di ripercorrere il tunnel della sua solitudine; l’ uomo analitico si perde e si ritrova, non teme, il deserto intorno, di essere lasciato solo, si smarrisce è fiducioso di ritrovarsi, è sereno, e se si perde esplora i nuovi territori, tutti nuovi da scoprire con le sue nuove avventure, non si preoccupa, e se talvolta teme la propria solitudine, dovrà cercare il mostro che si insinua dentro quella casa.
L’ uomo analitico per poter amare gli altri, ama per primo se stesso, come in aereo, nel caso di improbabile ammaraggio, indossa per primo la maschera per l’ ossigeno, per poi aiutare gli altri. L’ uomo analitico la smette di cercare consensi e conferme, fintanto che comprende che la sicurezza è già insita in se, perché ha sempre il suo numero Uno da interpellare. L’uomo analitico, vive sul suo assetto, sulla propria perpendicolare, lancia il piombo sulle sue oscillazioni, recupera il suo baricentro, ritrova l’ equilibrio e ridisegna le geometrie delle sue relazioni.
L’ uomo analitico sta bene con se e per tanto sta bene con tutti; se è in grado di guardarsi allo specchio, di sorridere e dirsi, ti amo, è in grado di valorizzare gli altri, per quanto valore si da.
Per tutti noi, gli altri valgono, per quanto fango, piombo o carati uno si da; l’ uomo analitico Vive, è fiero ed è grato alla vita, vive Bene. L’ uomo analitico è la sua stessa rivoluzione che cambia il mondo intorno a se che lo circonda.
giorgio burdi
ContinuaIL PENSIERO INTRUSIVO
Come eliminare il pensiero “intrusivo”
Prima credevo fosse impossibile, ora penso solo che sia difficile ma non impossibile.“ Eliminare” un pensiero intrusivo, ricorrente, di qualunque genere esso sia, non è impossibile.
Ho scoperto che battere il palmo della mano sulla tempia sperando che il pensiero esca dall’orecchio sotto forma di polvere, non è così astuto e risolutivo.
Come si fa? Purtroppo ancora non esistono medicinali, formule chimiche, qualche macchina che riesca a disinnescare questi meccanismi basati su ricordi e associazioni mentali. E allora come si può fare? Costringendo il pensiero e persuaderlo a pensare ad altro, anche se la tua testa non vuole farlo. È necessario depotenziare il muscolo dell’ ossessione, pensando ad altrettanto altro però funzionale.
Per poter effettivamente pensare ad altro, bisogna concretamente pensare e fare altro,, altrimenti il solo pensiero è troppo debole. Bisogna fare altro per rafforzare il pensiero che vogliamo inserire e per indebolire quello che vogliamo eliminare. Possiamo ad esempio sostituirli con le nostre passioni, reiterate sul pensiero intrusivo. Questa procedura si chiama riprogrammazione neuro psicologica.
Il trucco è cercare che questo “altro” sia fisiologicamente, a livello di ormoni, neurotrasmettitori coinvolti, più o meno potenziale allo stresso livello del pensiero intrusivo.
Adrenalina, serotonina, endorfine, e tanto altro, tutto concentrato a contrastare e a sostituire quello che si vuole eliminare.
Non basta farlo una volta ovviamente, perché il meccanismo deve essere reiterato tutte quelle volte che invade.
Più si fa, meno forza ha il pensiero intrusivo.
Da che era un pensiero costante, prima diventa qualche ricordo dissipato nella giornata, poi nella settimana, e poi solo qualche “flash” ogni tanto.
La nostra arma più grande è tentare tutte le volte di non concedergli spazio, fargli capire che hai la capacità di coinvolgere gli stessi processi chimici a livello cerebrale pensando anche facendo altro.
Il tuo organismo non si “ciba” solo di quello per sopravvivere.
A lungo andare, il pensiero intrusivo verrà sconfitto.
Eleonora Tegliai
laureanda in medicina
LA VITA È UNA PAUSA TRA DUE BATTITI CARDIACI
LA VITA È UNA PAUSA TRA
DUE BATTITI CARDIACI
Tra due battiti cardiaci c’è una pausa, la essa è la vita tra due pulsazioni, senza i battiti non ci sarebbe ritmo, pensiero, respiro, sensazioni, cammino, ballo, festa, tempo; i battiti sono propulsioni che iniziano al tempo, alla storia, ai natali, ai tuoi compleanni, alla tua prima, sono l’ esordio sul palcoscenico della vita.
La nostra vita è la sommatoria e la congiunzione continua di tutte le pause tra i battiti. Una vita dura quanto le pause. È un dono meraviglioso, la vita nasce attraverso il Big Bang tra due battiti ed una pausa, essi sono i sono detonatori della luce che osserviamo. Senza battiti c’è il buio. Sei il tuo spazio immenso e finito tutto da progettare tra una sequenza di pulsioni cardiache.
Che speco doversi cristallizzare sul passato o nebulizzarsi verso il futuro.
Il battito è solo presente, non esiste un battito passato, tanto meno uno futuro, è solo hic et nunc. Ci sei o meno, esso è sempre inesorabilmente presente.
Il battito è lo start and go del tempo, è l’ attivazione del cronometro che spalma il tempo su una pellicola di fotogrammi. L’ eternità è la pausa finita tra i tuoi battiti cardiaci e il Big Bang del cosmo, che ci estende verso la pausa infinita ed eterna.
La vita dell universo inizia da un Big Bang e continua tra i battiti umani e riprende e continua verso la sua origine, nel buco nero del battito dell ‘ universo.
La vita è come la musica, il suo primato non è nelle note, ma nelle pause tra le sue note, una musica senza pause sarebbe un rumore con variazioni tonali, le note combinate con le pause generano miliardi di costellazioni di melodie, come nella vita.
Dire ho poco tempo, mi manca il tempo troviamo degli incastri, non ce la faccio, vediamo un attimo, non ci riesco, fai in fretta, sono espressioni isteriche del non vivere il proprio tempo, del non poter godere dei flussi continuativi che il ricco quotidiano ci regala.
Ogni istante ci impone di essere presenti a noi stessi e a tutto ciò che ci scorre dentro ed accanto, di far riferimento li dove abbiamo i piedi piantati in quel territorio. Ogni istante di vita ci fa l’ appello, e quando non rispondiamo e non lo ascoltiamo, risultiamo assenti, non ci ricordiamo di noi, risultiamo essere lontani da noi. Essere assenti nel presente è come non essere mai nati, intrappolati in un incantesimo irreale, trasparenti, fuori dal mondo.
Quante volte risultiamo impreparati nelle risposte ? Siamo altrove, lontani, staccionati nel nostro gregge di preoccupazioni e di pensieri. La risposta è frutto della presenza, è data dalla aderenza alla realtà. Quanto più siamo presenti, tante più risposte e domande riceviamo e facciamo nell’ Olimpo della curiosità . È la curiosità che ci rende vivi come bambini, la sua assenza ci rende apatici e degli ebeti indifferenti. La realtà ci insegnerebbe tantissimo se solo fossimo dentro di essa, come dei diretti interpellati ed interessati, come degli osservatori, spettatori e protagonisti. La presenza è ricchezza e riempimento, è coinvolgimento, è curativa, la presenza è terapeutica, l’ assenza è isolamento, impoverimento, rimuginazione, è vuoto, prigionia mentale, è malattia.
Tra spettatore e protagonista, la differenza è nell’ azione; il protagonista osserva, interagisce e modifica la realtà, si diverte, va in conflitto, lotta, sbraita, agisce e reagisce e gli piace, lascia un segno, il proprio contributo, migliora; lo spettatore subisce, auto sabota, si auto celebra, si auto predestina ad un orientamento che lo chiamerà destino, si sente succube, inerme, incapace di azione e protagonismo, di riconoscere priorità e decisioni, si rimescola nelle sabbie mobili della sua introversione pessimistica.
L’ assente non ha mai tempo, perché deve recuperare quello che ha perso mentre era assente, è sempre in ritardo ed in condizione, è in estenuante recupero, deve recuperare e capire quello che non ha vissuto prima, e diventa ladrone del proprio tempo, perché, per recuperare serve altro e lo ruba in quello presente, vive un debito continuo nei confronti di se stesso; il ritardatario è debitore e creditore di se stesso, deve pagare il debito del tempo che non si è concesso con il credito del tempo rimasto che gli resta, destinato a non essere mai vissuto. Il presente serve per ripagare il passato è i suoi errori. Il tal modo, il presente ha lo scopo di recuperare un passato non vissuto.
Una vita fatta di soli impegni, doveri, obblighi e responsabilità, rende automi, esauriti ed assenti. Il piacere e il desiderio, ridanno il senso delle cose e le forti motivazioni verso, essi ci rendono presenti in attimi profondi ed interminabili.
Dobbiamo ricoprirci di giustificazioni e menzogne per il sol diritto di decidere e far esistere il proprio tempo, del quale saremmo i legittimi proprietari, giungiamo a sentirci attanagliati dal senso di colpa di essere in casa nostra, come fossimo estranei.
È un crimine verso se stessi, dover attendere le altrui deleghe e autorizzazioni per decidere di noi di noi e dei propri spazi. Si deve giustificare sempre tutto a tutti ? Dove è il diritto ad esistere ?
La discrezione è evoluzione, è intelligenza, gli indiscreti sono animali insicuri, si rendono a stampelle, per darsi certezze.
Prendi la tua vita tra le mani, non c’è nulla di così tanto prezioso, diventi sicuro di te se non confondi la tua sensibilità e a quella altrui, tutto è bello perché siamo differenti e liberi di esserlo; non chiedere permessi e non lasciarti inquadrare, millantando di conoscerti, per poi manipolarti, e tanto più, non lasciarti dare consigli, o peggio ancora non lasciar decidere per te, chi agisce in tal modo ignora, cura i propri interessi, oscura ed occulta te, è ridicolo, il saggio gioisce per la crescita e la diversità altrui, le tutela, sa attendere, è concentrato sulle proprie attitudini e non mostra fili di invidia, è rispettosissimo, è entusiasta di tutto ciò che è dissimile da se, non è ne invidioso, ne competitor, vive gli altri come un aiuto, come un’ estensione delle proprie potenzialità.
L’ irrispettoso è borioso, saccente senza scrupoli e ne titoli, si erge a genitore, è un critico adolescente adultizzato.
Il rispetto è adulto, è colto, tiene al confine sacro tra le identità differenti. Le persone rispettose sono sincroniche, si attraggono e si adorano, sono in un ingranaggio di uno stesso motore, vanno ingranati, non fanno dell’ altro il meccanismo della propria vita.
Come il respiro e la pulsione del cuore non si lasciano autorizzare da nessuno, vivere dovrebbe essere la stessa cosa.
Imita il tuo cuore, che batte non curante e a prescindere da tutto, è un prepotente propulsore, una turbina che ti fa volare, attraversa il tuo sangue che scorre irrefrenabile, sei su un Kaite, libero di lasciarti portare dalla corrente della bonaccia. Osserva i flussi delle tue parole mentali, i tuoi pensieri, le sensazioni, le tue fantasie, fa quadri delle tue immagini, fa della tua vita la tua pinacoteca, riscaldati al braciere delle tue sensazioni, immergiti nei suoni dell’ orchestra della tua anima.
Rispetta il tempo ricevuto, non ne esiste un altro, è solo questo, è un dono gratuito, non ha chiesto i permessi; vivi come la natura fa, come un filo d’erba, che spacca il cemento, un raggio di luce che ti brucia la pelle, un germoglio che esplode, una cellula che diventa bambino, non chiedono carte da bollo o permessi per esistere; ciò che l’uomo blocca, imprigiona ed impedisce, è contro natura, la natura vince è libera. L’ autocratico, l’ autoritario, il dittatore, vincola, impedisce, frustra ed impone regole, controlla, autorizza a vivere su perverse proprie e precise direzioni.
giorgio burdi
ContinuaVERGOGNA ED IMBARAZZO
I freni al Tuo Big Bang
L’imbarazzo e la vergogna sono il peggior nemico dell’ espressione profonda di se, la cristallizzazione della naturalezza e della spontaneità, l’ altra faccia della medaglia della rigidità, amica delle corazze caratteriali, una tendinite dell’ anima, la negazione della bellezza. Sono le pasticche dei freni della vitalità e dell’ emancipazione dai luoghi comuni populisti.
Un bambino, per imbarazzo e vergogna è costretto a vivere dietro alle grate della propria ovattata prigionia dorata educativa, essa pone il confine frustrante tra mondo interiore, prospettive e il mondo sociale dei piaceri e dei giochi , irraggiungibile e pericoloso agli occhi dei suoi fobici adulti .
Un bambino che non gioca, fa il bambino adultizzato che da adulto farà l’ adulto Peter Pan. Un bambino imbarazzato è timoroso del mondo, violato nei suoi capricci, taciuto dalle diffidenze adulte, percosso e umiliato dai loro complessi, abbandona il contatto con se stesso e con la socialità diffidata.
Senza il contatto con la propria pelle non c’è vitalità , si delega sul contatto altrui. La propria pelle diventa la pelle degli altri, certi di esistere solo se gli altri ci sono. Questa modalità genera la frustrante paura per la solitudine e la frustrante persecutoria paura che gli altri abbandonino, tale da fomentare quella odiosa dipendenza affettiva delirante .
La pelle rappresenta il confine contenitivo e delimitante tra la nostra entità e il mondo. La pelle pone il confine tra l’ anima e la profanazione dell’ indiscrezione dell’ invadenza. Ogni parola azione rimbalza sulla pelle se non edifica, passa attraverso di essa se promuove e comprende, se la oltrepassa come una lancia, viola e traumatizza.
La prossemica è quella distanza metrica naturale che ci impone di tutelarci dalle altrui invadenze e di accorciarle quando c’è accoglienza.
Il progetto di approdare alla propria pelle, a Se Stessi, riordina l ‘ assetto verso l’ auto appartenenza, nemica della dipendenza affettiva.
La fobia che gli altri siano abbandonici, innesca un vissuto di irraggiungibilità di relazioni stabili, che fagocita nella rabbia, che il mondo sia ostico e squilibrante, tale da desiderarne la distanza. È la paura che gli altri abbandonino a condizionare gli altri ad abbandonare per l’ incertezza che suscita la paura .
O rimaniamo soli e odiamo il mondo, o impariamo a toccarci e a recuperare il contatto con se per sentirci e percepirci presenti a noi stessi e al mondo. L’ assenza del contatto con se, con il piacere di se e attraverso con la propria auto realizzazione, genera l’ assenza e la distanza dagli altri.
Se qualcuno ci ha violati, toccati, nostro malgrado, viviamo la perdita del confine, la violazione di quel preciso sacro confine esistente tra noi e il mondo. Si annida nella memoria la macchia da voler mantenere la distanza è il distacco da tutto per effetto della generalizzazione.
In analisi sradichiamo le loro mani dalla nostra memoria, certe parti di se che non venivano più considerate, riprendono a far parte di noi come legittimi proprietari . ci riconciliamo con noi stessi e con quegli altri che non c’entrano, condannando il solo violatore che ha profanato noi stessi.
Il recupero della propria pelle è il recupero della propria integra identità che si chiama persona e lo sradicamento e lo scollamento delle mani, dalla memoria, del demone dalla nostra pelle, è lo sradicamento delle loro mani, come delle metastasi dalla propria vita partendo dalla propria memoria, che rimane circoscritta in quel tragico ricordo deprivato dei ponti verso il presente. Questo è un modo metodologico per procedere al recupero del senso della propria integrità e del proprio benessere .
Nei casi di abusi sessuali la vera violenza non è determinata solo dall atto in se, ma dal radicamento dell’ esperienza traumatica, come metastasi immobilizzante la quotidianità.
La memoria del trauma viene percepita non come la memoria del passato, ma onnipresente nel qui ed ora, come un cancro di adesso.
La vitalità esiste innanzitutto nel contatto con se stessi e non con le aspettative altrui, attraverso le loro opinioni c’è l’ incertezza di vivere perché non sono le propria con la conseguente paura di essere sempre sbagliati, tentennanti come funamboli sul filo della vita.
Madre natura ci ha dotati di due gambe e due piedi per essere stabili e camminare su noi stessi, ma facciamo di tutto per camminare con i piedi e stare sulle gambe degli altri, vediamo con i loro occhi e con i loro valori non curanti del valore di noi stessi.
giorgio burdi
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Reazioni di Sissi
Diario, 1 novembre 2021
Sento le spalle chiudere il torace mentre mi guardi, mentre parli e mi chiedi qualcosa. Sono io che chiudo il fiore della mia anima con tutti i petali che conosco perché temo che a guardarlo se ne scorgano le sbavature.
Mi guardi, mi trafori, vuoi prendermi l’anima, gustarla fino a sputarla come se fossi il primo goccio di vino guasto. Tutto questo tempo a correre sui binari, sempre e solo binari, come recinti innevati dove raccogliere sogni e respiri; binari che per me sono la vittoria di sapermi al mio posto, nel posto che il mondo ha accettato di concedermi, un posto a cui mi sono solo adeguata e che non ho scelto.
Ed è sotto queste sembianze rattrappite, incolte, senza venature, che allungo il collo, lascio che il naso esplori oltre gli aromi e mi bevo i colori del mondo. Così brillanti, vispi, vivaci, veri.
E le profondità io le vedo, proprio perché mi sono negate, o forse qualcosa in me è portato a vederle. Quante crepe, quanta lava in questo corpo recinto dai binari della solitudine, da quei nodi rimasti incagliati nelle ancore di barche mai partite.
Ma com’è possibile che la solitudine sia tanto affollata? E sono sempre a chiedermi se il mondo si accorga che le orme che lascio sono orme di mostro, che ho la responsabilità di tutti i miei limiti, che sono un fascio fallito di emozioni belle e che mi chiedo quanto povera sia questa mia anima se non conosce amore, se non conosce carezze.
Quanto è difficile la gentilezza dell’intimo contatto per me. Se la immagino, quasi mi nausea. Eppure la sento in un posto remoto di me, un posto sigillato dall’esperienza di anni di sacrificio segreto e stratificato. Nel contatto mi pare esserci sempre un grido d’aiuto che io non ho energie per offrire. E lo sento sulla pelle quel grido: l’altro diventa lo sventurato che s’aggrappa alle pendici del burrone per non cadere.
Sono io quelle pendici e dell’altro mi rimane la disperazione, gli occhi gonfi di buio e terrore, mentre rimango solida per non farlo cadere. Ma la verità è che a furia d’essere solida mi son saputa friabile e son caduta io nel vuoto non sapendomi aggrappare all’aria, non volendomi aggrappare affatto.
Se ruoto gli occhi nel mio petto, so che esiste un altro tipo di contatto. Eccole, le vedo se chiudo gli occhi: sono due mani tiepide che s’accarezzano, due corpi che emanano calore e profumi a furia di baci infiniti, fiori dischiusi, brividi che scuotono anni e istanti, a seguire lo spartito del cuore che accelera per pompare più sangue, a far vibrare la pelle e il sesso con cerchi concentrici di piacere così simili a quell’acqua che si espande in cerchi sotto il tocco e l’ingresso di un sasso.
Come mi sento simile all’oracolo Cassandra nell’amarezza di sapere con gli occhi interiori questa vasta meravigliosa verità e contemporaneamente come sono simile a chi l’ascoltava nel non vederla fuori io stessa.
Da qui, come un marchio purulento, la vergogna d’essere me, d’essere i miei anni, d’essere la mia storia, di sentirmi il fallimento della naturalezza umana.
Fra questi binari, a sera, sospiro, m’accarezzo e m’asciugo leguance intiepidite dalle lacrime. Il calore che sento me lo dono come la promessa d’essere per me una mano d’intima gentilezza.
Sissi
Continua
L’ OPPORTUNISTA
L’ OPPORTUNISTA
Mi serve, lo uso, lo prendo, lo getto, è un domo pack, una prestazione d’ opera gratuita, una agenzia di servizi, è come uno scarabocchio nel cassetto, un appunto stropicciato, un barattolo nel cestino, un fazzoletto soffiato, un tovagliolo sulle labbra, un profilattico, una scatola di sigari, un vuoto a perdere, un cellofan dei biscotti, l’ acqua degli spaghetti, un sacchetto della spesa, un pranzo in una dissenteria, l’ umiltà in soffitta, il fumo di un toscano, un falò fatto cenere, un botto di capodanno, un battito di ali verso il cielo.
Può un uomo essere così fugace, consumato come uno stuzzicadenti, sola sorgente di informazioni, di prestazioni, di energia da utilizzare, un uomo mono uso usa e getta ?
L’ opportunista è un bulimico, ti fagocita, e poi ti sputa, è un ladro, fa furto del tuo tempo, delle competenze, ti usa, e non sta bene, si ricarica e scompare, dimentica, non fa memoria, è macchiavellico, il fine, è renderti utile, non fa riguardi , non è discreto o riconoscente, gli è tutto dovuto, si spaccia per amico, fratello o famigliare e alla fine, per completare la sua manipolazione, ti dice di volerti bene.
L’ opportunista, non tollera il no, è un manipolatore, adulatore, un affettivo di circostanza, è l’ amico su Facebook, è la bambola di gomma di Tinder, è un invadente, spregiudicato nel giudizio, si autorizza a fare interminabili domande, l’ antitesi della privacy, l’ opinionista è incompetente, è un conformista globalizzato, sa “come si vive”, da consigli non richiesti, è un invidioso, di chi l’invidia non la conosce.
L’ opportunista ti gira le spalle, se ne frega, “ l’ acqua passata, non macina più” , lontano dagli occhi, lontano dal cuore, passato il santo, passata la festa, è l’ uomo che vive alla giornata, domani ci pensa, cinico, ha la memoria corta, è scordevole ed obblighi non ha, ha l’ alzheimer da circostanza, “ Chi ha avuto, ha avuto.,chi ha dato, ha dato… scurdámmoce ‘o ppassato, Simme … paisà! “ . Tutti luoghi comuni, cosi tanto evidenti e presenti che impregnano la nostra cultura e la rendono insignificante.
L’ opportunista, è anche l’ uomo dei favori, che attende dieci volte il loro rientro, non è un meritocratico, salta la fila, è frettoloso, scavalca, arrampicatore sociale, quello dello status simbol, ama, quelli di “una mano lava l’ altra”, o “mi potrà essere utile”, ti promette, è un politico che baratta prestazioni e cortesie.
L’ opportunista è un pappone, un business man, uomo d’ economia, spilorcio d’ affari, barattatore, uno scambista, non spende mai è uno scroccone, fissato alla fase anale, vende fumo, va sempre al ribasso e ti rifila un mattone, alla prima occasione ti vende.
Ti frequenta finché produci, tu vali quanto capitalizza è un consumabile. Materialista spudorato, per lui sei materiale deteriorabile, nemmeno riciclabile, un fecaloma da espellere prima o poi.
L’ opportunista è un ricercatore di opportunità, di prospettive di un suo migliomento. Prendi tre e ne paghi uno.
L’ opportunismo è uno stile di vita dei peggiori vizi capitali di nuova generazione.
L’ opportunista è il materialismo della dignità, l’ assenza e la non curanza dell’ intelligenza, è la rappresentazione dell’ uomo oggetto, che lo vede schiavo. La rivoluzione contro l’ opportunismo è la riqualificazione per un uomo non riducibile ad oggetto di consumo, rappresenta il recupero del rispetto di se dell’uomo e della sacralità del proprio tempo.
giorgio burdi
ContinuaIL CAVERNICOLO
IL CAVERNICOLO
Inno al Codice Rosso
Il cavernicolo è un Intellettualoide, non scolarizzato, vive dalla pancia in giù, cultore del muscolo senza pelo, è uno dalle frasi fatte, affogato di Instagram, si fa di di aforismi, allenatore di bicipiti, esteta brizzolato, figùrino gonfiato, big gim depilato aitante o un vecchio gelatinato, allampadato, attempato rimorchia bambine in Rolls-Royce, un pedofilo, un demone che veste Prada, indossa scarpe di vernice, beve birra alla canna con la narice infarinata, ramingo per i viali, con i pantaloncini e il pacco stretto, pesca negli ipermercati, pronto ad intercettare e con rozza eleganza tenta di rimediare e arruolare.
Il cavernicolo, è un uomo nato xy, ma involuto ad xxx, un homo Sapiens, depilato col Rolex, navigatore di pornhub, pornoroulette e sex cam, traffica in adult friend, badoo, tinder e bumble, kiss kis e sex action, adescatore e vittima nel cyber sex business, residente in un sotto sotto bosco di dipendenze, la sua curiosità si fa ricerca proibitiva, sconfina nell’ orrido, vive nel no limits delle manie, delle sue parafilie, è preso da tutto ciò che lo può rendere posseduto.
I cavernicoli sono persone molto sole, ti fanno tenerezza, perduti nella loro disperazione, sono vampiri che affilano i loro canini, sbavano come iene affamate, hanno la mascella dura di chi spacca le ossa, non sono onnivori ma sensibili carnivori, mirano, puntano e schivi con passo felpato, inseguono la preda, pronti ad assediarla, raggirarla e ed assalirla come carogne.
Per il cavernicolo le donne e le pargole sono carni succulente, agnellini da latte, le assapora e già al pensiero, le rigetta con lo stuzzicadenti, le tratta con cinica supponenza, subdola aggressività passiva, sono serbatoi da riempire, bambole gonfiabili, bocche insaziabile e gustatrici, mucche e roditori slabbrati, al loro passare sbrodola bava come una carogna affamata.
È viscido , bugiardo , sadico, ha una intelligenza da macelleria, e’ grezzo, maleducato e volgare, fischia, dopo il servizio, si gira e russa, resta appiccicato ai suoi social e va via, e’ avaro da fare spavento, non condivide nulla, vive di caccia, alla giornata, non ha progetti, sfrutta finché può, ostenta ciò che non ha, non fa accordi di se stesso, è un indeciso cronico, e’ superstizioso, gira in casa in mutande, bacia in bocca e si struscia sui figli.
Non ha ritegno, ha lo sguardo sudato da lumaca, sembra toccarti e violarti con lo sguardo che oltrepassa quel sacro confine del tempio umano, sembra sporcarlo, sfregiarlo con le sue mucose, come sbranasse un entrecôte; è maldestro, grossolano, si muove come un elefante, ti parla come da padrone, le donne sono piccole schiave di desideri da acquistare e scambiare, racconta le sue prodezze e delle sue collezioni, ad ogni suo comando, gli devono obbedienza e dedizione, perché gli appartengono come gheshe.
L’ abuso, rende forte il cavernicolo e con la vittima, custodi di un segreto inammissibile, attraverso il silenzio, il tacere fobico omertoso, quasi condiviso, li rende complici e paradossalmente uniti in un riserbo da nascondere. È reso forte dal senso di colpa della vittima e dall’ imbarazzo di questi di essere quasi colpevole, ma verrà tradito dall’ urlo dei sintomi che irrompono e sgretolano l’ incantesimo dell’ indugio, lo sbattono prima o poi nell’ angolo tra le grate, da farlo sentire prima o poi vittima pietosa.
Se il cavernicolo è viscido, osa guardarle, se è meschino, parlarle, il peggiore si avvicina per toccarle, il mostruoso vuole entrarci, ognuno ha un suo modo, uno scopo, poterle offrire ai desideri dei propri demoni commensali.
Il cavernicolo è lo irriverente della dignità femminile, un demente che vive in tana, un abbagliato in uno stato di latenza, orientato dall’ olfatto, vive tra sento e faccio, dove nel bel mezzo ha solo poche riflessioni; vive agli angoli dei bar, appoggiato ad un palo, attaccato ad una canna, ha gli occhi a ventosa, è l’ uomo della pietra che vive sulla strada, estimatore di carni fresche bianche, striscia, tira, pippa, si buca e beve e con il cialis in tasca esalta la sua scimmia che con i pugni fa da tamburo sul suo petto.
Il cavernicolo è un molestatore seriale ambulante, non devi far fatica nel cercarlo, lo incontri in ogni dove, appoggiato su una ciabatta, vive col prurito, attivo come un radar, si gratta senza ritegno, e non lo fa per sola scaramanzia, ma per ostentare la propria impotenza ed alleviare i suoi calori.
Sono dispensatori di sofferenze, mediocri, inquinatori, omicidi dell’ anima, fanno della donna il loro ammortizzatore sociale, il pungiball della loro madre subita ed abbandonica, per loro le donne sono una onlus, una vetrina, una luna park che far girar la testa.
Il cavernicolo è un mercenario, un collezionista di sagome di gomma e di cartone, vede le donne come delle gif, bit, jpeg ed mp4, mercanteggia con i suoi intercalari, non sa parlare le baratta e la scambia come un mercenario di schiave, pretenzioso, è un dispensatore di umiliazioni e di offese, facile all’ oltraggio, incline a sminuirle, si nasconde in spallate o ginocchiate, non lascia segni se le picchia, propenso a far volare oggetti e a far finta poi di niente, lo sveli nei suoi folli scatti e se lo molli con fatica, cerca poi la tua amicizia, per poi riprendere la giostra;
ti punta, prende la mira e tira, come cupido senza amore, è una mina vagante che impreca come un persecutore, non conosce casa, vive sul suv, su quattro copertoni, si nasconde come una talpa e dice sempre le stesse cose, scoordina parole, balbetta pensieri, biascica versi, è un mulo ostinato che raglia, un automa insolente, le sue tensioni si scaricano in una pippa o in un bianco pecorino.
Ciò che deve fare lo fa, ostinato, dalle unghie sporche, sudicio, vive nel sudore, si lava poco ma si improfuma tanto, si lancia come un avvoltoio sulla sua tenera preda che soffre, la fantastica già al sangue, adesca se vive nel dolore e di questo ha un merito, è uno specialista e dice che è un benefattore, consuma piano e con gusto ed è convinto che consola e le sue pene; è un mastino da caccia, da combattimento, tormentato, usa la tecnica della fratellanza e della cortesia, la sua meta è la conquista della vetta del “traforo” .
L’istinto non ha limiti, non usa la testa, ma se quest’ultima ci fosse, sedurrebbe, si evolverebbe in conquista; il cavernicolo non è un problema di cultura o di maschilismo o di deviazione psicopatica da profanare l’ opera d’ arte femminile, ma un problema di involuzione umana.
Il codice rosso è la saggezza per difendere il diritto che non si dovrebbe regolamentare, perché è innaturale dover riconoscere quel diritto naturale all’ esistenza dell’ essere donna.
Nasciamo e siamo un po’ tutti dei cavernicoli, ma ciò che ci differenzia è riuscire a superarci per evolverci dal fango, perché si emancipa dalla caverna, chi non resta aggrappato alla sua clava, chi si cura, si apre alla sua anima, chi incontra la propria umanità, chi si legge e scrive, chi prende matite, penne e pagine, per spiccare il volo, dal proprio buio verso il cielo infinito del rispetto di se, della sacra vita delle donne degli uomini , della natura e di tutto il proprio prossimo.
giorgio burdi
ContinuaIL SENSO DI COLPA
IL SENSO DI COLPA
La dittatura dei sensi di colpa
L’ errore possiede per sua natura il suo acerrimo antagonista, il senso di colpa. Senso di colpa ed errore sono accesi ed accaniti nemici, incompatibili onnipresenti ed indissolubili tra di loro, complementari e conviventi, due nemici su un identico argomento, conviventi della stessa stanza, opposti come il bianco e il nero, l’ olio e l’ acqua.
Ognuno di loro si accompagna col suo perfetto diffidente e sconosciuto, quello col quale litigare necessariamente e in continuazione. L’ unico loro scopo di vita è restare in un conflitto procrastinato. Hanno però un compromesso, ora predomina l’ uno, ora predomina l’ altro, consapevoli di ciò che li attende, la tra di loro esplosione, il loro prossimo e successivo conflitto a fuoco.
La loro è una convivenza dedita alla cinica critica, al sarcasmo, al divorzio garantito, divorzio che non avverrà mai, perché colpa ed errore fanno parte della stessa persona, resa schizoide, divisa e lacerata dentro, dalla loro dualità, divisa e piegata in due, segregati nella loro prigione a porte aperte, arenata nei suoi processi decisionali che la rendono incerta e insicura, perché tra colpa ed errore si resta sempre eternamente in sospeso, appesi ad un filo.
È la natura dello stesso legame divorzile che lo rendono in relazione e lo tengono insieme. Quante coppie vivono tra tra colpa ed errore; c’è l’errore e c’è la colpa, c’é sempre nella coppia divorzile chi sbaglia e e di chi accusa l’ errore.
Si immagini lo strazio e cosa possa accadere se ognuno si trovi nella condizione soggetta e divisa tra errore e colpa, in questa condizione, i due della coppia fomentano e lavorano per la rottura, verso un divorzio annunciato.
Mentre l’ errore rappresenta sempre L’ affacciarsi della novità, esso diventa il centro del problema, mentre il senso di colpa si pone come la tradizione, è il perfezionista, il super Id, l’ alter ego, il dominus, è il numero due che per quanto possa essere secondo, per sua autocrazia si rende sempre primo, la colpa si rende moralizzatore e di crede normale, se il senso di colpa avesse la capacità di mettersi in discussione, non sarebbe un senso di colpa, esso ruota attorno all’ errore, è il suo persecutore, per contenerlo e redarguirlo, gioca sempre in anticipo, lo segue durante, ed è innanzitutto è successivo, non lo lascia mai.
il senso di colpa, in quanto persecutore, rappresenta il senso di appartenenza agli altri, l’ abnegazione missionaria, è il missionario, salvatore apparente della patria, il soggetto si lascia fagocitare a vantaggio delle giustizie altrui e il posticipo coatto e l’ annullamento delle proprie. Il senso di colpa ha la peculiarità di posticipare se stessi a tutto. Si rifà al senso del fanatismo religioso come un mafiofo che prega prima di compiere il suo omicidio.
Esso è quella madre simbiotica col figlio nel loro complesso edipico, con ella il figlio non ha possibilità di errare, perché l’ errore sarebbe un’ onta contro la madre, quella stessa madre in virtù della presunzione della sua gestazione, diviene gestore del figlio come se ella fosse proprietaria del figlio.
L’ errore è sempre reo, la causa di tutti i mali, di tutti i dispiaceri, delle sltrui infelicità, dei disappunti e di tutte le rovine, esso è ossessivo se è represso parte in quarta, va a ruota libera, passibile di denuncia e di processo penale, civile; il senso di colpa è un tribunale inquisitorio, ma è anche l’ alibi di tutti i reati, colui che non vuole né vedere né sentire, né parlare, è anafettivo, poco disponibile ma occhio onnipresente, bacchettone, col fiato sul collo e il dito puntato, è cieco, è intollerante, giustiziere ma anche giustificatore del dolore generato, severo, autoritario e clemente, esso possiede l’ ambiguità di un bigotto, un grande ipocrita che non sa decidere, né prendere posizioni, è frenato, non conosce intraprendenze, innovazioni, è un convenzionale, è un paranoico oratore che ti parla addosso, complottista, populista, è la voce del popolo, si crede essere la voce di dio, è la voce delle convinzioni altrui e degli stereotipi, è l’ azione della latenza e del gregge, il senso di colpa è l’ immunità di gregge, è il mister no, immobilizzato sui valori globalizzati e su qualsiasi impulso, frenato verso lo slancio o sospirato desiderio, freme, ha la sua tenso struttura che lo lacera e lo schiatta; ha la pezza pronta a colori, giustifica ogni sua inezia ed inerzia, è un paraurti, un demente senile, non concepisce il rinnovamento, la scoperta, è un antiriformista, biasima il progresso, è tradizionalista, lustra la sua pedina penale macchiata, ricopre le macchie del suo casellario giudiziale, è un assolutore pur essendo un accusatore, è l’ immacolato, è il senza colpa, senza macchia, è il puro di cuore, il confessore degli atti impuri, è un pauroso, frustrato, ma altolocato aristocratico, borghese, perbenista, giudice parziale, mai a proprio favore, sentenzioso.
Il senso di colpa ha sempre l’ alibi dei valori, si rifá e si rimette sempre alla convenzione dei codici dei valori, peccato che tenga conto dei soli valori altrui.
L’ altro comunque è sempre un valore, a prescindere, e noi no ? Ma nella relazione il valore lo si perde se è privo di rispetto, se diviene assenza, violenza e trascuratezza, anaffettività . O bisogna giurare fedeltà comunque a certi valori?
L’ errore si presenta sempre come un anti valore evidente, Non c’è invece valore più grande, se non Te, non ci sono teorie sui valori che tengano al di fuori di questa dimensione: il valore è il rispetto, l’ amore e la considerazione di se.
Il senso di colpa trova la sua nascita, la sua ezio patogenesi sempre nell’ errore e nel primo rimprovero, esso è il suo umus, la sua radice, è un derivato, la sua coltura batteriologica virale, il senso di colpa è la sanguisuga dell’ errore che è il suo sangue, non può esistere senza di esso, morirebbe, è uno sciacallo, una carogna, un vampiro che si nutre del sangue degli errori, non c’è senso di colpa senza errore, non prolifera senza di esso.
Chi preferisce non aver nulla a che fare con l’ errore, è uno che ha paura del rimprovero, rinuncia ad un suo nuovo percorso di sperimentazione per tener a bada il probabile fallimento e le dicerie del numero due. Il numero due è il perfetto alleato della colpa del cosa devono dire gli altri, perché l’errore è il rappresentante del numero uno, del nuovo, del non sperimentato e dello sconosciuto, è un pioniere alla ricerca di nuove frontiere e territori, l unico che permetta la svolta e il cambiamento, trascendere la stasi e la regressione,ha per questa una natura fastidiosa e lacerante. Ogni emancipazione è un parto a vita nuova, un Colosseo in pieno vissuto, dove l’ errore è il vero protagonista come fosse un gladiatore. Il potere talmente lacerante tra errore e colpa risiede esattamente nell’ intercapedine tra numero uno e il numero due.
Il senso di colpa viene vissuto cone il tabernacolo del sacro, un vero e proprio indiscutibile angelo custode, mentre all’ errore viene riconosciuto ed attribuito un ruolo ed un potere di demone, malefico, il tentatore, la mela dell’ Eden, che chiamerei, per la natura del suo potere attrattivo, passione, diavoletto custode.
L’ errore si pone esattamente come la mela dell’ eden, bella, fragrante, profumata, lucida, croccante, succosa, succolenta, seduttiva, da mordere, succhiare, leccare, profumare, gustare, tritare, ingoiare, consumare, distruggere, assimilare, tanto da diventare se.
L’ errore ha un potere altamente seduttivo, nutre il bisogno di voler consumare la conoscenza, possederla e e assimilarla.
Ma come ragiona chi è posseduto dall’ angelo del senso di colpa ? Esso Preferisce restare tranquillo, sereno nel suo paradiso virtuoso, governato dal suo angelo che reclama ed impartisce segnaletiche di immobilismo, preferisce star fermo e stabile, a costo della sua paralisi e del suo decesso, piuttosto che essere preda del potere seduttivo dell’ espansione della propria conoscenza. Il libro della Genesi dell’ antico testamento recita: “Hai voluto mangiare dall’ albero della conoscenza e dovrai errare per sempre” . La passionalità per la vita sprona oltre ogni orizzonte, essa è alla base di ogni forma scientifica che pone in osservazione di quei fenomeni per controllarli ed orientarli. La serenità che propone il tempio della colpa, proclama l’ arretratezza, mentre l’ errore proclama la ricerca e la formazione.
Il senso di colpa è il senso di responsabilità, è il senso del peccato contro gli altri, è il proprio sangue che scorre nelle vene altrui, è la dedizione ed il sacrificio di se per le rassicurazioni altrui, è la residenza del mondo in casa propria, è la socio personalizzazione di se stessi, la riflessione degli altri nella propria testa, è la più alta forma di de personalizzazione di se sostituita dal mondo, è la profanazione della propria opera d’arte e del sentire profondo del numero uno a vantaggio del numero due.
L’ errore è un partigiano ribelle e coraggioso, liberatore dei nuovi territori, occupati dai vandali delle colpe; il senso di colpa è l’ invasore discriminante, è il regime, la dittatura, è l’ oppressore, il despota che non conosce la libertà, ma la sudditanza alla tirannia.
Al senso di colpa bisognerebbe sostituire e restituire il senso di realtà e poterla cambiare.
giorgio burdi
ContinuaL’ ERRORE
L’ ERRORE
Una energia invisibile
Chi non si autorizza a sbagliare, sbaglia per tutta la vita, non vive perché vive per temere la paura, l’ errore, i conflitti, i dolori, i sintomi.
La perfezione ha come deposito l’ autorimessa degli errori, è il suo più alto scalino, è l’ ultimo gradino dele sottostanti cadute, la perfezione è appesa ad un filo, è fragile, è sempre precaria, è l’ ultimo anello della catena di errori.
L’ errore è potente, ha energia, è la condizione solida che sbraita e litiga con la perfezione di un istante, ogni successivo evento parte sempre da un movimento di incertezze, di insicurezze, di cadute e di ricadute, la perfezione viene sempre anticipata da processioni di inconsistenza, effimero e di dubbi, per celebrare a fine del percorso, una faticata perfezione per poi riprendere il giro in una situazione nuova, dall’ errare della partenza alla aspirato miglioramento. La perfezione è l’ apice delle molteplici sconfitte sottostanti.
L’ errore ci salva la vita aiutandoci con forza nel prendere, sia decisioni che la direzione, che la paura paralizzante ci impedisce. Il coraggio e la capacità di sbagliare sono delle attitudini potente, se lascia la piena consapevolezza dell’ errore, ci rendono propensi verso il superamento dei conflitti, mettono in discussione determinati sistemi e ci orienta verso la soluzione.
Il miglioramento è la laccatura e la finitura e la lucidatura oppure è la dell’ imperfezione grezza, avviene attraverso sequenze di nuove conoscenze e di nuoviapprendimenti. Tutto ha inizio attraverso l’ intuito che procede, se si da seguito, attraverso la curiosità, la prova, gli errori, la riprova e la lucidatura, esiste una procedura verso la perfezione come una filiera dell’ eccellenza orientata sempre piu verso il perfezionismo.
L’ errore consolida l’ intuizione, avvia verso un prodotto agito e continua e produce, attraverso la riprova, nuove informazioni e conoscenze, che nel miglior dei casi, si fanno progetto ed invenzione.
Gli errori però sono il precursore dei giudizi, dell’ oppositività, dell’ evitamento delle relazioni e della chiusura al confronto; sono un inibitore momentaneo della riflessione, rappresentano il freno dei processi di ragionamento e del pensiero e delle emozioni, gli errori terrorizzano, vengono perseguiti come bisogno umano del no limits, ma anche temuti, ti fanno toccare un fondo che più fondo non si può, ma che oltre il quale ti pongono la salita, con nuove rinnovate informazioni per cambiare e proseguire oltre l’ errore.
L’ errore rappresenta la negazione di se e allo stesso tempo rappresenta il divenire di se, l’ errore è la messa in scena iniziale del mancato protagonismo, pone il passaggio, con escoriazioni, dall’ inesistente all’ esistente, esso rappresenta il tentativo e lo strazio per far emergere, affiorare e partorire il proprio numero uno, l’ essenza di se.
L’ errore ti immerge e ti affoga, si pone come una bolla, tra la negazione del numero uno e la sua emersione.Nulla si può migliorare, se non attraverso ciò che non è migliore. Non può esistere perfezione senza imperfezione, l’ una richiama l’ altra, sono le facce di una stessa medaglia, sono un binomio indissolubile. L’ errore è formativo più della perfezione. Una vita costernata da errori, angusta, attonita, sfiancata, senza fiato ne parole, se non ti blocca, rende tanta forza e miglioramento e saggezza.
Gli errori vengono personalmente tollerati, ma umiliano se scoperti. Ci spengono la parola e la ricerca del dialogo, avviano quel processo di introversione sociale. Essi Mettono in condizione di essere bloccati ad un fermo biologico di morte.
Quando l’ errore è rimediabile o devastante ed irreversibile, malgrado tutto trae sempre risposte, è sempre formativo.
Comunque sia, l’ uomo non è mai l’errore che compie, ne il peccato che fa, essi non rappresentano la sua essenza specifica e la sua qualifica, non può identificarsi con l’ azione o il pensiero errante che fa, egli è un miliardo ancora di pensieri e di azioni che fa, l’ errore è nel percorso, a volte è lo stesso tragitto, ma l’ uomo è tanto di più, è il centro del suo creato, l’ universo esiste solo perché c’è lui a percepirlo, come se fosse lui stesso a crearlo, è tale perché capace di trascendersi e di superarsi dal suo status profano al sacro, dall’ errore al migliore di se, dall’ uomo a Dio.
Ma sacro e profano sono indissolubilmente le uniche facce che costituiscono un essere umano, sono il suo animale e il suo individuo, è l’ homo di Neandertal nell’ homo Sapiens è l’ analogico e il digitale, il sentimento e la ragione, la notte e il giorno.
L’ errore è come la notte nel crepuscolo che segna le sfumature con lo splendore perfetto della luce del giorno. Come non può esserci un giorno senza notte, è impossibile la perfezione scissa dall’ errore.
L’ errore non è mai tale quando viene vissuto, ma lo diventa attraverso le sue conseguenze. La metafora del rimettersi in piedi dall’ amalgama di fango, rimanda alla capacità di risollevarsi e di porsi sulle ginocchia da stesi a in piedi, rivedendo nei piedi la memoria della loro funzione primaria, che siamo nati per stare sul nostro asse, siamo onto geneticamente nati per stare in piedi, la nostra positività è insita nel nostro istinto di vita, siamo al mondo per stare sulla nostra perpendicolare, eretti, con la testa irta, verso l’ equilibrio, per riprendere sempre un altro nuovo cammino, ci
Sussurriamo un invito a riprovarci, a vivere ancora, attraverso la speranza fiduciosa di un cambiamento più arguto e piu forte, siamo orientati sempre comunque a vivere e a sbagliare.
L’ errore è energia, e l’ enegia come quella del vento, del sole, dell’ amore, della corrente elettrica, del magnetismo, dei pensieri, del sole, delle emozioni, non si vede, ma c’è, l’essenziale è sempre nvisibile agli occhi, esso è il detonatore della crescita e dell’ evoluzione, è
l’ abc delle metamorfosi, è insito nel processo dell’ evoluzionismo, come un filo sottile d’ acciaio portante della crescita, è la base dell’ umanizzazione.
Chi sbaglia vive, chi non si muove, muore. L’ errore è energia, perché è l’ abc del divenire non ancora divenuto, è l’ imbastitura che precede la cucitura del processo dell’ evoluzionismo.
Un embrione che diventa feto e poi nascituro, si puo nai considerare un errore ? Non è semplicemente completo, è solo in in un orocesso di attesa e di crescita lenta, ma inesorabile, prepotente e complesso. L’errore infatti è tutto un corpo con l’ embriogenesi e del progetto di vita e della perfezione.
La stessa ansia per l’ esame, per una relazione, per la ricerca di un lavoro, rappresenta la paura di cio che deve ancora avvenire, si presenta come paura del fallimento, per le sorprese e per il non ancora avvenuto, si oresenta come elemento di disturbo, come fastidio che spinge al superamento dell’ errore, ma necessaria per partorire un arrivo a tempo determinato, ma felice.
La perfezione non è mai tale, se non si erge su una catasta di uno sfascia carrozze. L’ errore per sua natura spinge al supersmento del suo stesso limite, per tanto non è mai. Per chi osa l’ errore, non esiste l’ impossibile, sa che per rendere le situazioni avverse, possibilità, dovrà confrontarsi con l’ errore opportuno.
Errore ed opportunità sono il binomio di una stessa equazione, quando il limite non arrende o stende, cede il passo alla sfida, è possibile il successo.
giorgio burdi
ContinuaLA GIOSTRA IN TESTA
Marcel Van Luit è l’ autore del dipinto, ispirato al film Artwork Willow , elabora, per la sua realizzazione, sotto forma iconica, la citazione: “The mind reflects the world, and the world reflects the mind”.
C’è una presenza, un assioma, un minimo comune denominatore umano che accomuna tutti: il caos di se, la sofferenza e il bisogno di gioire, che ruotano in testa come una giostra da capo giro. Leggendo solo il termine sofferenza, si avverte una reazione ripugnante, il desiderio di chiudere e cambiar pagina.
In realtà quando adoperiamo la fuga dalla sofferenza, non la evitiamo affatto, ma la subiamo, ci poniamo come soggetti passivi, tanto da esser messi in ginocchio.
La sofferenza, per quanto si possa scansare, è invece una macchina diagnostica a raggi X, una bilancia digitale, una ruspa per lo smaltimento rifiuti ,essa esegue lo screening di quello di cui prima si era inconsapevoli, pesa l’utile e butta il futile.
Se fosse una blogger la sofferenza avrebbe 7 miliardi di follower, quanti siamo sul pianeta. Chissà se un giorno la scienza inventerà un vaccino, contro di essa, una chimera, senza effetti collaterali, da augurarlo ai futuri nascituri.
Per fortuna Dio ha creato la risata, diciamo un medicinale omeopatico sublimatore a costo zero rispetto al peso della sofferenza.
La sofferenza è quel millimetro che fa la differenza per avviare la rottura o il riavvicinamento, delimita il confine tra l’ asfissia e l’ aria aperta, è una pet che non si perde nulla, è il sale nel caffè, è la glassa di zucchero, miele e panna che fa irritare le papille, è una rocca a difesa del re, è il centro del mare aperto, dove, perduto, cerchi di nuotare, è un pettine tra i capelli che tira i nodi.
La sofferenza è un rastrello sulle foglie secche, è il tac delle potature, l’ inverno che ghiaccia la vita, il sole che brucia la pelle è il monossido di carbonio, è la diossina, è l’ aria rarefatta, l’ aria che ti manca.
La sofferenza, dice la verità, esterna quella nascosta, sottaciuta e inammissibile, è un funambolo che ha come certezza solo il filo, è un urlo di ribellione che brama l’equilibrio, la terra ferma, la soluzione, è ciò che da la sensazione di essere vivi, è la via di mezzo tra ciò che non è vita e il respiro, conduce solo e sempre verso di te, all’ unica casa sicura e possibile; la sofferenza è quel bisogno ineluttabile di sfidare gli equilibri, è il no limits per l’ ingordigia del voler sempre di più o la discrezione di non pretender nulla o di perdere tutto.
La sofferenza, nel suo orizzonte, si pone come un confine verso la consapevolezza di se, consente di distruggere e distinguere l’ effimero dai contenuti fondamentali.
Il dolore, i sintomi, creano e segnano il passo alle priorità, getta via tutto, fa la differenziata in immondizie varie, ricercano il vero e i valori. Tentano di scollare di dosso quei veli di cellofan di ipocrisia asfissianti.
Le sofferenze detestano ed hanno come cause, la menzogna, l’ ipocrisia e la bugia, l’ invidia, l’ arroganza e l’ assenza, l’ incomprensione, la violenza, l’ oltraggio dei diritti e l’ indifferenza, la perdita del rispetto.
Esse coercitano a guardarsi seriamente dentro e fuori e ne giudicano il senso delle cose, orientano verso lo sgretolamento di certi veli di idiote convenzioni populiste.
Se la vita in apparenza è un olio di mare visibilmente calmo, non c’ è motivo di cercare il senso delle cose, quando tutto fluisce scontato, normale, non si pongono domande esistenziali, esse annoiano ed indispettiscono quel banchetto goliardico;
verosimilmente, attraverso le difficoltà della vita quotidiano, ci si intriga ed incastra con il mondo, in un attrito viscido, attraverso muri di incomprensioni o dossi di sufficienza e indifferenza, che pian piano trivellano la memoria del proprio sottosuolo da far sgorgare quel nero di sofferenza.
In quella trivellazione si scopre che certe verità esistevano da tempo e l’ opacizzazione dell’inconsapevolezza, offuscava la loro vista.
Quando inaspettatamente sorgono domande esistenziali, sul perché della vita e della sua fine, esattamente in quell’ istante, un uomo sta già cambiando, sta già mollando la tenso struttura del suo umore e sgretolando quella cataratta di opacità che lascia abbagliati, e ci richiama ad una vita minimal ed exenzial , meno ipocrita, meno corroborata da suppellettili, surrogati, comparse, ninnoli, soprammobili e figuranti.
L’ ipocrisia è la sede della vita normale, quella delle apparenze e delle inconsapevolezze, di tutto ciò che accade perché deve comunque accadere, tutto viene vissuto come predestinato in una corsa irrefrenabile.
La sofferenza rappresenta la chiamata all’ esistenza, alla messa in scena del proprio protagonismo, oltre il confine della comparsa e dell’ ovvio.
La giostra in testa che tutti abbiamo, va ascoltata nella sua musica e nel suo frastuono perché, sia la musica che il frastuono, sia la voluttuosità che la vulnerabilità di essa, se accolte, ascoltate ed agite, ci indicano la strada migliore verso la propria felicità .
giorgio burdi
Marcel Van Luit
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