Perfezionismo
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE IL PERFEZIONISMO
PERFEZIONISMO
Il perfezionismo, per quanto possa apparire tale, al contrario, rappresenta una delle tante facce dell’ insicurezza. Esso è un abito indossato di una genitorialità severa e direttiva, forgiata sui tanti limiti subiti, tali da sviluppare manie di onnipotenza.
È un lifting, una liposuzione, un rigonfiamento botulinico, con lo svantaggio inconsapevole di procurare una deformazione sulla personalità, scolpita e levigata sulla base di un protocollo.
Il perfezionismo è una ossessione per il miglioramento, per la disciplina e per un certo rigore d’ ordine, del tutto soggettivo; tutto deve essere orientato verso la condizione ottimale e giusta, perché la mente è ubicata di fatto nel caos. Chi non sopporta i rumori è perché ha l’ ingombro in testa, non ha spazio per i suoni. Così l’intolleranza e la lotta verso l’ errore, rappresenta un’ altra peculiarità del perfezionista.
Egli è colui che fa della propria perfezione, una inconsapevole imperfezione, col bisogno di individuare i difetti in tutti gli altri, da ergersi come il meno imperfetto, il migliore. Il perfezionismo è generazionale, passa di famiglia in famiglia, di secolo in secolo, appare come un bisogno onorifico di emancipazione, invece rappresenta una paranoia, una cristallizzazione ed un astigmatismo della realtà. Rappresenta l’ annientamento, la lotta contro le diversità, tutto viene livellato secondo un proprio cliché, che si spiani verso un modello omogeneo standard, socialmente accettato e condiviso.
Il perfezionismo è una dispercezione, un meccanismo di alterazione della percezione di se e della realtà, si riconduce ai disturbi specifici dell’ apprendimento DSA; una parte dell’ apprendimento verrebbe distorto e modificato sulla base di processi interpretativi soggettivi. Le informazioni acquisiscono significati differenti da quelli che la realtà propone.
Presupposto che ognuno è diverso dall’ altro, possiamo affermare che ognuno è perfetto per quello che è, per via delle proprie unicità e diversità, esattamente come per la Bella natura, il perfezionismo rappresenta il di più, la pacchianata evidente, la maschera, il copertone, la saccenza , la storpiatura, la nevrotizzazione del soggetto, rappresenta l’ esordio di una lotta contro l’ umanità, basti considerare la folle selezione della razza ariana.
La mania al perfezionismo possiede una elevata forma di predisposizione verso l’ ossessione, la compulsione, la paranoia, la socio fobia, la socio patia e la psicopatologia.
Il perfezionismo riporta in ballo sempre un modello di riferimento al quale ispirarsi, uno stereotipo ben delineato, sulla base di congetture educative, religiose, etnico politiche.
Il perfezionismo rappresenta tutt’ altro che un miglioramento, non lo legittima affatto, ma rappresenta la perdita per eccellenza di significati ed uno svuotamento delle potenzialità umane.
Il perfezionista pertanto ha sempre un modello di riferimento, persegue come un automa e in modalità ostinata ed automatica, un determinato schema, tale da poter affermare il suo modello di riferimento, ma di fatto attua la sua più elevata forma di deviazione da se. Diviene l’ ombra di se stesso.
Gli acerrimi nemici del perfezionismo sono, la creatività, la naturalezza, la spontaneità, l’ affettività, i sentimenti e le emozioni. Per esso tutto ciò rappresentano errori e limiti, da evitare, sono il freno e la spaccatura nel raggiungimento del modello, perché conducono fuori dal loro perimetro di riferimento.
Un perfezionista deve rigorosamente essere anafettivo, sempre preparato e pronto nelle sue risposte, manager di se stesso e degli altri, h 24, ma non potendo garantire costantemente le aspettative per l’enorme sforzo richiesto, il più delle volte si defila e riappare nel massimo della performance; l’ imprevisto e l’ improvvisazione lo fa impazzire, lo fa dissociare, lo svela, lo rende per quello che è, timido ed impacciato.
La mania del perfezionista è il controllo su di se ed innanzitutto sugli altri, per poter mantenere in auge la sua immagine. Senza di esso c’è la crisi, la fuga dalla realtà. Il perfezionismo è un limite che genera un limitato, un formalismo, produce un soggetto che non vive, con un disagio di accomodamento e di rigidità, fino a quando non raggiungerà il modello da esibire, fiero da ostentare il suo narcisismo patologico.
giorgio burdi
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IL PERFEZIONISTA
Il perfezionista non si sente mai pronto, mai sicuro, mai abbastanza. Ogni occasione lo trascina nel vortice dell’incertezza, dell’insicurezza profonda di cui è artefice nella sua confusionaria mente.
Controllare ogni cosa, ogni movimento, ogni parola, ogni situazione, tutto deve essere sotto attento e vigile controllo. Tutto. E se qualcosa dovesse sfuggire, il perfezionista-insicuro, impazzisce: inventa, fantastica, favoleggia, sogna ad occhi aperti. È la sua verità e guai a smentirla.
È reale, così reale da poterla toccare con mano. Si brucia ma non gli importa, perché è soddisfatto della SUA verità. Nel suo caos vede l’ordine, nella sua chiusura mentale vede orizzonti.
Alla continua ricerca di una perfezione irraggiungibile, vive la sua frustrante e superficiale esistenza non rendendosi conto del male che crea a sé stesso e a coloro che ne vengono a contatto.
Il perfezionista si guarda allo specchio e non si piace. Non si piace mai. Tutti sono migliori di lui anche se non lo ammette. Tutti sono più belli, più preparati, più comunicativi, più intelligenti, più socievoli, più carismatici, più.
Il perfezionista è una persona irrisolta, una persona che giustifica le sue sconfitte con la scusa dell’essere un “perfezionista”. In questo modo la sua coscienza è pulita, si giustifica sempre : “Io sono un perfezionista, che cosa ci posso fare?”, “Io sono un perfezionista, o lo faccio bene o non lo faccio per niente”.
Il perfezionista è terrorizzato dal confronto. Vive nella perenne paura di essere rimpiazzato, di essere giudicato e messo a paragone con gli altri. E questa sua paura lo rende fobico e solo. La sua mente è un turbinio di raffronti, di ansie e preoccupazioni. Si sente unico e allo stesso tempo, immobile e rimpiazzabilissimo. Il perfezionista è un controsenso vivente.
rossella ramundo orlando
ContinuaVibrazioni
VIBRAZIONI
Esercizio per vivere il qui ed ora
La vibrazione di uno scalpello pneumatico che demolisce per ricostruire, quella di un diesel che parte, della turbina di un volo Ryan. La vibrazione ematica nelle arterie pulsanti, le note ritmiche dell’ amore, piano, forte, le convulsioni di un orgasmo, di una foglia al vento, il profumo di un risotto alla crema di scampi, dell’ oscillazione delle corde di una cetra, del canto di un soprano che fa riga un cristallo, l’ urlo di un uomo che invoca Geremia, la voglia irrefrenabile di un passate che vuole parlare, le moto che rombano, le ruote di un trolley sui san pietrini, il respiro di una donna su una panchina, io che mi appoggio alla transenna per digitare ritmicamente queste parole, la scala mobile che trema, il treno che è arrivato in uno stridio e che mi aspetta per Trastevere;
la vita, se la osservi vibra ovunque e dappertutto fuori e dentro di noi, osserva, osservala, osserva il tuo camminare, ciò che scorre intorno a te, ti parla sempre, non tace mai; come questa inglese che mi chiede where is Uber, sarà per la mia camicia di lino bianca, come fossi un addetto ad un ufficio di informazioni o semplicemente si avvicinano perché si fida delle vibrazioni della mia immagine che fuma il sigaro e scrive qui; subito dopo un altra che chiede where is the train ? È bella la vita perché dà segni ritmici di esistenza e ti fa credere che non esista la morte la vita vibra fuori solo perché vibra dentro.
Sei esattamente così come stai vibrando. Le vibrazioni vengono emesse da ogni forma di vita, su una gamma di frequenze che oscilla da un massimo di benessere, al massimo malore. Potremmo essere monitorati da oscilloscopi, da apparecchiature quali by feedback per renderci conto che siamo continuamente soggetti ad oscillazioni elettromagnetiche ed elettromiografiche. La frequenza cardiaca, l’ elettro encefalogramma, la conducibilità elettrica bio chimica tra i neuroni. La nostra vira è appesa al ritmo dei battiti cardiaci. Le nostre cellule sono in un continuo interscambio nutrizionale e di espellazione di tossine, pompe di energie che alimentano i nostri sistemi, difendono la vita e trattengono le malattie e la morte.
Le vibrazioni emesse dalla vita intera rappresentano la risposta all’ inesistenza, all’ inanimato, al vuoto, al nulla, all’ insensibile, a tutto ciò che è statico, stantio, immobile, morto.
La vita è sinonimi di vibrazioni. Stessa e Identica cosa accade per la vita più profonda, la vita dell’ anima. Tutta la gamma delle sfumature e sfaccettature emotive, rappresentano vibrazioni che ci offrono la consapevolezza della nostra presenza.
Potremmo chiederci, quali vibrazioni ho, se sto vibrando e per chi, per cosa o se sono fermo, se mi proteggo troppo o mi annoio, per chi vivo, se vivo da scontato, prigioniero delle abitudini se lascio fluire o freno e trattengo le novità. La nostra anima ha delle corde come un piano forte una chitarra pizzicata; con i pensieri e le circostanze, arpeggiano melodie continue che danno il tono al nostro umore.
Abbiamo tonalità musicali continue dentro di noi, suoni che oscillano come la marea o il maestrale o la bonaccia. Ciò che è fondamentale sapere è quale oscillazione è nostra e abbiamo, sappiamo anche che esse sono cangianti? istante dopo istante, come le sfumature dei colori e delle ombre. Sapere come sto è voler sapere quale vibrazione ho e quale emozione vorrei avere. Il cambiamento in noi è determinato dalla possibilità di poter lavorare per le emozioni che vorremmo avere.
Le vibrazioni chiamano vibrazioni, se ci sei, ci sono gli altri, le persone presenti che vibrano sono dei diapason, le senti, si cercano, si attraggono, non smettono di parlarsi, si percepiscono, si amano, lasciano il segno con la loro presenza e il vuoto della loro assenza.
Le vibrazioni non hanno misura, si estendo oltre confine, oltre il tramonto, sono inter continentali, interplanetarie, inter galattiche, aldilà dell’ nell’ iperspazio, oltre l’ altra dimensione, oltre l’ altra vita, sono telepatiche, quando siamo presenti diciamo, ti stavo pensando e mi hai chiamato.
Le vibrazioni sono tutte sincrone, ritmiche, innestano la marcia che ti fa avanzare, ti pongono nel flusso, come ora, prendi sempre il treno, sei sempre nel momento giusto e nel luogo giusto e se non lo sei, sei soltanto assente, preso da altro. Se non osservi, ti astieni se ti assenti, non puoi cambiare se resti prigioniero dei tuoi pensieri, nel caos asincrono, senti solo rumori, non movimento, sei lontano dal flusso della vita che è in te, fuori dal flusso. Solo quando decidi di esserci, ti ascolti, vedi, agisci, vivi.
giorgio burdi
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VIBRAZIONI
“Dove il terreno è piatto, l’acqua non defluisce, non ha dove andare, ristagna. Per produrre energia ci vuole una polarità, un sopra e un sotto, un dislivello, e più grande è il dislivello, più è forte la corrente”. C.G. JUNG
Sei esattamente così come stai vibrando. Sinfonia di frequenze su un ampio spettro. Polarità. E cosi’ sei anima e forma. E cosi, magnetica, nutri la vita in questo processo di fotosintesi amorosa, in cui la conoscenza di se’ ti permette di “scambiare” il vuoto, il nulla, l’amorfo, lo statico, la morte, con la vibrazione, la vita.
Le nostre cellule hanno bisogno della giuste sostanze nutritive per effettuare tutti i processi biochimici che consentono loro di crescere e riprodursi in modo funzionale alla vita, oltre che di liberarsi dalle tossine. Esattamente come per le piante e la loro fotosintesi clorofilliana, in un certo senso ognuno di noi è in grado di produrre autonomamente alcune sostanze nutritive utili a se’ e agli altri, mettendo in atto, di fatto, un proprio processo di fotosintesi. Queste sostanze nutritive sono proprio le vibrazioni che sono contemporaneamente reagente e nutrimento, causa ed effetto.
La fotosintesi è il processo che considera come primo reagente un momento buio, un evento negativo, una delusione, una idea di se’ bloccante (il mortale), ma anche la bellezza di una strada, lo struggimento di un tramonto, l’entusiasmo di un’alba, lo stupore di uno sguardo, di un gesto anelato in un momento inaspettato. Lo sguardo raccoglie, e la conoscenza del se’ agisce come il pigmento di clorofilla, che tanto più’ è presente, tanto più’ induce una quantità di nutrienti di qualità (le vibrazioni), che ci offrono la consapevolezza dell’esserci. E produciamo altresì’ sostanze nutritive per gli altri. Esattamente come la pianta trasforma l’anidride carbonica in ossigeno che rilascia nell’ambiente esterno: promotore di altra vita.
La vibrazione è vita. La vita, se la osservi, vibra ovunque e dappertutto fuori e tanto più dentro di te. Osserva, osservala, osserva il tuo andare, ciò che scorre intorno a te, ti parla sempre: la vibrazione di un diesel, della turbina potente di un volo Ryan; La vibrazione di un incontro che casuale non è. La voglia irrefrenabile di un passate che vuole parlare. Come questa donna inglese che chiede proprio a me tra tanti “where is Uber?”. Sarà per la mia camicia di lino bianca, come fosse di un addetto ad un ufficio informazioni. O semplicemente si è avvicinata perché si è fidata delle vibrazioni della mia immagine che fuma il sigaro e scrive qui, concentrato sulle sue vibrazioni. E subito dopo qualcun’altra mi chiede “What’s train?”. La vibrazione di una foglia al vento. Quel vento che sbatte sul mio viso e trascina profumi. Mi emoziono all’idea di tanta precisione. Mi batte il cuore: e di nuovo vibro. La vibrazione ritmica del battito cardiaco, quello di un orgasmo. E si. È sempre viva la vita, non esiste la morte per chi vive, la vita vibra fuori solo perché vibra dentro. E vibra fuori, di nuovo. Io che mi appoggio alla transenna per digitare ritmicamente queste parole. la scala mobile che trema, il treno che è arrivato in uno stridulo e che mi aspettava per Trastevere; le ruote di un trolley sui san pietrini, il respiro di una donna su una panchina.
Vibrazioni chiamano vibrazioni, se ci sei, ci sono, e le persone che vibrano si cercano e si attraggono, si parlano, si amano, lasciano il segno con la loro presenza e il vuoto della loro assenza.
Le vibrazioni si estendono oltre misura, dei confini e degli orizzonti, sono Inter continentali, interplanetarie, inter galattiche, aldilà nell’ iperspazio, oltre l’ altra dimensione, l’ altra vita. Sono telepatiche, quando siamo presenti.
Le vibrazioni se le vedi e le ascolti, sono tutte sincrone, ritmiche, entri in una sincronicità perfetta con il mondo, si innesta l’ ingranaggio, la marcia che ti fa avanzare. Ti poni nel flusso, come ora. Prendi sempre il treno, sei sempre nel momento giusto e nel luogo giusto e se non lo sei, sii determinato, cambialo verso la tua attitudine.
Potremmo chiederci, quali vibrazioni ho. Se sto vibrando e per chi. Per cosa. O se sono fermo. Se mi proteggo troppo o mi annoio. Per chi vivo. Se vivo scontato; se lascio fluire o freno e trattengo le novità, tutto. La nostra anima ha delle corde come un piano forte o una chitarra. Pizzicate con i pensieri e le circostanze, arpeggiano melodie continue che danno il tono al nostro umore. Abbiamo tonalità musicali continue dentro di noi, suoni che oscillano come le maree. Anche altissime. Anche bassissime. Cangianti nella frazione di un tempo piccolo.
Ciò che è fondamentale è sapere quale oscillazione è la nostra, quale emozione abbiamo, sappiamo anche che esse cambiano istante dopo istante. Sapere come sto e voler sapere quale emozione ho e quale emozione vorrei avere. Il cambiamento in meglio di noi è determinato dalla possibilità di poter cambiare le nostre emozioni, lavorando per le più adeguate. Instillando “clorofilla”.
La vibrazione di uno scalpello pneumatico che demolisce per costruire.
valeria carofiglio
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…. la verità di un’istante sia il risultato di un lungo lavoro in cui si gettano e si coltivano semi in quel senso e si genera piano piano qualcos’altro, qualcosa che ci blocca, che ci rallenta che ci fa addirittura ignorare di essere esseri che vibrano.
Mollare una certa immagine di se, quasi asettica, nell’illusione di celare in questo modo il nostro essere vulnerabili, feriti, feribili, dietro un’apparente intangibilità.
Mollare, significa lasciar andare e crescere, fiduciosi ciò che ci appesantisce e che forse tornerà semplicemente al momento giusto, e andare avanti vibrando di vita con la vita
laura cecchetto
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Due anime si incontrano, si fondono, danzano e vibrano alla stessa frequenza. Non sono nel passato, non sono nel futuro. Sono qui, ORA. Trascendono il sesso, trascendono l’amore. Sono pura e piena energia.
Si abbandonano, si lasciano accadere. Nessun condizionamento, nessun pensiero. Semplicemente fluiscono.
Dobbiamo nutrire le nostre vibrazioni, sfamarle, ascoltarle, elevarle, così da attirare vibrazioni simili, potenti, d’impatto.
Quelle vibrazioni che senti tue, che ti appartengono da sempre e che non riuscivi a percepire perché troppo preso dalla frenesia di una vita materiale, una vita caotica dove è più facile che le vibrazioni buone vadano disperse, sprecate, risucchiate da chi avidamente vuole farle sue. E così le tue vibrazioni si affievoliscono, si disperdono.
Annaspando cerchi di tornare su, di riprendere a vibrare con tutto te stesso, di riprenderti ciò che è tuo di diritto: la tua vibrazione, la tua forza vitale.
Sei lì, come un grande Sole che scalda l’anima, vibrante di energia, sprizzi energia da ogni raggio, da ogni poro del tuo corpo. Tutto intorno a te ha un senso, tutto è luce, consapevolezza. Ed è allora, solo allora, che godrai nel qui ed ora.
rossella ramundo orlando
ContinuaL’ ERRORE, È UNA EMOZIONE NEGATA
L’ ERRORE, È UNA EMOZIONE NEGATA
O urli l’emozione, o l’errore urlerà per te
L’ errore rappresenta il portavoce delle emozioni negate, inespresse, mute, mutate, tenute a bada, allontanate con la propria coscienza, vissute come fastidiose e ritenute imbarazzanti, rappresentative di un mondo vero ma inaccettabile. L’ errore è la rappresentazione e la negazione del giudizio sociale. Non esiste tregua per l’emozione, se predomina l’ etica, il moralismo, il giudizio sociale educativo.
Ciò che tradisce la socialità ed il moralismo, è l’ errore, che rappresenta la perdita del controllo, l’ emozione che non può essere tenuta, ne controllata dal controllo, essa è evacuativa, è fugace, è folle, è vera, autentica, parte da sola, è il magma della persona, è il suo sobbalzo, è l’ azione dentro che determina l’ unicità della scena del suo protagonista.
L’errore rappresenta l’ urlo liberatorio per una emozione imprigionata, è la liberazione dalle catene dei condizionamenti dei giudizi sociali, il diritto alla libertà di esistere in quanto diversi da chiunque. È l’ emozione che fa la differenza è ci diversifica ed è per questo temuta perché in un confronto con gli altri ci rende diversi ed incerti, bisognosi di consenso. Accettare di manifestarsi così come si è, senza il consenso altrui, ci fa sentire errati, ma potenti qualora ne recuperassimo la sua unicità emozionale, tale da non chiedere alcun consenso. Una forte personalità non chiede il consenso per far esistere le proprie emozioni, ma lascia vivere se. Noi erriamo, per esistere.
L’errore è l’ urlo e la rivendicazione dell’ emozione trattenuta, frenata ed implosa, che detona verso l’ errore. L’ errore è l’ esplosione dell’ emozione negata.
Esso è la detonazione del non detto e del non vissuto. Il sintomo è un dolore da malfunzionamento, un errore che esprime una verità negata. Sia l’errore che il sintomo rappresentano l’ invito di cambiare direzione, di accedere alla strada sterrata mai percorsa della novità emozionale. Ogni emozione richiede un fuori strada, una elasticità tale da poter rispondere alle novità della vita, in modo assolutamente nuovo e congruo.
L’ emozione è irrefrenabile, scalpita , nitrisce, strattona, ringhia, avanza come una slavina, muove quantità enormi di energia, è rapace, delicata, dolcissima, disgustosa, odiosa, sofferta, gioiosa. È incontenibile come il pianto di un bambino, come l’ urlo per un lutto e la felicità incontenibile per la propria laurea, per la propria sposa. L’ emozione si fionda ed oltrepassa il confine dall’ anima, si fionda verso la condivisione, verso il mondo e la relazione, ha sempre un carattere Relazionale, nasce dalle relazioni e torna verso di essa. La sua frenata determina l’ errore. Trattenere il trotto è commettere un incidente.
L’ errore, è il tradimento del non espresso, è il numero uno, che per svincolarsi, diventa matto, compie follie, è la ribellione verso il proibito, è la logica che resta tradita e crepata dall’ impulso.
L’errore nasce dalla mancanza di ascolto di se, dalla trascuratezza verso se, è uno yes man, che ascolta e si prodiga per chiunque, si consuma perché gli tornino i consensi, lo yes man risiede alla fine della lista delle sue priorità, non esiste fintanto che gli altri non lo fanno esistere con i loro consensi, fintanto da continuare ad errare, da accumulare, sbagli su sbagli, tali da derealizzarsi e depersobalizzarsi da non percepire più se stesso da.
L’emozione è la verità del nostro vissuto, è la quadratura del cerchio, è quell’ indicibile assurdo di essere espresso, è l’impossibile che può diventare possibile, è la malattia curabile, la scomparsa di un sintomo prepotente, è il buio che diventa sole è l’ imprevisto che diviene prevedibile, non esiste l’ emozione con la falsità.
L’ emozione è l’ urlo potente di una vita muta, è la rottura dell’ omertà, è la vita che chiacchiera continuamente dentro e non esce mai, che litiga con il lecito, il senso comune e l’ idiozia, con il senso di colpa, il perfezionismo e la ragione. Questa è la guerra dentro, è la guerra dell’ uomo scisso, incapace di mettersi d’accordo con se stesso, artefice di ogni guerra fuori.
L’ errore è il numero uno, perché spiana e raddrizza la via, scardina e toglie i massi delle emozioni sedimentate, incistite rimosse e rancorose. Esso è il preludio del miglioramento, è la tappa necessaria per avviare l’ evoluzione, dopo una sequenza interminabile. Non può esistere alcun miglioramento se non attraverso fallimenti ed errori ripetitivi. Il sintomo, il dolore, è un numero uno che disperato piange perché, il direttorio centrale delle sue alte sfere illuministiche della ragion pura, non ascolta, sua altezza emotiva dai colori sgargianti ed esuberanti, ingestibili negli impulsi, perché la vita è lì, ed è più potente da non poter essere facilmente imbrigliata.
L’emozione è ciò che fa la differenza, è follia, è contorta; è perdita del controllo; la ragione è noia e consuetudine, è nota, vita retta, La ragione è il numero due, è controllo, inquadramento, linearità. La ragione frena, inibisce è la causa di tutte le disfunzioni personali, può solo essere progettuale, ingegneristica, mai personologica.
L’ errore, il sintomo, il dolore, l’emozione, sono imprevedibili, spregiudicati, maleducati, trasgressivi, ingarbugliati, tornanti, irrispettosi, perversi, ribelli, sono dossi, montagne russe, essi se ne fottono, perché esistono e basta senza alcun permesso, spiazzano, rappresentano il direttorio della più elevata ed autentica vitalità, sono il nostro numero uno, rivelatrici di verità.
L’ errore non è mai un errore, perché è la rivendicazione della frattura mentecorpo, l’ errore si ribella alla scissione, al dualismo, alla separazione tra i due emisferi, rappresenta il corpo calloso che li tiene insieme; l’ errore pretende il dialogo tra destra e sinistra, sopra e sotto, dentro e fuori, contenuto e contenitore, esso è la moderazione e la mediazione tra due continenti complementari.
L’ errore ama la pace e la libertà, quando lo incontri è in atto un processo di crisi che brama la soluzione e l’ armistizio.
L’ errore indica il bisogno di fare pace con se stessi . Indica il bisogno di mettersi in discussione e di mettersi d’accordo .
Se nascondi l’emozione, nascondi la verità e sbagli, l’ errore ti toglie la maschera, ti sbatte in faccia la realtà tale che non puoi più nasconderla. È la crepa in una roccia che manda a valle tutto ciò che è vacuo ed effimero, retto da impalcature di sabbia dipinte di cemento.
giorgio burdi
Continuapiccoli putin
- piccoli putin
Dedicato a chi rende la vita impossibile
Siamo costernati da piccoli putin, si presentano inizialmente come uomini discreti, carini, gentili, comprensivi, compassionevoli, vittime sacrificali, ma la verità è tutt’altra, le vere vittime sono i carnefici da loro descritti;
i piccoli Putin, appaiono deboli, fragili, deperiti, empatici , buoni, sottomessi, lamentosi, ipocondriaci, vestono bene, poco dismessi, , sanno anche dire, ti voglio bene, ma sono delle maschere, perché di forza ne hanno da vendere, anzi sono in salute, possiedono aculei, spine prepotenti, laureati in saccenza e in persecuzione, lucidi negli obiettivi, apparentemente in ansia, meditano ore al giorno come zen, per placare le fiamme dei loro inferi.
Non vedono il bene, l’ amore, la buona fede o la compassione, dimenticano in fretta il conforto, la dedizione e i sostegni ricevuti, sono glaciali, cere da museo, sagome inespresse di cartone, vanno d’accordo, come degli zombi, coi loro simili, posseggono lo sguardo fisso, perduto nel vuoto, putridi delle loro piaghe, piagnucolano, si lamentano come commedianti. ma in realtà sono sconcertanti mister hide, uomini di carta vetrata, fastidiosi, raschiosi, sopra la loro pelle liscia trovi la raspa della corrente elettrica della loro irrequietezza, uomini alla ricerca, del loro scoop, del loro talk e reality show, di passare alla storia con la propria meschinità.
Appaiono delicati, curati come delle statue di travertino, con facce di bronzo e di pietra tosta, non hanno cedimenti nel volto, nessun filo d’emozione, freddi e pretenziosi, tiranni, despoti severi, dittatori che lamentano ingiustizia, indossano il baratro dei loro peccati che non vedono, non hanno sensi di colpa, si auto commiserano e si auto assolvono, appaiono pudìci, eunuchi, bigotti, bizzoche moraliste, angeli asessuati, ma in realtà sono angeli del male, insolenti spregiudicati, delinquenti, dietro la loro maschera c’è l’ inganno dell’ ignoranza e la freddezza della fucilazione, hanno il sogno mitomane di diventare qualcuno, di celebrare un nuovo giorno della memoria, senza mai sfogliare una pagina, perché loro, “hanno letto”, si emancipano attraverso Dr. Google, le serie di Netflix per una cultura del giallo, del crimine e delle armi. L’ ignoranza può anche diventare saggezza attraverso l’ umiltà, ma se si pone come saccenza, si fa deficienza.
I piccoli putin sono eternamente in guerra, perché hanno la guerra dentro, vivono nella paura di essere invasi, vedono il demone dappertutto, lo specchio della possessione che è dentro di loro.
Sono pericolosi, diabolici, votati al martirio del male, non cambiano, sono da evitare come il dirupo che è dentro di loro;
Autentici criminals minds, cinici, passano la vita nelle loro macerie a progettare terremoti; hanno l’ anima del fanatico omicida, pronti ad agire indisturbati quando meno te lo aspetti.
I piccoli Putin sono figli dei loro traumi, figli indesiderati, orfani di genitori viventi, addestrati in poligoni di morte.
Sono mercenari, ti usano, ti sfruttano, ti comprano con affetto, ti regalo cuori di pietra e Caffarel avvelenati e ti scaricano nello squallore di uno sciacquone se diventano vittime di proiezioni personali.
Servirebbe un esercito di psicoterapeuti e di assistenti sociali per sradicare loro i figli e la loro potestà genitoriale, per evitare il proliferare di criminali di nuova generazione.
I piccoli putin sono insicuri esoterici, superstiziosi ignoranti, cartomanti, streghe, maghi e fattucchieri, servono tso e rituali di esorcismo, per strattonare il loro male verso il bene, perché non c’è modo di dialogo, di civile comprensione o di accordo umano intelligente, perché non ci inganniamo di poter sperare di trovare l’ umano, lì dove risiede la bestia, c’è chi nasce per le barbarie; servono cecchini e sicari che puntino sul vuoto del loro esistere, sull’ anti umanesimo, sul nulla che li rappresentano.
Speculatori, ladri e padroni del tuo tempo, fastidiosi invadenti, non si fanno alcun rimorso nel disturbarti, usurpano risorse, come delle carogne, sulla base della benevolenza di ingenui sprovveduti in buona fede, che a differenza loro, vedono il bene dappertutto.
I piccoli putin, bruciano i libri, leggono paperone de Paperoni, guardano l’ horror, che possiedono, aspirano a diventare personaggio pubblico, dimenticano che hanno il tempo contato, ingordi, invidiosi, di chi ha consumato la rètina sui libri, di chi lavori, di chi si spacca; è un’ onta, è una vergogna l’arroganza dell ignoranza; essere strozzini rende, invasori e sciacalli usurpatori, avari e austeri nei sentimenti, ciechi verso l’ umanità, l’ amicizia e l’ affetto, facili a sbattarti in black list, lo paghi caro l’ alibi della loro diffidenza.
I piccoli putin, sono delle scimmie che imitano i ladri, le pecore, clementi con i demoni, ma angusti con gli umani ed i civili, ma la rabbia per la loro violenta ingratitudine, fa la resistenza, li rende partigiani, soldati spietati, perché la difesa della propria dignità, supera il sacrificio della propria esistenza.
I piccoli putin, tramano contro la serenità, contro la vita, sono disturbatori cronici, un cinico omuncolo sadico o una donnina pudica e mercenaria che si vende la dignità per soldi, ti aspetta al varco nella sua trappola, è l’ ombra della sua follia che merita il crematorio.
Chi minaccia la vita, dovrebbe soccombere con i propri figli della morte, inevitabilmente educati all’ inganno, all’ ignoranza del furto, del facile denaro, mascherati da onesti, ma ladri, mentecatti ed accattoni.
Alla loro apparizione e al loro passaggi bisognerebbe sprigionare una rabbia deflagratoria, un odio verso chi nasce per il male e per la morte. Non ci sono riformatori, ne processi rieducativi per chi è votato al male, e fa di esso il suo programma, andrebbero internati nei gironi danteschi infernali, ma terreni, noi non aspettiamo il giudizio universale, lasciandoli latitanti, ma la desideriamo loro morte subito, la vita va migliorata adesso, dobbiamo smetterla di sperarla, la pretendiamo.
Con i piccoli putin, la diplomazia è criminale, è una esplicita forma di timore, è aver paura e mostrare il fianco, è voler dialogare con un criminale che non vuol mettersi a tavolino. La diplomazia è il riconoscimento della violenza, perché essa è pur sempre delicata, comprende, magari condivide, alle volte lo tratta come un diversamente abile, come un pazzo o come un bambino irrequieto, stai calmo e fa il bravo, mettiamoci d’accordo su come dividere i giocattoli. La diplomazia è cieca, non vede il problema, produce morti, mentre vuole persuadere ad essere buoni, umani e umili come noi. La diplomazia è melensa, la sua esistenza da quasi valore al criminale, non riporta i morti in vita è un perditempo, l’ aristocrazia del perbenismo, un lava faccia, una strafottenza della vita, un aiuto umanitario estetico, è il lifting della solidarietà, è un politico che ti dice sempre di si, mentre non puoi più mangiare, la diplomazia può essere pericolosa, una presa per il culo. Non può esserci alcun dialogo con chi ha un programma di morte e la morte deve cercare e coincidere con se stessa, va uccisa. Per i piccoli putìn servono interventi tempestivi, squadre d’assalto, cecchini, fatti fuori a vista, perché non c’è alcun crimine sparando sulla morte e nell’ esercitare la legittima difesa. Altro che dialogo, esso fomenta ed agevola il processo di morte.
Sono traditori ben pensanti, tradiscono ripetutamente, cambiano i numeri e si auto assolvono. Devono fare attenzione ai propri passi per evitare il loro inferno, camminano su mine vaganti. La consapevolezza d’aver fatto loro solo ed inequivocabilmente del bene, oscuro alle tenebre che sono, non lascia passare un giorno, un solo istante, in cui gli si auguri a mitraglia, la più elevata esecrazione, malattie, anatemi, fatture, riti tribali e satanici e di passare quanto prima e per sempre a vita migliore; in attesa della battaglia, per vendere cara e degna la propria pelle, perché i demoni non meritano l’ esistenza, fintanto che la loro consapevolezza non li illumini da formulare le dovute scuse e i perdoni, la maledizione rimarrà eterna.
giorgio burdi
ContinuaLA SOSTANZA AFFETTIVA
LA SOSTANZA AFFETTIVA
Breve compendio sulle dipendenze
Tra le sostanze psicotrope più diffuse che creano maggior dipendenza organica ed emotiva, tra le più complesse da trattare in termini di tempi di psicoterapia, secondo una scala di difficoltà di trattamento, abbiamo al primo posto l’ eroina, a seguire, il crack, l’ alcool, la cocaina e in fondo alla scala la cannabis.
Esse richiedono un periodo di trattamento di psicoterapia mediamente lungo e statisticamente pari a tre anni per la prima, due per il crack e l’ alcool, un anno per la cocaina e per la cannabis; per tutte queste dipendenze il lavoro di psicoterapia deve essere condotto con continuità e senza interruzioni.
La dipendenza affettiva, risulta essere la più radicata e la più complessa da trattare, si pone al primo posto per il suo livello di difficoltà di trattamento e esattamente si pone prima dell’ eroina; per questo la definiremo, sostanza affettiva; essa infatti affonda le sue radici causali più profonde all’ interno della relazione parentale e si comporta come una vera e propria sostanza che viene assunta per gratificare quei sistemi di ricompensa mancati nella relazione affettiva originaria.
La dipendenza affettiva ha tutt’ altro che una dimensione razionale, essa va di gran lunga oltre quei processi del pensiero ed è complessa nel riconoscimento delle sue cause;
la sostanza affettiva risiede in meccanismi inconsci ed ombrosi, all’ interno di sfumature antiche, attentive ed affettive compromesse della famiglia.
La gamma dei sintomi determinati dalla sostanza affettiva sono numerosi e comprendono: fobie generalizzate, frustrazione per l’ assenza della figura affettiva, percezione del vuoto emotivo e sensazione di smarrimento, paura per la solitudine e per gli abbandoni, timore intermittente di perdere l’ oggetto amato, timore di essere rifiutato e il bisogno di rassicurazioni continue.
La dipendenza affettiva si confonde con l’ amore, ed è cosa molto diversa dall’ amore; la prima è caratterizzata dalla presenza evidente di un litigio continuativo, è conflittuale ed insostenibile;
i partners sono orientati prevalentemente nell’ imporre i propri bisogni in modalità ossessivo e manipolativa, dove il dipendente, il più delle volte, è sottomesso.
La dipendenza nasce dall’ accanimento di voler soddisfare i bisogni frustrati di un tempo. Voler soddisfare un bisogno determina il gap di non considerare mai, e non aver in mente, la persona interlocutrice, riscoperta in seguito come incongruente ed ingannatrice, solo dopo avere soddisfatto il bisogno.
L’ amore non è mai dipendenza affettiva, al contrario è un’ opera d’ arte che va contemplata per la sua poesia e la sua delicatezza, è gratuità di sentimenti, è autonomia dell’ uno verso l’ altro, è attesa, non coercizione o cospirazione, è paziente, comprensiva, guarda alla persona, non al progetto, esso viene tanto dopo, è orientato non al bisogno da soddisfare,ha stima, fascino per l’ altro, non fa contratti, compromessi, ne ricatti, non ha obblighi, è rispettoso e discreto, desidera, è passionale e compassionevole, dialoga ininterrottamente, si incanta, non litiga sempre, non comanda, non è mai direttorio, è umile, impara, ma, non insegna o conosce saccenza, non si erge, o si piega, copre, promuove, è protettivo, non usa imperativi, è stupito, è riparativo e devoto, sa chiedere scusa, è in preghiera per la meraviglia e se discute ne apprezza le differenze per evolversi.
La sostanza affettiva è una sabbia mobile che non ti permette mai lo slancio, le emozioni del bello, decreta la fine già dall’ inizio; procrastina, per la chiarezza torbida dell’ obiettività, è quel bisogno che rende cieca l’ oggettività; la sostanza affettiva proclama la fine di se e delle proprie risorse, tira fuori il peggio di se, da credere di non essere mai stati migliori; condanna alla prigionia dell’ altro, a sentirsi ripetutamente sbagliati ed errati; fa arrampicare sugli specchi dell’ impossibile e della malattia.
Ma come si struttura e da cosa nasce la dipendenza affettiva come una sostanza ? Le dipendenze da sostanze psicotrope hanno delle origini più ravvicinate di quelle affettive. Diciamo subito che le dipendenze in generale, si innescano all’ interno di quei circuiti dopaminergici, relativi ai meccanismi della ricompensa.
I bassi o I mancati stimoli delle ricompense affettive ambientali, inducono una ricerca esterna di stimoli compensativi surrogati, coadiuvanti e suppletivi, che creano ad essi la dipendenza. La sostanza affettiva rappresenta una sostanza di rimborso delle carenze attentive non soddisfatte.
Il nostro cervello necessita di produrre la dopamina, che è l’ ormone della gratificazione, attraverso stimoli specifici ambientali consoni. In assenza di tali stimoli ambientali affettivi specifici, il sistema adrenergico, si rifà sui sostituti “surrogati” dell’ ambiente, sostituendo lucciole a lanterne come mezzo di auto sopravvivenza.
Cosa manca ad un soggetto che soffre di dipendenza ? “LA PRESENZA”. Riempirà il malessere delle assenze, con la presenza e le premure di uno qualunque approssimativo surrogato, attraverso il contatto rassicurante di una comparsa o attraverso l’ euforia della cocaina, o tramite la parola di un ammalato di vuoti come lui, o attraverso l’ alcol, o attraverso la fame del come stai o attraverso la ludopatia per i giochi dell’ infanzia mai condivisi.
L’ assenza, genera il timore e la paura per la solitudine, per tutte le crisi abbandoniche subite. Una delle origini della dipendenza affettiva è la storia e il susseguirsi degli abbandoni subiti. Una relazione più è frustrante, più alto è l’ indice di insinuazione di una dipendenza, più si presentano stati paranoici e persecutori.
Attraverso i processi abbandonici, il dipendente sarà alla ricerca estenuante di un suo accuditore dedito e devoto, di un “badante”, di un infermiere che lo curi e lo ami, come quella cannabis che lo fa cedere accasciato tra le proprie braccia. La Dipendenza affettiva si equivale a tutte quelle crisi abbandoniche subite.
Un genitore, con le sue assenze e i suoi abbandoni, respinge il proprio figlio, si percepisce indesiderato, ma allo stesso tempo lo lega, lo vincola tra le mura domestiche, lo rende socio fobico, bloccato al suo utero, all’ interno di una relazione asfissiante e trasparente, lo lega nell’ attesa che arrivi prima o poi quell’ attenzione, uno slancio o un abbraccio, uno scorcio di sorriso, di una rassicurazione, o di un come stai.
La motrice primaria per liberarsi dalla dipendenza affettiva risiede innanzitutto:
1 nella consapevolezza di essere un dipendente affettivo,
2 nella comprensione dei meccanismi che lo legittimano ad un tale meccanismo patologico,
3 e nell’ investire energicamente su di se , su quegl’ interessi che stravolgono la propria esistenza che si definiscono attitudini.
giorgio burdi
ContinuaABBRACCIARE GLI SPETTRI
Da “ Se incontri il Buddha per strada, uccidilo “ di Sheldon Kopp.
Se incontri uno spettro per la strada, abbraccialo
Ogni uomo è tormentato dallo spettro di un gemello che rappresenta tutto ciò di sé stesso a cui direbbe “no” (Sheldon Kopp).
È un’ombra svelta e meschina che viene a disturbarci lungo il cammino. Un brigante. In pochi secondi, vediamo tutto il lavoro impiegato per trovare la pace dei sensi e la felicità svanire.
Crisi.
Evidentemente ci è sfuggito qualcosa, non abbiamo capito fino in fondo la nostra vita. La strada che con tanta fatica ci siamo costruiti è sbagliata. È una strada che porta verso il caos, l’incertezza…non va bene.
Che confusione! Eppure, una chiave ci deve essere, deve esistere un modo per cambiare come siamo. È diventato insopportabile vivere così. Non è possibile camminare su una strada così fallibile, incerta e solitaria.
È in questo momento che iniziamo a trovare mille possibilisoluzioni al nostro problema. Un problema che ci fa sentire in difetto, guasti. È da quel momento che potremmo vedere negli altri, “più risolti ed equilibrati”, la soluzione. Può essere un familiare, un amico, lo psicoterapeuta.
Automaticamente, la persona che noi riteniamo abbia ricevuto il dono dell’illuminazione diventa centrale per la nostra vita. Finalmente, nel nostro cammino, abbiamo incrociato il Buddha: ci siamo quasi.
Quello che accade, in realtà, è che stiamo idealizzando. Quando idealizziamo qualcuno (o qualcosa) stiamo proiettando il nostro bisogno di trovare una soluzione. Un chiave che apre (e quindi chiude) tutte le porte della nostra mente.
La proiezione è efficace soprattutto perché siamo noi, in primis, a credere di poter raggiungere la “perfezione”. Siamo convinti di far parte di una specie animale di norma pura e onnipotente. È un’idea bellissima che ci fa continuare a credere di poter un giorno essere invulnerabili ai problemi della vita. La seconda convinzione è quella di poter raggiungere lo stato di “persona giusta” attingendo da forze esterne a noi.
Il fatto è questo: non c’è soluzione, perché non esiste il problema. Non siamo una specie interamente buona o interamente cattiva. Noi, essere umani, siamo animali. Abbiamo istinti e parti irrazionali. Non siamo delle divinità, siamo carne e ossa. Abbiamo il dono dell’amore, ma anche il suo gemello complementare: l’odio. Non possiamo fare miracoli, non possiamo eliminare le emozioni negative e, soprattutto, nessun essere umano è capace di controllare e salvare nessuno. Non abbiamo questo potere, non possiamo controllare gli altri e gli eventi. In effetti, la strada che percorriamo è fragile, caotica e solitaria… è così per tutti!
Lungo la strada, come tutti gli altri, devo sopportare i miei fardelli. Ma non intendo sopportarli graziosamente, né in silenzio. Prenderò la mia tristezza e per quanto posso la canterò. In questo modo, quando gli altri sentiranno la mia canzone, forse le faranno eco e risponderanno dal profondo dei loro stessi sentimenti(Sheldon B. Kopp).
I nostri spettri vanno amati perché ci ricordano di essere umani. E in quanto animali, siamo nel posto giusto. I nostri piedi sono adatti per poggiarsi per terra e camminare. Non siamo né interamente buoni, né interamente cattivi; siamo naturali.
Se ci ricordiamo di essere fallibili, impariamo a perdonarci. Se ci ricordiamo di essere incerti, impariamo a lasciar perdere il futuro, non possiamo controllarlo, e a vivere nel presente. Se ci ricordiamo di essere soli, capiamo di essere noi i veri padroni di noi stessi.
E quante lacrime e quanta tristezza ci furono ancora quando giunse a capire che la parte che voleva, in realtà, era sua, se la chiedeva, e lo era sempre stata!
(Sheldon B. Kopp, Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo)
Susanna García Rubí
ContinuaOGNUNO SI SCHIANTA SUI BUI ALTRUI
Ognuno si schianta nei bui altrui
Quando parliamo di “schianto”, inevitabilmente, ci viene in mente uno scontro automobilistico in cui l’impatto improvviso è dato dall’assenza di misure di sicurezza.
Nelle relazioni non esiste un dispositivo o una spia che ci avverte quando siamo di fronte ad un pericolo, ma siamo in grado di percepire ciò che ci fa stare bene o male, attraverso la nostra percezione, i segnali inviati dal corpo, o ancora la nostra vocina interiore. Ma cosa porta ad uno schianto?
La proiezione è il meccanismo più frequente. I desideri, la voglia di un rapporto, gli stessi schemi mentali, le nostre fragilità irrisolte, vengono proiettate sulla realtà che viviamo. Un po’ come fossimo al cinema, vediamo un film creato da noi stessi che non ci permette di capire con obiettività ciò davanti cui ci troviamo.
Tutto diventa edulcorato, mediante un’interpretazione senza filtri. Esci, due chiacchiere, uno scherzo e si sta bene.. e in alcuni momenti, male.
Cosicchè d’improvviso ci troviamo in un luogo sperduto e senza via d’uscita. Il buio dell’altro.
L’altro, colui che non vediamo, problematico quanto basta, accartocciato su se stesso, intriso nei suoi dolori, crocevia di pensieri intrusivi e sensi di colpa, ruba le nostre energie,portandoci a soddisfare una richiesta continua di amore di cui noi non siamo i diretti responsabili.
Persistiamo, perché ce la possiamo fare. Ignoriamo il nostro sentore e deturpiamo l’unica opera originale, la nostra, per rincorrere incessantemente quel sentimento che crediamo essere unico e dal quale non ci accorgiamo essere intrappolati o giàdipendenti.
La nostra vitalità svanisce, la pulsione di vita va in detumescenza. Il vuoto dell’altro diventa l’oggetto d’amore condiviso a caro prezzo. Abbiamo perso la bussola della nostra vita.
Meglio ancora quando mettiamo in atto un comportamentoossessiva in cui riteniamo che l’altro possa cambiare.. e ci chiediamo senza sosta cosa poter fare. Nulla. L’unica soluzione valida: il nulla, meglio, lasciarlo nel suo vuoto.
L’altro non cambia se non è lui a volerlo. La peggiore delle consapevolezze. Il momento in cui effettivamente percepiamo si esserci schiantati.
Non rimane che una profonda tristezza, alienazione, cadiamo in una valle di lacrime, parole delle nostre più accese speranze e illusi rimaniamo attoniti in uno stato di confusionale, nel tentativo di dare una spiegazione a ciò che è stato.
Quel film che stavamo vedendo si spegne davanti ai nostri occhi e la sala diventa buia. Non rimane più nulla, sedie vuote. Anzi, qualcosa ancora sosta ed è dentro di noi.. Quella vocina che non abbiamo mai ascoltato, balza alla nostra mente e quei sintomi di malessere hanno modo di trovare una spiegazione.
Nel finale, un pensiero, “ tutto dipende da noi, relativamente”.
silvia V.
ContinuaI GIRASOLI
I Girasoli di Van Ghogh
Questi fiori avevano un significato speciale per Van Gogh. Il giallo, per l’artista, era un simbolo della felicità. Inoltre, nella letteratura olandese, il girasole è un emblema ricorrente di devozione e fedeltà. Nei loro vari stadi di crescita, fioritura e sfioritura, i girasoli ci ricordano anche il ciclo della vita e della morte.
ASCOLTARE SE STESSI. IL PRIMO PASSO VERSO LA LUCE
Quante volte ci sarà capitato, dopo aver raccontato a qualcuno di qualche ingiusto “attacco” subìto o come tale vissuto, di sentirci dire: “lasciati scivolare tutto addosso, devi imparare a creare un muro dentro te stessa”.
Magari questa è una grande verità però è un obiettivo assai difficile da raggiungere e quel muro spesso lo si vede, in effetti,ma fuori, tanto da sbatterci contro.
Personalmente mi è capitato ma qualcosa di prezioso negli anni è cambiato!
Credo che il primo obiettivo di ciascuno di noi debba essere uno ed uno solo: ascoltarsi dentro, imparare ad ascoltare se stessi.
Dovremmo fare questo esercizio tutti i giorni magari armandoci di un taccuino ed annotando le cose che nell’arco della giornata ci creano malessere ma, ancor più, non fingere con noi stessi che tutto vada bene ignorando ciò che ci viene detto dal nostro mondo interiore a chiare lettere se solo fossimo avvezzi a cogliere ed interpretare quei segnali. Siamo tutti maestri nel tacitare il nostro dolore e ciò per le più svariate ragioni.
Il nostro registro interiore, per fortuna, capta immediatamente e memorizza ciò che ci sta facendo del male e crea un archivio che spesso, senza volere, noi, anche in maniera “involontaria”sotterriamo perchè c’è sempre una parte di noi che dice: “stai calma/o aspetta, prudenza, magari non è il momento di intervenire, di reagire, magari capirà che sta sbagliando…..magari….magari…..magari”.
Il vero problema è che questa strategia, nel tempo, può diventare pericolosa poiché quell’ archivio, quella memoria va in autogestione e gli eventi scatenanti si affastellano secondo un criterio che sfugge alla nostra razionalità e persino al nostro controllo.
Il suggerimento interiore dell’attesa non è di per sé un male a condizione che non si tramuti in un meccanismo di apparente autodifesa che si traduca in un accumulatore seriale di rabbia.
Posso dire oggi, senza tema di smentita, che di tutte le cose che ho studiato nella vita, quella che sono certa richieda uno studio eterno e sempre approfondito sia la ricerca del proprio equilibrio interiore e di ciò che ci garantisce il benessere.
Il tentare di “farsi scivolare addosso” le cose, quando i tempi non sono maturi per questo, può tradursi in una sofferenza inaudita ancor più in una società, come quella attuale, connotata da un gran numero di vigliacchi a piede libero.
Il vigliacco è una categoria umana interessante, e ciascuno a suo modo, nel suo piccolo lo è.
La vigliaccheria si manifesta anche nel semplice tacitare, nascondere, sotterrare le cose che ci fanno soffrire al fine di dilatare e differire i tempi per la conquista delle forze e la maturazione della presa di posizione così da approntarsi alla guerra. E sì, perché quando occorre cambiare le antiche e croniche dinamiche, quelle contraddistinte dalle cattive consuetudini da altri imposte e da qualcun altro subite si apre il conflitto che può divenire mondiale e devastante ed, a volte, ingestibile.
Ma a questo punto possono accadere due cose assai interessanti: l’ ego, prima implosivo, diviene esplosivo, ma questo se, per un verso, diviene spiazzante per chi, fino a quel momento, aveva creduto di conoscere una certa personalità scoprendo che ce n’è una ben più potente, per altro verso quella esplosione ha bisogno di regole perché la rabbia inespressa e sregolata è distruttiva ed autodistruttiva.
Imparare ad ascoltare se stessi significa anche non arrivare ad un punto di non ritorno, significa conquistare la serenità di esprimere il proprio dissenso senza scatenare l’inferno dentro e fuori di noifino ad arrivare ad esprimere il proprio punto di vista semplicemente con voce sommessa, senza urlare, senza alzare i toni.
Sovente il vigliacco è affetto da una grave sordità psicologica, cioè non vuole proprio capire, sentire, ciò che più che chiaramente gli viene detto, e questo solo perché non accetta il “no!”, il “basta!” e non ha nessuna intenzione di mettersi in discussione perché deve poter dire che “sei tu che sbagli”. Ed allora, dopo svariati tentativi volti allo sforzo titanico di “farti scivolare le cose” pur provando a dirgli: “non sono Gandhy! Non superare la soglia che stai rischiando” ecco che alla sordità si aggiunge la miopia, il vigliacco spinge l’acceleratore, va avanti ad oltranza….e si schianta perché a quel punto i giochi cambiano. E quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare!
Ecco, questo è il momento in cui inizia la ballata.
La rabbia è una danza, una partita a scacchi, ha delle regole, che vanno studiate, comprese, apprese, interiorizzate. La rabbia va gestita, non va lasciata a se stessa ma per arrivare a questo prezioso obiettivo occorre riconoscerla e conoscerla, comprenderla e, soprattutto, conoscerne la portata.
Quanto più si accumula quanto più il pericolo aumenta.
Il tempo deve servirci per elaborare non per accumulare! L’accumulo seriale di rabbia può provocare depressione e questa condurre a conseguenze ineluttabili.
La rabbia è un segnale di avvertimento che è bene non trascurare: ci avvisa che qualcuno ci sta facendo del male, che i nostri diritti vengono violati, che i nostri bisogni o desideri non sono adeguatamente soddisfatti o, più semplicemente, che qualcosa non va. Proprio come il dolore fisico ci costringe a togliere la mano dal fuoco, il dolore della rabbia protegge l’integrità dell’Io e ci induce a dire di no a chi ci sta danneggiando. (Harriet Lerner. La danza della rabbia).
Conquistare la capacità di difendere noi stessi, i nostri diritti, di rispondere con moderazione e continenza, ma decisione, fermezza e determinazione ai costanti attacchi di vuol prevaricare dà ossigeno alla nostra anima, alla nostra autostima, alla percezione che abbiamo di noi stessi e che gli altri avranno di noi e forse, ma sottolineo, forse, anche il vigliacco avrà imparato la lezione ma, e qui viene il bello, questo non ci interesserà più e questo perché la maggior parte dei nostri problemi risiede nella costante ricerca del consenso altrui, chiunque egli sia nel nostro immaginario. Ma fin tanto che lo cercheremo non arriverà perché la fame di consenso è, in realtà, fame di attenzioni.
E qui si delinea il passaggio da thanatos ad eros.
Laura C.
ContinuaIL CAPPELLO CON LA COCCARDA
IL CAPPELLO CON LA COCCARDA
E i sogni della mia vita.
Non cediamo alla tentazione di ignorare il potente segnale emozionale carico di contenuti che il nostro inconscio riconnette a significativi oggetti della nostra esistenza !
Avevo, credo, 26 anni quando mi fu regalato da mia sorella un cappello, a forma di <<bombetta>>, rosso, con un coccardone verde. All’epoca vivevo a Napoli, dove studiavo, ed avevo un sogno, anzi, per la verità, più d’uno. Principalmente volevo diventare ricca e <<fare del bene>>, creare una fondazione che si occupasse degli <<ultimi>>.
Ogni volta che tornavo a casa di mia madre, casa che avevo lasciato dopo la sua morte, avvenuta in maniera del tutto imprevista e fulminea il 22 dicembre del 2000, alle 9,00 del mattino, per aneurisma cerebrale mentre, sole in casa, discutevamo dei preparativi per la vigilia di natale, che non avremmo mai più condiviso, andavo a vedere come stessero i miei numerosi cappelli tra cui quello con il coccardone, acciaccato e pieno di peli (bianchi) nello scatolone insieme agli altri e dove i gatti, nella mia assenza, erano andati a scorazzare.
Avevo lasciato quella casa per andare alla ricerca della mia strada e dove, di tanto in tanto, ritornavo e quando questo accadeva parlavo al mio cappello come fosse stata una persona e gli dicevo: <<un giorno, presto, tornerò a riprenderti!>>: un simbolo, più che un oggetto, di tutto ciò che vi compendiavo, forse la mia stessa vita, anelando, un giorno, a riappropriarmene definitivamente, come di tutto il resto!
Sono tornata in possesso di quel cappello dopo più di venticinque anni! Che grande conquista per me. Naturalmente insieme a lui mi ero riappropriata di tante cose, materiali e non. Mentre lo sistemavo e lo pulivo mi sembrava di stare rimettendo ordine nella mia vita.
Quando l’ho rivisto, a distanza del così tanto tempo frattanto incredibilmente trascorso, recava su di sé gli ineluttabili segni del tempo, come me del resto! Quei segni che persino quando non sono visibili sono percepibili, era anch’esso carico di una malinconica e nostalgica tristezza.
Lo guardavo e pensavo : <<amico mio, quanto abbiamo da raccontarci!>>. Lui era rimasto in quella che un tempo era casa mia, casa di mia madre con la quale amorevolmente e quasi simbioticamente avevo vissuto, ma non era rimasto solo, lo avevo lasciato lì insieme a tutti i miei effetti personali, oggetti cari, abiti, libri, tanti libri, tra cui quelli di musica, il mio pianoforte e Dio solo sa quanti ricordi e quanti sogni!
Quando, finalmente, mi sono riappropriata del mio amato pianoforte e……. del cappello con la coccarda ho pensato: <<eccovi, finalmente! Siamo ritornati insieme>>. Quanto tempo era passato! un battito d’ali, ma erano passati più di venticinque anni! E così, riemergendo la mia razionalità, cercavo di ripercorrerli mentalmente nel tentativo di ricordare come ed in che successione fossero trascorsi, cosa avevo fatto durante tutto quell’arco temporale, la mia vita. E senza che me ne rendessi conto in un attimo mi sono passati d’avanti, come in un film, tutti i principali accadimenti, gli eventi che avevano contrassegnato le tappe fondamentali di quel non breve periodo a cui cercavo di attribuire una successione cronologica. Dicono che quando si muore accada una cosa simile!
E così si sono affollati nella mia mente: la morte improvvisa ed imprevista di mia madre trovata riversa a pancia in giù con i segni evidenti dell’emorragia cerebrale su un lato della testa, la separazione lacerante da quella casa in cui avevo vissuto tanto intensamente, la mia depressione, la mia malattia, la diagnosi di artrite sieronegativa, l’annuncio maldestro del mio prospettato epilogo sulla sedia a rotelle, i diversi studi professionali nei quali, disperatamente, avevo cercato rifugio professionale, l’inizio della mia professione, l’incontro con quello che poi è diventato il mio meraviglioso compagno di vita, la convivenza, l’incontro con mio suocero che si è preso cura della mia salute salvandomi la vita, il matrimonio, i concorsi, le inaspettate conquiste professionali, la separazione dai miei fratelli, la morte di mio suocero, quasi cinque anni in Calabria, da magistrato, alle prese con la mafia, ma anche con un mondo meraviglioso fatto di uno scenario selvaggio e di gente straordinaria, il trasferimento in Puglia, il trasloco, la riaffacciatasi ma non riconosciuta depressione. Quante cose, e certamente qualcuna me ne è sfuggita.
Quanto tempo era passato e di quanto tempo ero stata letteralmente derubata! <<Di quanto cose dobbiamo parlare amico mio!>> dicevo al mio ritrovato cappello. Da quel dì sono trascorsi tre anni e, finalmente, oggi, 11.01.2022, quasi magicamente, già felice di riavere le mie <<cose>> con me, ritrovo il mio tempo. Il tempo per godere di me stessa e ciò anche quando questo porta a ripercorrere passaggi tenebrosi della nostra esistenza ma pur sempre essenziali per il passaggio successivo.
Ciascuno di noi ha un <<cappello con la coccarda>>, simbolo della propria storia e simbolo del percorso esistenziale che ci rammenta come e quanto tempo abbiamo davvero dedicato a noi stessi e quanto tempo, invece, abbiamo elargito ed a volte sprecato per adempiere agli innumerevoli doveri che ci strangolano ogni giorno, soccorrere chi non aveva nessuna voglia di rialzarsi, portarci addosso croci altrui; sottostare alla follia altrui, ma quella vera, fatta di soprusi, di instabilità, di sfruttamento, di egoismo, di cattiveria, di avidità, di narcisismo cronico che prosciugano la nostra energia inducendoci a perdere noi stessi abdicando ogni giorno di più ad ogni particella del nostro essere fino ad arrivare, senza che ce ne rendiamo conto, al suicidio interiore piuttosto che trovare la forza di dedicare quel prezioso tempo a ciò che desideriamo, che merita di essere coltivato perché ci fa crescere e ci fa stare bene con noi stessi e con gli altri imparando a gridare <<NO, basta, ora è il mio turno!>>.
Io il mio cappello l’ho ritrovato e non solo interiormente, lo indosso anche se logoro e quando ciò avviene ci guardiamo e siamo entrambi felici. Ed ora ho appena ricominciato il mio nuovo viaggio con lui e sono già per questo immensamente appagata.
A te amico/a mio, anche se non ti conosco ed anche se non ti conoscerò mai, suggerisco di ritrovare il tuo <<cappello con la coccarda>> e di riprendere il tuo cammino salvifico insieme a lui e scoprirai che è solo l’inizio di un grande <<miracolo>> che partendo dalla tua interiorità cambierà concretamente la tua esistenza per sempre.
Laura C.
Continua