Noia
Noia
Emozione è movimento interno che preme per venir fuori, è potenza generativa, costruttiva.
L’emozione è un momento di trasparenza e autenticità del nostro Io, che emerge con irruenza, si prende il suo momento, il suo spazio, spinge, esce e dipinge, colora il nostro volto, e tutto quello che abbiamo attorno.
Le emozioni pretendono trasparenza, dignità, pretendono presenza per regalarci verità.
Sono mutevoli, piene, concrete ma anche astratte, dinamiche, decise e ingenue esattamente come noi.
L’emozione è autenticità, è numero uno, moto ed ascolto interno, è liberazione delle nostre verità e tensioni, necessaria per il reale benessere.
Può capitare nel corso delle nostre esperienze di sentirci sbagliati nel provare determinate emozioni, di non riuscire a gestirle e cerchiamo di sopprimerle, appiattirle, sezionarle, ce le nascondiamo, andando poco alla volta a eliminare i diversi colori che fino a poco prima ci accompagnavano nel dipinto della nostra tela, soffocandone sfumature, brillantezza e tonalità.
Così da una tela vitale piena, colorata e differenziata il risultato è la possibilità di utilizzare pochi o nessun colore, rendendo il dipinto spento, buio e a tratti incomprensibile.
Con la soppressione delle emozioni l’impulso di vita e il numero uno si spengono e ciò che resta è la noia. La sofferenza di certe esperienze sfiancanti, determinate relazioni impossibili intrise di dolore, il reiterare di pazzi comportamenti, anestetizzano le emozioni. I dolori cronicizzati ci rendono assenti, spettatori di noi stessi, non più protagonisti. La noia è la perdita del proprio protagonismo.
Così ogni attività, ogni evento, ogni contesto perdono di interesse, perdono di potenza, limitando la persona a emozioni fredde, rigide e bloccate. La noia porta ad una chiusura individuale, ogni stimolo perde quota, il suo valore, perché se congeli le emozioni, si tarpano le ali, precipiti nello schianto di uno sguardo fisso nel vuoto.
le emozioni sono il sale, l’ agro dolce, il miele, l’ acido e il piccante, l’ insipido, il tiepido, il ghiaccio, il bollente della vita, traducono il reale in un impatto soggettivo, trasportano, sono espansioni di energia vibrante, impetuosa e Vera. La noia è sensazione di vuoto, isolamento, smarrimento e simmetria tra la gente, impossibilità di percezione di se stessi e degli altri, è distacco.
Le emozioni sono fiumi impetuosi, scroscianti, travolgenti, freschi, veloci, cascate imponenti e meravigliose, ma cosa succede se le blocchi? Se rendi impossibile il loro scorrere, il loro movimento?
L’acqua non ha più riciclo, diventa stagnante, più passa il tempo, più si sporca, diventa torbida, non si vede più il fondo, non si vede più cosa c’è all’interno. Le emozioni trattenute sono un danger, sono come le acque in una diga, più si accumulano, più si rischia di spaccare gli argini della mente e della pelle, di travolgere se e gli altri.
Le emozioni sono le radici di una magnolia, da esse prende il nutrimento per far sbocciare i fiori della vita, che colorano i rami e il paesaggio del nostro eden. In assenza delle radici nulla nasce tutto si secca, i frutti scompaiono.
In assenza delle emozioni viviamo la nostra vita con assenza di profondità, senza desiderio, lasciandoci trasportare da ritmi obbligati, da una routine di apparente tranquillità, monotona e alienante. Viviamo le situazioni per il dovere e la consuetudine di farlo, senza gioia, ne desiderio.
Come si potrebbe ballare un tango senza emozionarsi? Cantare, sorridere, piangere, incazzarsi senza emozioni? Fare l’amore senza passione o desiderio?
Dovremmo allenarci a non bloccare le emozioni, allenarci a farle emergere e farle uscire e sgorgare con tutta la potenza del loro urlo liberatorio, ogni istante sarebbe una festa, una danza scatenata senza attesa di speciali ricorrenze, perché le emozioni sono le nostre ricorrenze per festeggiare di continuo noi stessi, per un pianto non frenato, una risata chiassosa e scomposta, orgogliosi e spregiudicati, fieri di essere vivi dentro una emozione senza coprirsi il volto con le mani.
Allenarci a gioire, ridere, urlare, piangere e commuoverci per liberare la nostra energia, la nostra potenza, liberare il nostro Io, la nostra essenza . Il blocco, la fine e la morte delle emozioni, è la noia.
benedetta racanelli
tirocinante di psicologia
Presso lo studio burdi
Senza Freni
Senza Freni
Chi fa analisi, si mette in discussione, abbatte i limiti, tira fuori le proprie meraviglie. Con essa ritorna integro e stabile, persona di fiducia, ripudia le maschere e non ha peli sulla lingua, è uno su cui si può fare affidamento, ma non all’ infinito.
È quella persona in grado di poter dire a se stessa, c’è in me qualcosa che non va, non funziono, faccio gli stessi errori, sono imprigionata nelle mie nevrosi dei miei automatismi, vorrei svincolarmi, andarci a fondo, scovare le radici, poterle sradicare.
Il problema vero tra chi si mette in discussione e chi non lo fa, è molto serio e profondo, al punto tale che esso viene esteso dal personale ad una relazionale, al sociale. Ognuno potrebbe dire di essere in grado di mettersi in discussione, ma non è così semplice. Ognuno direbbe di essere medico o psicologo di se stesso e che non credono in loro, perché sono puri commercianti. A parte le troppe resistenze e gli alibi presenti in queste espressioni difensive, c’è anche tanta esibizione di ignoranza.
Questo modo di pensare e di agire, viene determinato da chi ignora quei meccanismi mentali, tanto presenti in ognuno, che sono condizionati dalla memorie e da meccanismi interpretativo – proiettivi, limitativi, che intaccano e deviano la vita personale quotidiana delle relazioni e quella vita sociale. Ognuno si attribuisce la capacità di sapersi mettere in discussione, per il fatto di vedersi semplicemente come soggetti pensanti, capaci di auto analizzarsi. Un’ analisi di questo tipo è farlocca, porta solo acqua al proprio mulino.
L’ eccellente padre della psicanalisi Sigmund Freud, riconosce il limite di potersi analizzare da solo e per questioni personali si rivolge dal suo amico psichiatra Josef Breuer, però da questo riconce disappunto, perché non in grado di farla. Per la psichiatra psicanalista Karen Horney, autrice di un famoso libro dal titolo “Autoanalisi”, riconosce il limite dell’ analisi fai da te.
Pertanto gia chi non si mette in discussione ha già un serio problema, ma chi fa autoanalisi fai da te, è un falsario mendace, perché si auto giustifica e commisera, si ri-conduce ai propri torna conti. È patologico chi ritiene di non sbagliare mai, chi mitraglia alibi in ogni circostanza, chi è convinto di avere le ragioni sempre dalla propria parte si condanna ad un’ isolamento auto inflitto.
L’ analisi, quella titolata, va fatta da uno specialista che oltre alle sue competenze, è super partes, non ha obiettivi personali rispetto ai cambiamenti del soggetto, se non quelli concordati. L’ autoanalisi invece non è verificabile ed oggettiva, è del tutto differente per chi ha fatto un percorso individuale o gruppo analitico.
Recitava Jean Paul Sartre, “l uomo è l’ inferno”, invece sottoscritto è felice di entrare nel proprio studio, perché può incontrare persone “normali”. Ciò che rende un uomo sano e normale è unicamente la sua capacità di mettersi in discussione o il suo solo desiderio di farlo. Il mondo fuori è tossico, nevrotico, fuori di testa, psicotico, alle volte da essere odiato.
Chi fa analisi viene riportato alla serenità di se stesso, compie un restyling o il restauro del suo valore che possiede da essere riportata allo splendore dell’ opera che è, raggiunge il suo benessere, impara correttamente e consapevolmente a relazionare con il gli inconsapevoli.
Chi fa analisi, è autorizzato a mollare i propri freni inibitori, è capace di una rabbia ponderata, evoluta, ma incisiva. Chi l’ analisi non la conosce e non sa cosa sia il mettersi in discussione, trasforma la propria rabbia, specialmente quella sommata ed implosa, in impulsività o violenza.
La rabbia è una emozione regale, che si affaccia naturalmente in ognuno, quando si trova in contesti in cui si affranca il bisogno di giustizia. Essa è il nostro body gard, il rappresentante sindacale che ripetutamente invita e chiama all’ appello la propria presenza. La rabbia non è mai pericolosa, ma la sua reiterata implosione, si.
Quando essa si presenta, è delicata, alle volte non trova le parole, si manifesta sotto forma di sensazione di disagio, ma se la reattività è immediata, trova le sue ragioni e gli equilibri appropriati. Ciò che conta è comunque la sua espressione, mantenendo il contatto con i contenuti reali. La rabbia diviene depressione o violenza se ripetutamente viene soffocata.
Chi fa analisi, da ragione e valore ai propri diritti, ai principi, all’io e alla propria dignità, non va mai tralasciata, non detta o nulla di intentato. Essa è l’ espressione della propria intimità. Pertanto, parlare sempre, tacere mai. Ogni qualvolta affiori, una pur microscopica , si viene chiamati all’ appello, al proprio protagonismo, la rabbia è una grande opportunità per essere sempre vivi e presenti.
Se non ascolti la tua rabbia, l’ altro si regola su di te, ti metti in disparte, in secondo piano, scompare la tua autostima, diventi preda e zerbino, ti fai sottomettere e svalutare. Quando non
l’ ascoltiamo, ci ammaliamo e diventiamo i massimi responsabili, perché essa ti parla di continuo e tenta di difendere incessantemente la tua salute. La vita è un incessante confronto e la risposta data produce stimolo ed adrenalina, stanca e svilisce solo chi molla e non l’ ascolta.
Una persona depressa, schiva la rabbia, non ha testa per il confronto e la lotta, è stanco di suo, magari vorrebbe scomparire, si pone già come un perdente in partenza. Una persona mossa dalla rabbia, viene mossa dalla sua pulsione di vita, è più tranquilla, intraprendente e produttiva, produce endorfine e adrenalina; da lì a poco ogni conflitto gli risulterà essere la norma, perché risponde, si confronta, combatte ed ha riscontri, ribadisce, non molla, così da offrirsi l’ opportunità di avviare dei cambiamenti e risultare soddisfatto qualunque sia il risultato, perché ciò che più risolleva è, comunque, aver fatto sentire la propria voce.
giorgio burdi
ContinuaLa Pulce
La pulce:
Lettera al femminicida
La pulce è un parassita che ti succhia via il sangue, si nutre della tua energia, della tua vitalità, te ne priva, se ne alimenta e se ne impossessa del cibo che sei. La pulce è infima, ingannevole, ti raggira, e presuntuosamente ti manipola e ti ribalta.
La pulce è un errore, un orrore. che ti si attacca addosso, ti incapsula, ti rinchiude, ti toglie il respiro e ti rende preda, è un cannibale che ti gusta a brandelli.
La pulce è quell’uomo che sente ciò che ti manca, ti nutre di quello che ti serve, ti fa credere nel tranello di essere l’ unico indispensabile, per poi intrappolarti e strapparti l’anima.
La pulce è un vuoto narcisista, insignificante, parcellizzata, deviata, malato pervertito in frack, un’aberrazione cromosomica. È talmente assente a se stessa che necessita della tua vita per esistere.
La cosa peggiore è che la pulce sceglie la sua preda, sulla base di quanto piu essa soffra, è un ombra che si nutre di quella poca luce che ti resta, più brilli più ti sceglie. Ti rinchiude, ti controlla, detesta il tuo sorriso, lo schiaccia, ti logora.
Si prende come fossi una schiava e lui il tuo padrone. La tua bellezza, la tua gioia, la tua innocenza e la tua forza, la tua voce, i tuoi occhi, il tuo corpo, lo rendono migliore, fino a prenderti la vita come un vampiro.
La pulce è avida, egoista, bugiarda, ti confina, ti tiene segregata, ti isola, ti assoggetta, è muffa, infetta tutto ciò che tocca, ti fa marcire, non ti lascia finché non sei putrefatta, fin quando non ti avrà prosciugata del tutto la tua linfa. Finché anche il tuo respiro non cesserà di esistere.
Contamina la tua aria, è un gas nocivo, ti stordisce e non si ferma, fin quando non avrà terminato la sua opera, la sua azione scenica, è teatro d’orrore. Per lui sei vittima sacrificale, sacrificio di cui necessita per aumentare il suo ego, e il suo potere, annientarti per dare un senso alla sua misera e inutile esistenza.
Ma la pulce ha un grande limite, essa si nutre di te, brama la tua energia, deve togliertela per averla. Ma se ti sottrai, lo fai morire. Se denunci, lo vedrai tremare. Più ne parli più ti salvi. Io ho fatto tutto questo, ne ho parlato, ho denunciato, ho lottato.
“Ti stai lasciando intimorire da una pulce”: è stata la frase la frase salvifica del mio psicoterapeuta che ha smontato per sempre l’ impalcatura delle mie paure.
Una voce fuori, come di casa, che mi rimbombava nella mia testa, tale da disintegrare in modo deflagrante i miei terrori. Una voce che mi sveglia dall’incubo, dal mio sonno. Apro gli occhi, e tutto di un tratto, la pulce che mi divorava come un tumore il cervello, torna nella sua dimensione microscopica; mi sembra un sogno ma ora posso finalmente vederla per quella che è, piccola, insignificante, inutile, larvale.
Ritrovo la forza, la mia forza, che motiva sotto i suoi tacchi, mi riprendo ciò che è mio. Mi è esploso sul volto il sorriso ed ho scelto di tornare a sorridere convinta, di tornare a vivere lontana dai suoi inganni, dalle sue manipolazioni, dal suo controllo. Ho finalmente scelto tutta me.
Ho riscoperto di quanta forza ho e che ha cercato di succhiarmi. Ho riscoperto la bellezza dei miei occhi, delle mie emozioni pra prive delle sue censure e controlli.
È Bella, la mia libertà.
Ho imparato a riconoscere le pulci, le ho viste con gli occhi della verità, non dovete temere di allontanarle, dovete urlare, parlarne, denunciarle, salvarvi, amarvi, anzi vi suggerisco che il miglior antiparassitario lo trovate in voi stesse, nella buona autostima e nel sano vostro amor proprio.
Non abbiate paura, la paura è omertà, vi rende complici. Fatevi aiutare, non chiudetevi, parlatene, denunciate, ribellatevi, amatevi incondizionatamente e come me tornerete a sorridere, tanto, questa specie di uomini, sono solo delle pulci.
ilaria
ContinuaIl Mio Silenzio
Il mio Silenzio
Bianco, candido, pulito, ordinato,
Il silenzio si frappone tra il caos dei pensieri,
Gli da un senso, gli dà un posto.
Il silenzio è fresco, intonato,
Come il respiro di chi ami e ti dorme accanto.
Il silenzio ti dà pace, ti dona il tempo, scandisce i pensieri,
Il silenzio può generare sentimenti ambivalenti, contrastanti.. dipende da te.
Se hai paura dei tuoi pensieri, della solitudine delle tue emozioni, il silenzio può essere mostruoso, può generare un tornado di pensieri a cui resti legato, ti trasporta con irruenza e senza sosta, non riesci a padroneggiarlo e si trasforma in rumore assordante.
Ma se sai accoglierne la bellezza e percepirne l’eleganza, il silenzio ti parla, ti risponde. Ti culla, come l’amaca in una pineta, con freschi soffi di vento.
Il silenzio spoglia dalla freneticità dei doveri, dalla ricerca di soluzioni veloci. Dall’assedio cognitivo a cui siamo sottoposti senza concederci tregua.
Il silenzio è la lettura di un libro davanti a un raggio di sole che irradia la stanza,
È una tazza di caffè al mattino sulla balconata,
È andare al mare a guardarci l’orizzonte,
Il silenzio è un momento personale di conoscenza senza giudizio, di ammirazione verso l’infinito del nostro Io, È concedersi di esserci, soli per noi, per guardarci dentro.
Il silenzio è respiro, lento, ritmato.
È sensazione, un momento intimo in cui ascoltarci, sentirci, espanderci.
Quando immagino il silenzio vedo la natura, sentieri, fiori, immagino il calore del sole che supera l’intreccio dei rami in una foresta, ascolto l’acqua della sorgente mentre salgo di quota in montagna.
Sento il ronzio di un’ape che passa di fiore in fiore.
Sono in contatto con quello che ho attorno, sono libera di sentire davvero.
Il silenzio è un momento personale, una parentesi rassicurante, è corpo e anima in sinergia.
Il silenzio non richiede niente, è denso, intensamente assente. Il silenzio è infinità, la nostra, personale infinità.
Dovremmo prendercelo, di dovere,
Regalarci momenti di silenzio,
Donarci la possibilità di sentirci davvero,
di essere intimamente presenti
a noi stessi.
benedetta racanelli
ContinuaEmpatia
Empatia
Empatia etimologicamente vuol dire “ sentire dentro “ , vivere su se stessi lo stato d’animo dell’altro.
Significa connettersi con l’altro.
L’empatia è una funzione fondamentale che contraddistingue l’essere umano, in quanto gli consente di provare su stesso le emozioni, le sensazioni piacevoli o spiacevoli che percepisce da un’altra persona, neuro biologicamente l’essere umano possiede dei neuroni specifici, chiamati neuroni specchio, che si attivano attraverso la visione o la percezione di una determinata emozione, sensazione o azione dell’altro.
Appare quindi chiaro quanto importante sia l’empatia.
La forma più simbiotica di empatia è quella che una madre sperimenta con il proprio bambino
appena nato… si instaura una fusione così profonda da permettergli di rispondere prontamente ai bisogni e alle esigenze del piccolo, in questa fase chiamata identificazione materna primaria,
la madre e il bambino diventano un tutt’uno, l’uno è il prolungamento dell’altro, difficile identificarne e circoscriverne un limite.
Le relazioni umane si basano sull’empatia, la comunicazione stessa trae le sue origini dall’empatia,
sarebbe impensabile relazionarsi, affezionarsi e amare, senza l’empatia.
Nonostante quanto sembra essere solida e imprescindibile questa verità.. nei rapporti umani la
capacità di connettersi con l’altro sta diventando sempre meno presente.
La voglia e la capacità di vedere empaticamente l’altro, di guardargli dentro, di comprenderlo,
sentirlo… sta svanendo.
Ed è la società stessa che ci sta costringendo a farlo.
La società moderna infatti promuove un’idea dell’uomo individualistica, un’idea di relazioni veloci,
facili, relazioni smart. Difatti attraverso le diverse piattaforme basta semplicemente aprire una chat
e parlare, ci si scambiano delle parole, si chiacchiera del più e del meno, di quello che uno fa nella
vita, dei sogni, di sesso, di quello che si è mangiato un’ora prima, e si fa sesso.
Quando ci si annoia si chiude semplicemente l’app. È facile, non servono neanche spiegazioni.
Le relazioni stanno diventando sempre più fredde, egoistiche, nevrotiche. Stanno privando le
persone della magia della comprensione, del dialogo vero, della meravigliosa capacità di entrare
nell’altro e sentire le sue paure, le gioie, le sue voglie sulla propria pelle.
Non sembra così terrificante non sentire l’esigenza di comprendere l’altro?
L’identificazione propria dell’uomo, passa inevitabilmente verso l’identificazione sociale, per poter mangiare devi inizialmente essere nutrito, per poterti vedere devi essere visto.
Per riuscire ad esprimerti devi essere ascoltato. È necessario esistere socialmente per poter esistere
individualmente.
Eppure questa cecità emotiva sociale sta divampando sempre di più, portando bambini, ragazzi,
giovani adulti a non essere visti e non poter ne voler vedere,
Vivendo delle interazioni e relazioni parziali, egoistiche, mascherate, private dell’essenza, dell’anima.
La mancanza di empatia erge muri, circoscrive limiti, priva l’essere di pienezza, toglie l’energia,
ingabbia l’anima.
In questo mondo di mancanze, in questa società che ci toglie anziché renderci, trovo la salvezza…
trovo la pienezza nella psicoterapia di gruppo, all’interno della stanza degli specchi.
In questa stanza è possibile, anzi indispensabile togliersi la maschera. Immergersi nelle emozioni,
lasciarle andare, lasciarle fluire così che tutti i presenti possano viverle, arricchendosi, prendendo e
dando. Le emozioni in questo spazio protetto ci attraversano, in cerchio, lasciando in ognuno
qualcosa in più, arricchendolo, incontro dopo incontro, difesa dopo difesa, dopo ogni sorriso,
lacrima, rabbia, affetto e presenza.
È uno scambio emotivo che ti nutre l’anima prosciugata da un individualismo imposto.
In questa stanza l’empatia prende forma, si riprende il suo spazio, in cambio ti ridona la tua essenza.
Ti fa vivere.
Benedetta Racanelli,
tirocinante di Psicologia presso lo Studio BURDI
Relazioni Takeaway
“La Riserva in panchina “
Le Relazioni takeaway
Esistono relazioni in cui non si è considerati come priorità, ma nascondono, opzioni finalizzate, accessori atti al raggiungimento di bisogni e scopi più reconditi ,occultati, finalizzati ad una rapida consumazione dell’ altro.
Relazioni takeaway, fatte di cibo succulento, buono da impastare con la sua saliva, degustarlo con la lingua, digerito con lo stomaco attraverso i propri succhi gastrici e poi espulso ed allontanato, attraverso una cascata di acqua, per lavarne il putrido ricordo.
Sono le relazioni in cui uno dei due soggetti pone l’ altro in un limbo, in una estenuante e reiterata dolorosa sensazione di continua attesa, alle volte per anni ed anni in standby, sempre con tanta poca chiarezza e molta ambiguità.
L’ altro, un giocattolo, un giocatore in panchina, una riserva senza possibilità di carriera, un rimpiazzo occasionale, un fermo biologico, in attesa che l altro nel frattempo esplori altre possibilità, che termini di giocare con opzioni più convenienti e disponibili e per poi rientrare in gioco e ricontattare la riserva in panchina quando sarà utile, riprende la giostra. Il gioco dell’ oca riparte, un giro giro tondo senza fine, come con oggetti consumabili sporcati e cestinati.
Per riconoscere chi mette in panchina, si necessita di una lente d ‘ ingrandimento attraverso la quale leggere i segnali devastanti e che permettono di prendere una posizione per se stessi . La sensazione e’ sempre quella di non essere mai la prima scelta, le esigenze e i sentimenti provati hanno poca importanza.
Le comunicazioni si fanno sporadiche, e quando riappaiono, trovano il tempo che trovano, hanno il tempo contato, arrivano sempre allo stesso punto, si ritrovano solo finalizzate sulle necessità e sulle convenienze dell ‘ altro, fondate sempre sui soliti bassi bisogni personali. Messaggi e desideri di vedersi diventano opzioni possibili e strumentali solo qualora esista un’ alternativa più appetitosa tutta da gustare.
L’ attesa all ‘ interno di questa dinamica, provoca, per chi rimane in panchina, un costante stato di frustrazione e insicurezza , di inadeguatezza profonda, tali da portare a dubitare del valore di se, a vantaggio di una relazione, che altro non può essere, se non la la mercificazione di “ Se”.
Chi mette in panchina, vive di traumi e non lo sa, ha una madre che tradisce il proprio padre, e il figlio sa. Di conseguenza non ci sarà donna che non rimarrà in attesa e che verrà sistematicamente tradita, tutte le donne conosciute, verranno tradite con altre donne, come rivalsa contro la prima donna, la “ madre”. Ciò comporterà un ripudio nei riguardi della propria moglie, non toccata e ritenuta illibata, al fine di recuperare una madre perduta.
Colui che ti mette in panchina, vive una problematica di tipo bipolare nel senso della stabilita- instabilità, sicurezza – insicurezza, fatua presenza – perenne assenza, paura ad assumere un impegno in coppia , unita alla necessità di mantenere aperte situazioni e opzioni con cui attuare il gioco della giostra senza fine, illudendosi della propria onnipotenza .
Chi rimane in panchina deve trovare la forza di rivendicare , reclamare il rispetto, il diritto alla propria dignità , perché tutti siamo titolari e certe relazioni impostate a servizio dei bassi bisogni altrui, lasciano la sensazione di essere carta da bagno, il tempo di un fazzoletto, sempre ultimi a loro.
Per uscirne da certe sottomissioni deve essere ritrovata la piena consapevolezza di certe dinamiche all’ interno delle quali ci si imprigiona . La piena consapevolezza alloggia all interno della rabbia per aver permesso, a determinati mercenari, di averli fatti insinuare tra i nostri pensieri, di aver permesso loro di comprarci e velocemente venderci, attraverso l’ inganno e l’ astuzia di un trucio commerciante.
Il contatto con la propria rabbia, porta alla rivendicazione e alla rivalutazione della dignità di se stessi, del proprio valore e della propria autostima e ciò può essere raggiunta attraverso una comunicazione rivendicativa chiara e diretta del sé, verso la persona interessata, attraverso la quale stabilire i limiti, i confini o la rottura con certe relazioni profilattiche.
angela ciulla
ContinuaNo Soscial
Social
e la Società Schizoide
Pubblica, condividi, like, reaction.. aggiorna stato, storia. Non siamo più persone, siamo followers, un cambio di identità, da umani ad umanoidi. Siamo nell’era del messaggio in codice, contraddittorio, velato, molteplice.
Nell’era dei social. Piattaforme che ti permettono ti rimanere in contatto con amici, di creare nuove connessioni e allargare la cerchia di “follower”, solo attraverso un + segui.
Ma cosa c’è esattamente di sociale in questo? In un abbattimento delle interazioni reali a
favore di comunicazioni parziali, fittizie,dosate e mascherate.
Questa è l’era che la maschera ce la mette, ci impone di indossarla, in realtà ce ne regala
diverse a seconda delle situazioni e del tipo di interazione. Pensa che generosa e altruista.
Un’era che ci fa tornare al meccanismo primordiale, ci gratifica e punisce. Il bastone e la carota. Il social è stato pensato come una Skinner box, dove venivano studiati e
addomesticati i ratti, attraverso l’utilizzo di premi e punizioni, dove venivano condizionati a
fare o non fare qualcosa.
Così i like, le reaction, i commenti diventano premi… simbolo che ciò che fai è corretto e
giusto per la società. Il premio ci da gratificazione e ci innalza i livelli di dopamina, e ci spinge ad uniformarci a tutti gli altri per riceverne dosi sempre maggiori.
Per sentirci parte integrante di questa immensa rete che a dirla tutta non fa altro che
rinchiuderci sempre di più, rateizzare le emozioni, barattare l’individualità con l’effimero,
filtrare la persona.
È possibile cambiare se stessi, diventare chiunque, lo schermo crea una barriera che
anziché intimorirci ci da l’illusione di essere “altri”, di abbellirci, cambiarci, “migliorarci”,
snellirci, così da poter postare una foto secondo le caratteristiche canoniche richieste dalla
società social. Regole rigide dettate da un algoritmo.
Poi mettiamo in stand by il telefono, ci guardiamo allo specchio e non sappiamo chi siamo. Non sappiamo più comunicare, perché non c’è lo schermo a proteggere le nostre emozioni e il nostro vero io. Ci sentiamo nudi, sbagliati e inadatti. Senza tutti quei filtri e
“abbellimenti”.
Poi lo riaccendiamo, guardiamo le notifiche aumentare dopo la pubblicazione di una foto e
ci sentiamo meglio, ci sentiamo accettati. Anche se non siamo noi. La comunicazione ha dei teoremi fondamentali che ci permettono di comunicare un messaggio, un significato.
Per poter arrivare al destinatario è necessario che il contenuto sia coerente, e i contenuti
sono due, uno verbale attraverso il quale arrivano le parole ed i vocaboli scelti per la
comunicazione, ed uno non verbale, che arriva attraverso il tono della voce, le pause, i
silenzi, arriva attraverso la vicinanza con l’altro, attraverso lo sguardo, i gesti.
Al destinatario quindi arriva tutto questo per poter leggere chiaramente il contenuto.
È facile dunque comprendere come attraverso lo schermo la maggior parte del messaggio
si blocca e non arriva. Mandiamo un contenuto parziale, spoglio di emozioni e
empaticamente assente. Un messaggio che comunica solo una parte, una sintesi, una bozza.
Che lascia spazio a incomprensioni.
La comunicazione attraverso i social avviene in maniera indiretta, attraverso la
condivisione di una storia o uno stato, visibile a tutti. Dove chiunque o nessuno può
sentirsi interpellato. Anche la lettura degli stessi messaggi è diventata ambigua. Abbiamo imparato a sparire, a smaterializzarci… basta cambiare le impostazioni e togliere la visualizzazione, l’online,
l’accesso. Una modalità di interazione ansiosa, dosata, labile, fuggente. Schizoide.
Se è vero che tramite l’utilizzo dei social siamo tutti interconnessi e la possibilità di
comunicare è diventata più rapida e istantanea, è altrettanto vero che si è persa la capacità
di interagire, di farsi conoscere, di esserci.
Perduti in un labirinto di interazioni superficiali e distaccate, dove un emoticon ha
sostituito il calore di un sorriso e un ❤️ ha rubato il posto di un bacio.
Benedetta Racanelli
Tirocinante presso lo studio BURDI
Arrenditi e Rinuncia
Arrenditi e Rinuncia
.Ogni obiettivo rivolto verso la nostra realizzazione, propone uno slancio emozionale fuori dal comune. Quando vediamo il sole, ne restiamo abbagliati. La sola idea di poter raggiungere una tale meta, ci rimanda una esplosioni di entusiasmi e piaceri intensi, siamo convinti di aver finalmente trovato l’ Olimpo e di essere arrivati. Intravediamo l’ assoluto della nostra riuscita.
Una tale prospettiva, per sua natura pone interminabili e cieche difficoltà, si mostra irta di ostacoli frapposte tra se e la meta desiderata, costellata da impedimenti carichi di sofferenze, cadute e superamenti di errori, tutti da valutare anticipatamente. Ogni meta ambita parte con la consapevolezza che è difficile e l’ impossibile per noi, deve diventare possibile.
Ogni ambizione avverte solo l’ entusiasmo e la sua eccitazione, perché proclama la realizzazione della nostra felicità, ma poco dopo verrà accompagnata dalla consapevolezza che non sarà affatto facile raggiungerla perché propone ostacoli importanti che si confrontano con l’ impossibile.
La bellezza dell’ ambizione è che essa convive tra entusiasmo e paura di fallire, ma inizialmente l’ entusiasmo deve predominare, altrimenti che ambizione sarebbe ?
Le mete più ardue vengono percepite come mete eccellenti e più eccellenti sono, più faticose sono da raggiungere, tali da renderle improbabili. Ad esse si oppongono le due massime difficoltà, l’ ostilità del mondo che anela ai propri interessi, ed una struttura più personale fatta di principi, si propone così una topografia come un labirinto estenuante che ti riporta, per tante volte, al punto di partenza.
Il raggiungimento di qualsiasi meta pone su un ring per una lotta, contro un mondo circostante costantemente in opposizione e le nostre memorie interiori, al fine di comprendere il senso del bene per tutti e il malessere da evitare. La lotta sul ring è contro il mondo, il numero due, e contro il numero due di sé. Il nostro numero uno, il proprio se, resta sempre in disparità, si trova sempre da solo a lottare contro due numeri due, uno esterno e l’ altro interno. Il fallimento è dargliela per vinta e cedere ad essi.
Cedere e rinunciare a questa lotta è il fallimento più grande che possiamo garantirci fintanto che non riusciamo a scollarci di dosso, il nostro numero due, per lasciare lo spazio nella nostra anima, esclusivamente al nostro nome, al nostro numero uno. In tal caso la partita sul ring, sarebbe alla pari e saremmo più agevolati e propensi nel raggiungimento delle nostre ambizioni.
Non tutto ciò che piace, fa bene, e non tutto fa bene di tutto ciò che si sceglie. Facciamo sempre i conti con l’ errore quando si sceglie la perfezione che risiede nell’ investimento sugli altri. È anche vero che nessuno può restare per sempre solo, e varrebbe la pena concedersi all’ errore, ma l’ errore è utile se insegna nel ritrovare incessantemente la strada giusta.
Perché spesso i programmi della vita, non possono mai essere i tuoi programmi, quando credi che tutto puoi, rischi di essere onnipotente, ma la felicità è una coincidenza di programmi allineati e questo miracolo puoi farlo solo con te stesso. Ogni volta che ti allinei sulle speranze altrui, rischi un fuori pista, perché l’ uomo è infinito e va rispettato e volerlo allineare a se, produce malessere per tutti e violenza.
La rinuncia è spesso un bene, è desiderare di non voler allineare nessuno a se e riprendersi i propri passi, perché il benessere è sempre sulla propria scia, relativamente su quella altrui, diversamente è il caos, è l’ escalation del conflitto, della dittatura, della sottomissione e del proprio isolamento.
Il ribelle, sa rinunciare, e per sua onestà, impara a non tradire se stesso. Chi rinuncia, si ricentra sul proprio asse e ritrova il suo sistema di gravità, non si è mai visto un pianeta appoggiato ad un altro. Col tempo impara ad essere una canna che si flette ma non si spacca. Ciò lo rende solo, ma più acuto e profondo, melanconico e sereno, ma più forte, perché non più disposto a rinunciare a se, saggio amico di se stesso.
La rinuncia ha il potere di distendersi e rilassarsi, la rinuncia è resa, pone le condizioni per la pace, con la convinzione che tutto non può dipendere solo da noi. Quando rinunciamo, rinunciamo alle difficoltà altrui, che fanno da zavorra, e ci riprendiamo la nostra vita. Rinunciare, significa riconoscere agli altri i loro problemi, le loro sofferenze e gli impedimenti, i loro fallimenti, e a se, i propri, e che tutto ciò, non potrà, smisuratamente, diventare per sempre nostro. Rinunciare, è evitare tutti quei tentativi di giustificazione altrui, che hanno il solo scopo di manipolazione commovente, per trattenerci incastrati a loro.
La rinuncia, pur essendo un fallimento, risulta essere comunque una vittoria, perché è la sola condizione che permette di poter cambiare direzione, tanto da non rimanere incastrati nell’ angolo, tale da continuare la ricerca verso la propria aspirazione. Quanti sono fermi all’ interno dei propri compromessi, perché sfiniti dalle ferite del cercare ? Alle volte, rinunciare, è anche rinunciare alle proprie difese, scegliere il meno perfetto, che un perfezionismo impossibile, o subire, o scegliete di rimanere perennemente soli.
giorgio burdi
ContinuaIl Vuoto
Il Vuoto
.Ogni autore, prima di ogni sua opera, brancola nel buio, è in attesa, alle volte è estenuato, altre volte molla, in altre ancora spacca la tela, il suo estro si srotola dal nulla, per diventare caos, crisi esistenziale e poi alla fine di un lungo e faticoso travaglio, genera l’ opera; ma tutto si origina sempre dal nulla. Prima che si edifichi un’opera, noi abitiamo, proveniamo, partiamo e facciamo sempre i conti e attraversiamo la “ non esistenza”, con il vuoto. Ma se il vuoto partorisce certe opere e meraviglie, sarà davvero un vuoto ?
Il vuoto è l’ incontro con la dimensione del nulla, il punto zero, quello fermo, la stasi della noia, è quel fotogramma di uno sguardo che ruota, che si è perduto, che ti lascia smarrito in una strada deserta, ma affollata, tra i palazzi di una grande città, con la gente che ti scorre accanto e sei indifferente, stupito per l’ incolmabile distanza che c’è con loro, imbarazzati, per tanta indifferenza e per tanta vergogna per noi e per gli altri.
Il vuoto è uno sfratto di Te dal mondo, da casa tua, non ti permette di percepirti, non vedi collocazione e ne tempo, solo sagome inanimate; il vuoto è una tela bianca in una cornice classica, dorata, è un ladro che ti ruba le sensazioni, l’ ascolto e l’ interagire, si piazza come un irriverente e non se ne va.
Il vuoto, è anche come un viale di pini profumati, che attraversi da solo e ti pervade del suo profumo, ti fa spavento, ma ti calma con la sua bellezza, ti rilassa come il deserto, e ti fa sentire smarrito, ti riempie di ossigeno e ti fa toccare l’ aria.
Il vuoto è una baita isolata su una valle, il luogo dove tutto tace, è il perimetro che delinea il rumore dalla quiete, è il vuoto di coloro che per quanto siano importanti, ci sono e non si vedono, sono come la scia di un meteorite. Il vuoto c’è, quando parlano parlano gli assenti, quando derealizzi e ti dissoci, ti esilii nell’ nella tua bolla d’aria.
Alle volte evadiamo dal vuoto, ci riempiamo di suoni, luci intermittenti, accelerazioni no limits, percussioni, perché il vuoto è, l’ assenza di punti di contatto, sensory deprivation, come l’ assenza di gravità di un astronauta galleggiante. Nel vuoto, basta solo una stella di luce nel buio, per distrarre l’ attenzione da esso, noi cerchiamo la luce, il suono, il tatto, il calore, sono la catena che ci aggancia alla vita.
Ogni scritto parte da un vuoto, prima non esiste, così ogni quadro o l’ estro nasce dal niente, come le note su un pentagramma, piovono dal cielo, così come una scoperta, una invenzione, hanno tutto in comune, prima di essere ammirate, non c’erano;
La vita ci partorisce dal nulla, abbiamo necessità di rivedere questa concezione che abbiamo del nulla.
La nostra vita parte dall’ agire di due cellule, originariamente separate, l’ una lontana dall’ altra, esse però rappresentano il noi potenziale, ma senza la loro combinazione non ci saremmo. Le cellule prese isolatamente, on sono il nulla, ma non sono neanche il noi; ma sono potenziali, sono vita. Essa in natura esiste a prescindere dal noi.
È l’ incontro tra le due cellule che ci concede il dono della consapevolezza che tutti noi siamo sempre esistiti ed eterni, e tutto ciò determina solo la morte definitiva del concetto del nulla.
Ciò che ci permette la vita è “ il contatto “, per amore o non; e la vita dell universo non può essere opera, se non opera di Colui che permette il “ contatto “ tra i diversi elementi, come un artista dinanzi alla sua tela bianca che combina i colori.
Se esistiamo, da quale nulla proveniamo, ? non dovremmo esserci ! Il nulla per eccellenza, così tanto odiato, è la morte. Ma la conosciamo per definirla ? non avendo di essa alcuno strumento di conoscenza, ne di misura, non essendo scientificamente osservabile, è corrette dire che rappresenta il nulla assoluto ?
Nel momento in cui siamo nati dal nulla, ma di fatto esistiamo, il nulla non esiste; allo stesso modo, potremmo dire della morte , che essa non esiste, pertanto, inequivocabilmente, la morte non c’è. Non sono questi giri filosofici, parole, nemmeno speculazioni intellettuali, ma la logica è questa.
La morte come il nulla, è una nostra congettura, molto sbrigativa, chi sa davvero cosa essa sia, chi l’ha mai conosciuta ? Nessuno può di essa dare una accezione e definirla, ha quella dimensione non descrivibile e non controllabile, esattamente come il vuoto. Il vuoto è condizione indispensabile per la vita, è il pieno che crea non pochi problemi.
Se dal vuoto nasce questo scritto, la nostra vita, le nostre scienze, le nostre opere d’arte, la morte necessariamente sarà una condizione simile, del nulla e della vita, siamo noi che gli diamo una dimensione ed uno spessore che non può avere, e per giunta una accezione negativa, perché essa non la conosciamo, così come ci fa spavento e non conosciamo i tanti vuoti che viviamo. Il vero spessore non è la morte o la vita, è che il vuoto, non esiste. È il vuoto è come l’ amore che non si vede ma c’è .
giorgio burdi
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Sento
Sento
Sentire è lasciar parlare la totalità di se, aldilà di ogni linguaggio e di ogni grammatica differente, è la grammatica dell’ anima, è esprimere un universo dentro di noi, denso di significati, è un eloquio veloce piu della luce, ci collega a noi, oltre ogni nostro orrizzonte e distanza, è come parlare in una stanza, anche se fossimo su pianeti diversi. Il sentire è la quarta dimensione, è ciò che trascende la pelle e va oltre ogni confine ed ogni dimensione è l’ aura intorno a noi, l’ espansione della nostra luce, è il proiettore dell’ anima, è vedere nel buio agli infrarossi.
Chi sente, anticipa, è un miglio avanti, è smart, veloce, sensitivo, veggente, “legge le carte”, ha un talento innato, tanto più se ha sofferto, chi ha toccato il fondo e si è risolto. Chi soffre va giù, come una trivella che trita e spacca i sassi, ma trova le risorse, i propri giacimenti.
Sente, solo chi ha brancolato nel buio e si è ingegnato per costruire torce dal nulla, chi ha camminato scalzo sui ciottoli, si è spianato la strada da solo, chi ha usato l’ aratro e il piccone, chi si è arrampicato a piedi scalzi sulle rocce o ha camminato sui pezzi di vetro, in frantumi, dei propri palazzi di sabbia.
Chi sente vede, anticipa, è attento, sensibile, arriva, riesce, ce la fa, cade e non si arrende, non perde ciò che gli altri non vedono, non si perde d’ animo, non rimane spalmato sull’ asfalto, perché nel suo sentire, percepisce la sua voce flebile che dapprima bisbiglia, poi suggerisce, parla e poi urla; e tanto più urla, quanto più viene mesa a tacere, e per nulla al mondo rinuncia a farsi tarpare le ali e a farsi più tappare la bocca.
Chi sente, trafigge e oltrepassa la notte, dalle sensazioni partorisce intuizioni, si fanno ruscello, che si srotola per chilometri a valle, parte dalla fonte delle più alte vette, dalle profondità delle rocce che levigano i ciottoli e travolge tutto fino alla pianura di un lago.
L’ intuizione del sentire, si fa movimento, scroscio, si fa salto nel vuoto, cascata nei dirupi che travolge i tronchi, delinea una scia e poi mette tutto al margine, l’ acqua pura prende il suo posto d’ onore centrale, secondo un ordine naturale, trova la dignità e la coerenza di se.
Chi sente è libero, e la libertà di sentire rende fieri, se agisce, sente solo chi è libero da fronzoli, da paranoie, da interpretazioni, dal giudizio, dalla mania del controllo, dagli stereotipi e dai pregiudizi, da ogni forma di indottrinamento moralistico o politico, sente chi non è diffidente, perché la diffidenza distorce tutto ciò che è nuovo, che diventa immancabilmente vecchio, chi sente è un open mind, sente chi impara a far tacere il mondo, che fa attenzione a non lasciarsi da esso annegare.
Chi sente, è inesauribile, attinge dalle proprie acque, dalle proprie risorse, resta integro, fedele a se, a ciò che realizza, è incorruttibile, intatto, cambia, ma resta tutto di un pezzo, diviene, rimanendo se stesso, tale e quale a se, compatto, un tutt’uno, un isotopo, un atomo, una batteria nucleare che non si esaurisce mai, è un sole tellurico, un focolaio che non si spegne.
Ma dove sono e si attingono tutte queste risorse, talmente misteriose ? Nel mistero del proprio vuoto, nella propria follia, intesa come il totalmente diverso dagli altri, nell’ indicibile, in ciò che gli altri non possono capire, nel non scontato, nel non ovvio, nei propri simboli, nello sragionare differente dal mondo, nel ragionare con la propria testa, nel proprio istinto, nel mondo onirico che è il confine oltre l’ altro cosmo di noi.
Chi sente, intuisce, prima bisbiglia con voce labile, ascolta, poi parla, sceglie, soffre, urla, agisce e cambia.
Le ossessioni non conciliano col sentire, perché l’ ossesso, non lo sa, ha in testa le voci degli altri, che lo confondono e lo rendono disordinato e ritardatario; è ritardatario, colui che perde tempo nel trovare la sua voce nella sua folla mentale; la strada è sentire ed ascoltare se, ma questo diviene possibile, se degli altri si spegne il volume; bisogna sbagliare tante di quelle volte per approdare al sentire, perché i pensieri fissi rappresentano il traffico dei rancori e rammarichi nella nostra mente, che va sgombrata per ascoltare se; si deve errare tante di quelle volte e soffrire, prendere molti pali ,cadute o fuori strada, per imparare a scrollarsi di dosso il mondo e sentire davvero se.
Il valore è nel dolore e non va trascurato, chi ha il dolore sente solo la voglia di morire, ma è proprio lì che inizia la vita, il parto, il dolore non va schivato, anche se ti costringe ad andare sempre e più giù, a scendere, a cadere e a farti male, l’ audacia e la tenacia, fa rinascere, scrosta e purifica, il ruscello che spacca la roccia dopo tanta caduta e fatica. È solo il dolore che ti fa riconoscere l’ effimero, il superficiale, il manipolatore in fuga che ti usa in preda alle sue evasioni.
Sente, solo chi ha un ascolto attivo, i rumori diventano silenzi, il mondo trasparente, scompare la routine, anche le noie riprendono il loro fascino insieme ai fracassi e alle distrazioni. Chi sente, è uno sceneggiatore, ha da raccontare e da dire, ha il teatro e la festa in testa se apre la combinazione del tuo libro, sa leggersi, ascoltarsi e agire. Domandati cosa sento e pertanto è ciò che vuoi e ciò che più desideri, ed agisci.
Due che sentono, diventano complici, si leggono dentro, fra le righe, hanno uno stesso pentagramma a quattro mani, adoperano in contemporanea le stesse identiche note e parole, sono il filo l’uno dell’altro, non perdono il baricentro, il bandolo, anche se si mescolano nel profondo del fondale, sono in grado di immergersi fino in fondo e di ri emergere velocemente per respirare.
Due che sentono, restano eterni, non muoiono, non si stancano e staccano mai, parlano sempre, non tacciono mai, si stupiscono per i piccoli gesti e per le semplici cose, si accolgono uniti.
Ognuno, nel suo sentire trova la propria strada, è un diamante di luce, tutto da vedere ed ascoltare; per apprezzarne il suo splendore si deve disincrostarlo dalle opacità delle paure quotidiane e dalle ombre altrui, perché se ti scrosti, scopri quanto sei nuovo e sei vivo da sempre, luminoso, ma ogni cosa nuova, anche se se si tratta di noi, fa spavento, perché anche il cambiamento di appartenersi può far spavento, rispetto all’ appartenere a qualcos’altro.
giorgio burdi
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