Settimanale Psicologo Roma : LA MAMMA ESTRANEA
Se mia madre è una adolescente
LA MAMMA ESTRANEA
Se mia madre è una adolescente ?
La relazione genitoriale, quando esiste, si prende cura dei figli generati, in determinate circostanze si mette in scena una genitoritorialità adolescenziale tale che saranno i figli a prendersi cura dei propri genitori, sacrificando la propria infanzia e la propria vita a vantaggio genitoriale. Lettera di Sara alla mamma.
Cara mamma, ho combattuto molto prima di iniziare a scriverti questa lettera, ma è giusto che io lo faccia, soprattutto per me stessa.
Ti scrivo e tu sei qui vicino a me, continui le tue solite faccende domestiche, è quasi una follia, scriverti indirettamente e non sputare di getto queste parole guardandoti negli occhi.
Ma come posso farlo? Inizieremmo a litigare, come nostro solito ! Voglio iniziare facendoti ricordare quel disegno che alle elementari la maestra ci chiese di fare: Disegna la tua mamma! Ti disegnai,ma forse non eri proprio tu !
Ti disegnai, con un gonnellone, lungo, quasi fino ai piedi, ma tu non hai mai usato i gonnelloni! Questo mi dicesti .. Ma io la volevo così una mamma. Una mamma coperta con un gonnellone .
Invece i “gonnelloni” ho iniziato ad usarli io, in casa, quando ho dovuto e devo fare da guida a tutti, a te, a papà , a mia sorella, quando ti ripeto giorno dopo giorno come devi comportarti, quando ti vedo nel letto al buio, depressa, per la fine delle tue solite storie d’amore, che poi d’amore non c’è niente.
E tu me l’hai sempre detto, l’amore non esiste ! Gli uomini sono tutti stronzi, e io ti ho creduto e forse lo credo ancora . <> Queste sono state le tue parole.
Ed è forse questa la spiegazione di come non mi sono mai vissuta niente, di come non ho mai avuto altre esperienze, non ho fatto l’amore o sesso, (come lo vogliamo chiamare ?) con altre persone se non con il mio ragazzo, perché in cuor mio le esperienze le ho avute, ma attraverso le tue storie!
Non mi sono mai vissuta niente perché mi ripetevo sempre, io non sono come te, ma forse un po come te lo sono. Sono fredda, perché tu mi hai insegnato questo, non mi fido di nessuno perché tu non ti fidi di nessuno, neanche di noi, delle tue figlie.
Non mi hai mai chiesto scusa, mai, di nulla, quasi non ci siamo mai abbracciate, sempre con quel muro che ci divideva. Non mi hai mai dimostrato il tuo affetto, anche se io so che tu lo provi, e so quanti sensi di colpa ti tormentano, ma non hai mai provato a cambiare, a cambiarci !
Questo mi fa stare molto male, perché penso che diventerò come te, per questo non voglio essere mamma, per questo non voglio sposarmi, perché, attraverso di te in realtà, lo sono già stata e non mi è piaciuto .
Sono appena uscita dall adolescenza, ma non L’ ho mai vissuta, sono tanto grande, quanto stanca , perché vorrei fottermi di tutto, di tutto ciò che abbiamo passato, di te della ragazzina incompresa che sei, delle tue parole come pietre , che ad ogni litigata, lanciavi verso di me, come se non te ne importasse, come se volessi farmi soffrire e di papà, della sua malattia, di “un giorno si la vita è bella” e “dell’altro giorno la vita fa schifo forse mi ammazzo”.
Vorrei fottermi di tutto e pensare un po a me stessa , fare cazzate, non essere troppo razionale e vivermi la vita , cosa che prima non facevo.Il cammino è duro,ci sono salite e discese ,ma io un po sto iniziando a fidarmi , di tante persone questa volta ,che è il mio gruppo analitico,?il mio gruppo del mercoledì, il cerchio del nuovo parto, che piano piano a passettini leggeri sta entrando dentro me .
Ora vado , vado a vivermi la mia vita. Ti voglio comunque sempre un gran bene, anche se sei una mamma estranea. Tua figlia.
giorgio burdi
Studio BURDI
ContinuaGRATITUDINE E RICONOSCENZA
GRATITUDINE E RICONOSCENZA espressione di maturità affettiva e di intelligenza.
Oltre i confini del narcisismo.
La gratitudine è la massima espressione ell’ intelligenza umana relativa alla consapevolezza di cosa gli altri possano aver fatto per semplificarci e cambiare in meglio la nostra vita.Non c’è prezzo ne quotazione, essa è la massima espressione della coscienza della svolta, del bene ricevuto e della virata data alla propria esistenza.
Chi è in grado di provare riconoscenza, è adulto, essa rappresenta l’abbattimento di ogni forma di narcisismo e di egocentrismo.
Colui che non è capace di gratitudine, tutto gli è dovuto, è il mammone non cresciuto, in eterna lotta per la sua autostima. Resta imprigionato nel suo bisogno continuo di accudimento da parte di una madre che non gli ha mai restituito la gratitudine di essere nato. Non gli ha mai reso un sorriso o un abbraccio, vissuto in campana, ha sviluppato un microfallo sulla illusione della sua potenza.
L’ ingrato è per sua natura super e supervisor, diffidente, dissidente e giudice, saccente, è un wikipedia, l’ultima parola è sempre la sua.L’ irriconoscente è sarcastico, cinico, sadico e invidioso, pirata, assalitore, è un pianta grane, presume, è calcolatore, commerciante, vive ossessionato dal baratto.
Un adulto è sereno, ha dubbi, è un imperfetto ed un nevrotico convinto, è umile, ha sempre da imparare, molto meno da insegnare, perché incerto di quanto sia spesso farina del suo sacco, invece è più certo di quanto dovrebbe essere grato agli altri, per essere in piedi nel mondo.
Nei bambini, tra la prima e la seconda infanzia, è presente un atteggiamento connaturato chiamato: egocentrismo.
In esso il bambino si percepisce come fosse il centro dell’universo, ha la percezione di aver creato gli altri, il mondo e il cosmo.
Tutto gli è dovuto, ad ogni suo sorriso, lallazione, pianto, urla, tutta l’attenzione viene calamitata su di se, è il direttore cosmogonico del creato, il padre eterno, dirige i giochi, le poppate, i suoi sogni nei capricci allo zucchero filato, scoppia e gonfia palloncini, è l’artefice delle favole colorate, delle pernacchie, delle faccine e dei maramao, tutto a reverenza dei suoi sorrisi.
Insomma il bimbo ha lo scettro del potere, conferitogli, è l’inventore delle sue immagini, plastiche in 4D. Insomma, egli è appena all’ origine dell ‘ esordio del suo narcisismo e del suo delirio di onnipotenza.
Il primo segno di riconoscenza che il bambino imparerà, è quello che gli giunge dalla mamma. Ella, per la prima volta lo discosterà dal suo egocentrismo, distraendo la sua attenzione dalla sua mente immaginale, verso la sua genitrice.Il sorriso della mamma rappresenta per il bambino la prima risposta esterna rispetto a se.
In questa fase, il più grande paradosso che si genera, è quello rappresentato dalla mamma che è riconoscente al figlio per aver poppato e sorriso. Perché è un paradosso ? Perché la mamma è fiera non solo di se, ma del piacere del suo bambino.
La mamma gli rimanda, la gratitudine per lui.
La mamma riconosce al figlio quale è il bene per se stesso, ma il figlio sarà ancora molto lontano dalla ccapacita di riconoscimento del bene della madre per se stesso.
La mamma è riconoscente al bimbo per aver mangiato o sorriso, ella gli rinvia il suo rispecchiamento, gli rimanda l’immagine del piacere provato per lui.
Il bambino non può in alcun modo possedere idea di cosa possa essere la riconoscenza e la gratitudine di essere nato ed accudito, senza il rimando e la percezione della mamma che gli fa da specchio.
L’atteggiamento della gratitudine e della riconoscenza del bambino si affaccia quando egli realizza che intorno a lui ci sono altri in azione. In questo preciso istante inizia a prendere corpo in lui, la sensazione, di non essere il creatore, ma creato.
Siamo alla genesi della fine del delirio di onnipotenza, si introduce l’esordio della primissima esperienza dell’ impotenza.
Nel bambino, Il decadimento del senso di onnipotenza coincide con il momento in cui percepisce che non è l’artefice del proprio concepimento .
È l’inizio della percezione, del limite, della realtà, della presenza dell’io, del tu e del noi.
Un politico eletto dal popolo, che assume un potere, non riposto allo stesso servizio del popolo, resta quel bambino egocentrico, aggrappato al suo giocattolo strattonato per giocarci.
Un politico riconosciuto come tale, è quel politico riconoscente al popolo.Lo è stato per prima dalla madre e lo si riconosce poi nel suo servizio, come una madre verso il popolo.
Un politico è tale se lavora ed è in grado di poter ricevere gratitudine e consensi dal popolo. Un politico è tale, se ha una mamma grata. È un test, questo, valido per tutte le professioni al servizio.
La matrice per percepire quanto si è adulti e nel senso umano delle relazioni, consta nello sviluppo e nella crescita verso il senso della gratitudine.
La matrice delle relazioni e di un mondo migliore, consta nello sviluppo del senso della gratitudine. Mamme, voi che allattate, attente.
giorgio burdi
ContinuaSettimanale Psicologo Roma : VIVO LE EMOZIONI O LE CONTROLLO
Il viaggio delle emozioni, dai poemi omerici ad oggi.
VIVO LE EMOZIONI O LE CONTROLLO ? Il viaggio delle emozioni, dai poemi omerici ad oggi.
“Dell’Ira parlami, o dea, del pelide Achille”. Così recita il primo verso dell’Iliade. La parola greca “Ménin” è la prima della letteratura occidentale, ed il suo significato è “Ira.” e parla di emozioni .
Un’emozione, messa prima di ogni altra cosa. È risaputo come, nei poemi omerici, l’intero significato dell’opera sia racchiuso nel suo primo verso. Risulta chiaro che la scelta della primissima parola sia più che fondamentale: deve essere una parola forte, colma di significato.
Per l’Ilade, il poema più antico, questa parola è “L’ira”, quella di Achille. Per l’Odissea è “L’uomo”, ovviamente Ulisse.
Perché la letteratura occidentale incomincia con un’emozione? Perché nel mondo greco l’emozione era tutto.
Le conoscenze anatomiche non erano paragonabili a quelle odierne, ed era diffusissima l’idea che nel petto fossero custoditi gli organi centro della vita emotiva dell’individuo.
Il principale era chiamato “tumós” ed era il punto da cui partivano tutti gli impulsi, gli istinti, le emozioni incontrollabili. Questo “organo” è ciò che per tutta l’Iliade spinge gli eroi all’azione e alla decisione, come un’incontenibile divinità interiore, che comandava qualcosa a cui l’individuo non poteva sottrarsi.
Così era vissuta l’emozione: un comando proveniente dalle membra che non poteva essere contenuto, non poteva essere dissimulato o ignorato. Quando l’ira di Achille esplode, scatena una pestilenza che miete moltissime vite.
L’emozione è potente, inarrestabile, e così lo è l’uomo che da essa si lascia trascinare. Ma la vita di ciascuno era anche influenzata da forze esterne: le divinità.
Ogni azione nell’Iliade è il risultato tra lo scontro tra tumós, il “cuore” emotivo dell’individuo, e il volere divino. La vita dell’uomo è frutto dell’emozione e del fato: nulla di più.
Pensarla così oggi risulta molto difficile. Da secoli ormai siamo abituati a pensare che ciò che facciamo dipenda da noi, dalla nostra scelta razionale e ponderata, e che chi prenda le decisioni non sia un “tumós” incontrollabile, ma l’io.
L'”io” nasce nella letteratura occidentale soltanto alla fine dell’Odissea. È la prima volta in assoluto che questa parola viene scritta: quando Ulisse, travestito da vagabondo, arriva nel proprio palazzo regale dopo un viaggio durato vent’anni, e assiste alla scena dei pretendenti di sua moglie che fanno scempio della sua dimora. Allora Il tumós comanda a Ulisse, colmo d’ira e di disprezzo, di togliersi il travestimento e ucciderli tutti, ed è in quel momento che una nuova forza si fa strada nella mente dell’eroe e in tutta la letteratura dell’occidente: l’io, che invece suggerisce di sopportare, accantonare la rabbia e aspettare il momento giusto per vendicarsi.
È così che nasce l’io. Come una forza in grado di porre un freno al tumós e alle emozioni. Come un’entità depositaria del controllo, un controllo che non è più dell’impulsività interna o degli interventi divini esterni, ma tutto dell’individuo e della sua mente.
Ecco perché l’Odissea comincia con la parola “Uomo” e non più con un’emozione: è l’io ciò che fa di noi uomini ciò che siamo, e non esiste concetto più moderno di questo.
Ma quali cambiamenti ha portato, nella nostra cultura, la scoperta dell’istanza dell’io? Basta osservare quanto siano cambiati i nostri atteggiamenti nei riguardi delle emozioni.
Se da un lato la scoperta dell’io ha condotto a idee rivoluzionarie come quella di razionalità, di individualità, di libero arbitrio, dall’altro le emozioni ne hanno risentito.
Nel corso dei secoli si sono affacciate sempre più correnti culturali e religiose con ideologie tese al ridimensionamento del valore delle emozioni, e alla demonizzazione di alcune di esse, come per quella dell’ odio.
Ad oggi, un poema come l’Iliade può risultarci troppo violento e tollerante nei confronti di un’emozione “negativa” come l’Ira: basti pensare a come essa sia bandita dalla nostra società, e che tutte le manifestazioni di rabbia estrema possano portare a conseguenze penali.
Ma non è quella l’unica emozione ad esser stata bandita: un esempio valido ci è fornito dal dolore, e in particolare dal pianto. Ci viene insegnato che piangere in pubblico è imbarazzante, e che quando si soffre è buona educazione non darlo a vedere, e rispondere “bene” quando qualcuno chiede “Come stai?”.
Questa regola sociale implicita tocca in particolare l’universo maschile: “i veri uomini non piangono”, “ha pianto come una femminuccia”, sono frasi che chiunque ha sentito dire almeno una volta.
Omero non la pensava così.In entrambi i poemi, il pianto di dolore era un’emozione importantissima e rituale.
Quando Ulisse racconta le pene che ha passato lungo i suoi anni in viaggio, tutti i guerrieri che lo ascoltano piangono intensamente, e chi non lo fa non è certamente ben visto: non ha empatizzato col dolore di Ulisse, dunque è un uomo meno profondo degli altri.
Quando un eroe muore in guerra, o quando viene annunciata una brutta notizia, tutti i presenti sono tenuti a piangere, lo detta il buon costume.
Le emozioni, per i Greci, erano qualcosa che non poteva assolutamente riguardare un solo individuo: erano contagiose. Erano onde, che fluttuavano, si alimentavano e crescevano nel loro percorso, e si abbattevano violentemente contro ogni cosa incontrassero sul loro cammino.
E non esisteva barriera tra un umano e l’altro, non esisteva più confine: l’emozione travolgeva chiunque senza lasciare scelta, rendendo tutti uguali, per esempio, davanti al dolore.
Nel mondo moderno, uno dei più grandi drammi è che ciascuno si sente solo di fronte al proprio dolore.
Esistono famiglie anaffettive, che educano inconsapevolmente i propri figli alla freddezza, e a non mostrare ciò che hanno dentro per apparire forti agli altri.
Queste persone crescono perdendo completamente il contatto con la propria essenza istintiva, col proprio “tumós”, e riducono le proprie emozioni a stati fisici o razionalizzazioni, cosa di cui la salute psichica risente.
Ci viene insegnato che piangere è umiliante, che la rabbia va sempre contenuta, che dobbiamo avere rispetto di chi ci impone una vita diversa da quella che vorremmo, se lo fa “per il nostro bene.”
Ogni giorno ascoltiamo centinaia di voci di persone care, capi politici e religiosi, media, che indirettamente ci dicono chi essere, cosa essere, come comportarci al meglio.
L’io è l’unica istanza accreditata, la razionalità è legge, e l’istinto è rimasto una cosa che associamo agli animali, o al massimo ai “pagani”, o a gruppi umani “meno civilizzati.” Forse, per essere davvero felici e liberi, dovremmo ritornare a quelle che sono state le nostre radici; dovremmo concederci, senza dimenticare di avere un io al controllo di ogni cosa, di mettere da parte questo controllo e lasciare più spazio alle nostre emozioni.
Le emozioni hanno sempre ragione, narrano dei nostri poemi interiori, ma anche l’ io ha altrettanta importanza che ci narra della nostra civiltà, e del rispetto, bisogna lasciarli dialogare, litigare e riconciliare in noi stessi. Tale dialogo rappresenta l’opportunità di salvare le differenze individuali e la socialità. È solo all’interno di un dialogo che l’emozione potrebbe farla franca, senza mietere vittime sociali.
Forse così facendo smetteremmo di sentirci soli quando soffriamo, o incompresi e repressi quando proviamo rabbia, e non ci vergogneremmo a correre per strada gridando di gioia e danzando quando siamo entusiasti di qualcosa.
Dovremmo recuperare un po’ di quella essenza istintiva e dirompente raccontata nei poemi omerici, e lasciare che essa ci unisca agli altri, in un rispecchiamento empatico intenso e arcaico, insito nella nostra natura.
gaia caputi
ContinuaSettimanale Psicologo Roma : IL SINTOMO E LA PAROLA
Il sintomo è il rivelatore della nostra più elevata intimità
IL SINTOMO E LA PAROLA
Il sintomo è il rivelatore della nostra più elevata intimità.
La filologia, è lo studio dell’origine della formazione dei testi e della parola, va verso la “storia” , un filologo viaggia dalla parola alla Storia.
Lo psicanalista, uno psicoterapeuta viaggia dall’ osservazione dei sintomi, segue la loro formazione, tenta di beccare le coordinate longitudinali e latitudinali degli eventi del soggetto, all’interno di un meta spazio in cui il tempo confuso coniuga il verbo passato, e attraverso il sintomo, il passato resta invasivamente e invalidamente presente.
Il sintomo rappresenta l’annullamento del presente, l’egemonia del passato.
Esso è l’ombra dell’ irrisolto, è la catapulta che colpisce alle spalle, il boomerang ritorsore che sistematicamente si rivolta contro, ci sbatte in faccia tutto ciò che avremmo dovuto guardare o pensavamo risolto.
Amo questo viaggio esplorativo, dal sintomo alla sensazione e dalla sensazione al sintomo, attraverso la parola nel tratturo sterrato degli eventi, come uno speleologo scendere, scivolare, precipitando e risalendo tra le foibe dell’anima.
La parola non è solo descrittiva del nostro vissuto, fa palpitare, vibrare e spremere ogni nostro organo interno, fino alla pelle che sfiora le esterne intemperie.
Il sintomo e la parola ci fanno vibrare, tremare, soffrire, rilassare e gioire.
A volte basta una parola per rievocare, e ci vuole un sintomo per fissarci alle origini di noi. Il Caronte di questi viaggi è la sensazione, il ricordo e il logos , la parola.
Un sintomo è il rivelatore della nostra più elevata intimità, esso ci narra dell’ indicibile, dalle nostre rabbie alle fobie è molto più di quanto riusciremmo a dirci.
Il sintomo scalpita, scalfisse e reclama, col dolore della sua piaga, il diritto alla serenità, al benessere, alla progettualità, invita a determinarla attivamente non a sperare, ma a muoversi a vantaggio del rimedio, alla soluzione.
Il sintomo reclama la soluzione, chiede di snodarsi, di venire fuori, chiede di padroneggiare sulle cause dei malesseri.
Il sintomo ci parla, urla prepotentemente che qualcosa deve essere ripercorso e rivisto, invita a cercare il bandolo per ordinare e riavvolgere il gomitolo dei vissuti aggrovigliati o ad accettare situazioni e che non si possono cambiare.
L’obiettivo della cura è la guarigione, si compone come su di un pentagramma, all’interno di un tragitto analitico, dalla traduzione del sintomo, agli eventi subiti, attraverso la parola rivelatrice.
L’ascolto e l’osservazione è l’esploratore, la parola è la traduzione del sintomo, la meta, l’individuazione dell’evento scatenante il disturbo.
Ascolto, traduzione ed individuazione sono le tre tappe della mia psicoterapia orientate alla guarigione.
giorgio burdi
ContinuaSettimanale Psicologo Roma : IL FILO DI ARIANNA. Il problema, risolve
Perchè scrivi solo cose tristi . Perchè quando sono felice esco.
IL FILO DI ARIANNA
Il peggio, serve per migliorare.
Perchè scrivi solo cose tristi ? Perchè quando sono felice esco.
Da quando ho 14 anni tengo un “diario”. Ora ne ho 33. Ha quasi 20 anni. Sono quadernoni normali, della “monocromo”, di colori diversi l’uno dall’altro: erano altri tempi, iniziati prima del digitale, dei cellulari, della mail, delle chat, di facebook e di ogni social; c’ero io, i miei pomeriggi alla scriyvania tra i compiti del liceo,la musica che da sempre mi accompagna, seppur sempre diversa ma comunque musica, una volta erano le cassette, poi i cd, il walkman…e io che scrivevo, scrivevo, scrivevo pagine e pagine di sensazioni, racconti, paure, angosce, oppure felicità..ma erano più le angosce, perchè secondo me è vera la risposta di Luigi Tenco alla domanda rivoltagli : ” Perchè scrivi solo cose tristi?” “Perchè quando sono felice esco ” .
Negli anni le cose sono cambiate, e ho cominciato ad andare in terapia di gruppo per capire perchè pur non mancandomi niente, mi sentissi così male, avvilita, non vivere appieno la vita mi frustrava, ed ero più triste ancora, proprio perchè ero triste…un bel casino; poi pian piano sono stata meglio, ho preso in mano la mia vita senza paura, senza fare chissà che, ma facendo tutto da sola: ora ho una professione, ho gli amici, non voglio nemmeno dirlo, ho l’amore, è ancora un amore giovane – nel senso nato da poco e questo amore l’ho prima studiato tantissimo in teoria, sulla teoria sono preparatissima !
vedremo poi nella pratica… ed è quel tipo di amore che quando Giorgio ci raccontava in seduta “quel mio paziente si stupisce di come abbia fatto a trovare una persona così bella, dice che non se la merita” tra me e me pensavo “seeee…figurati se esiste una persona così, non la incontrerò mai, qualcuno di cui essere addirittura stupito, pensare che non me la merito, vedrai che mi dovrei accontentare, piuttosto meglio NIENTE, si sta così bene da soli, finalmente ci so stare da sola e ne sono felice, non mi accontenterò mai, quindi andrà bene stare sola ed essere indipendente”.
Ho una famiglia in cui per fortuna ci sono ancora tutti, ho una mamma un papà e due sorelle, ho due bellissime nipoti. Ci vogliamo tutti bene, ma è molto difficile la nostra convivenza, la nostra inter-relazione, c’è molta sofferenza, dietro, molti sensi di colpa, sacrifici per quanto riguarda la felicità del singolo e la sua indipendenza in nome non si sa bene di cosa…forse solo paura e diffidenza, sfiducia.
Qualcuno deve uscire dal circolo, credo che ho cominciato io, adesso essere considerata quella strana, prendere atto che se mio padre non è riuscito a cambiare la sua idea di me è soltanto un problema suo, non più mio, io posso solo fare ciò che è meglio per me e mi rende felice. qui ed ora.
Se mia mamma ha deciso di identificarsi con la sua malattia e usarla come moneta di scambio nel suo mondo io non posso farci niente, se non cercare di liberarmi dai miei fantasmi e godere del bello che ancora posso averne indietro e cercare di darne. In fondo sono fortunata ad avere ancora tutti con me, a non avere mai avuto tragedie ” tangibili “.
Si tratta di fare delle scelte, che sono indispensabili, e se si sbaglia pazienza, si riprova, lo sbaglio serve per aggiustare il tiro e migliorare. Se non scegli tu lo fanno gli altri, Tutte le scelte che ho fatto mi hanno portato qui, ora.
Ho sofferto, sono caduta, mi sono arenata, ho perso le speranze, mi sono disperata, piano mi sono rialzata, ho trovato la forza e la volontà di chiedere aiuto, per egoismo, per stare meglio, sono viva e merito di stare bene. Ho deciso di stare meglio con gli altri, per egoismo, e dovremmo farlo tutti, un mondo fatto di gente felice non sarebbe un mondo migliore dove far stare il nostro ego? se provassimo a rendere felici gli altri forse non “romperebbero le palle” a noi, no? Arrivo al punto: Dovremmo fare pace con il nostro passato. Sia quando riusciamo ad essere padroni della nostra mente, e in parte anche quando non lo siamo, dovremmo essere fiduciosi che ogni situazione o persona che ci si presenta davanti e che affrontiamo,è lì per noi, anche solo per poco, o per un tempo più lungo, perchè noi possiamo trarne il giusto insegnamento. semmai, la parte più difficile sarà avere la consapevolezza e il coraggio e la lucidità di lasciare andare al momento opportuno quella persona o la situazione e passare oltre: il dolore passerà, per fare spazio alla lezione.
Ma ora basta teoria astratta, Vi riporto solo un paio di esempi “terra terra”, esempi sui quali ho elaborato le elementari riflessioni di cui sopra.
1) se nel settebre 2011 non avessi cominciato una storia tossica con un narcisista “d.o.c.” che mi ha ridotta -no, sbagliato!- riformulo AL QUALE HO PERMESSO di ridurmi a stare malissimo e farmi delle domande sul perchè stessi così, e a dubitare che forse ci fosse altro sotto a questa goccia che mi aveva fatto traboccare non avrei intrapreso la psicoterapia, non avrei cercato su google uno specialista che potesse aiutarmi ad essere felice.
2) non sapere bene l’inglese e avere paura di buttarmi e parlarlo era sempre stato un mio cruccio: proprio un anno fa a settembre ho frequentato un ragazzo per un paio di mesi e lui è innamorato delle lingue e dei viaggi e stava per partire per lavorare in Australia: grande sofferenza il fatto che dovesse andar via, mi chiese anche di partire con lui e per un secondissimo una parte di me ci ha pensato, ma di fatto lui è partito, ed io ho conosciuto un’insegnante di inglese meravigliosa con la quale ho preparato l’esame per il diploma Cambridge, conseguito a giugno.
Anche io amo viaggiare, e dopo un periodo di down per vari problemi, economici, lavorativi e di solitudine, lui se ne era andato da poco ed io, single incallita, avevo in parte scoperto la vita a due, ho cominciato a mettere i soldini da parte per fare un bel viaggio lontano lontano con la primavera, destinazione Filippine: con l’inglese appena rispolverato, sarei stata più sicura di me tanto da andare da sola insieme ad “Avventure Nel Mondo”: eravamo un gruppo di 17 persone, maschi e femmine, tutta bella gente; “Voglio proprio godermi la natura e la solitudine che questo viaggio mi permetterà di moderare insieme alla conoscenza di persone capitate random nella mia vita” mi sono detta. C’era anche un uomo tra i tanti del gruppo, che giorno dopo giorno ha provato a farsi notare ai miei occhi che volevano solo essere foderati di prosciutto…ed è lui adesso l’amore che mi sono riportata qui.
Un ultimo consiglio, da chi ha l’umile speranza di poter aiutare non con la presunzione di sapere ma con la propria esperienza: MUOVIAMOCI. non avete idea di quante, quante cose mi sono capitate in questi mesi che mi hanno permesso di dare una svolta alla mia vita solo per il fatto che mi sia “mossa”: non mi dilungo nei particolari, ma solo su cosa poi sia effettivamente cambiato quando ho deciso di uscire, o alzare il telefono, o partire, invece di restare a casa o peggio a letto!
-Nuovi lavori-nuovi e meravigliosi amici-nuovi entusiasmanti hobbies-Posti spettacolari-Amori appassionati e felici!
Rossana
ContinuaSettimanale Psicologo Roma : LA FELICITÀ È NEL NULLA
La Felicità è non voler diventare qualcuno perché Qualcuno già lo siamo
LA FELICITÀ È NEL “NULLA”
Dichiarare una cosa del genere significa sentirsi dire sistematicamente: “Perché? Che è successo di così straordinario?” Con un enorme sorriso io risponderei “Niente”, e non mentirei.
Non è accaduto niente di diverso dall’ordinario, niente che qualcuno possa considerare speciale, o diverso, o un evento immensamente felice.
E’ il giorno più bello della mia vita, perché per la prima volta mi sono davvero soffermata a guardare ciascuna delle semplici, apparentemente scontate, cose che ho fatto, per poi accorgermi che sono proprio quelle piccole cose a fare di me la persona più felice del pianeta.
Stamattina l’ho passata con un amico che mi porto accanto dal passato, dalla mia vecchia vita, e poi con un’amica che ho conosciuto quando ho deciso di stravolgere il mio avvenire andando via da Bari.
Ho oscillato con assoluta naturalezza tra un mondo vecchio e prezioso e un mondo nuovo, perché, anche se non ci penso mai, sono stata capace di seminare amore e fedeltà in entrambi.
Ho l’immenso privilegio di avere persone a cui importa sapere che io sia felice.
Dopo la mattinata sono andata a lavoro, al mio tirocinio. “Lavoro” per modo di dire, potrebbe dire qualcuno, vado lì a “sbattermi senza essere pagata”, a “caricarmi il dolore degli altri sulle spalle a gratis”.
Vado a tirocinio come ho fatto quasi ogni giorno per gli ultimi mesi, ma solo adesso mi accorgo che non ci vado affatto perché “mi serve” o “per l’università”, lo faccio perché ogni singola ora che ci passo mi avvicina alla carriera che desidero, e mi spinge più a fondo nell’abbraccio della mia vocazione più grande: trasformare il dolore degli altri in rinascita, e per capirlo ho dovuto morire e rinascere in primis io stessa. Non vado “a tirocinio”, vado a perseguire i miei sogni ogni settimana, e questo fa di me una persona tenace, determinata, come quelle che stimo così tanto.
Il tirocinio oggi si è chiuso parlando di suicidi, tragedie e inganni della gente. Eppure, mentre tornavo a casa, quando sono passata vicino a un uomo che mi guardava troppo intensamente, non ho pensato che potesse importunarmi o rubarmi la borsa. E non lo ha fatto.
Eppure, quando ho visto una mamma portare in braccio il suo bambino e gli ho sorriso come faccio a tutti i bambini (e a tutti i cani) che incontro, non ho affatto pensato che questo è un pianeta di merda abitato da un’umanità degenere, in cui è meglio non mettere al mondo più niente.
Ho pensato che per quel bambino c’è ancora tanta speranza di crescere meravigliosamente ed essere felice.
Ero quasi a casa quando ho notato che davanti a me camminava una ragazza con un culo cento volte più bello del mio, e una pancia piatta che io me la sogno. Di riflesso, avrei potuto tirare indento la pancia e ostentare una camminata fiancheggiante, “dopotutto se mi vede qualcuno, vicino a quella la, quanto cessa gli posso sembrare?”
E invece non l’ho fatto. Ho proceduto con la mia camminata goffa e con la mia pancia gonfiata da un pranzo di corsa a base di hamburger e patatine. L’ho fatto con fierezza, pensando a quando a Padova me ne vado a ballare danza del ventre, e a come mi faccia sentire una donna sexy seppure io sia piatta rispetto a tante donne e con le spallacce da uomo.
Ho ripensato a quando alle scuole medie mi hanno dato del transessuale, avevo il corpo, la faccia da uomo ai loro occhi, e su una cosa si sbagliavano di grosso: chissà quante centinaia di transessuali ci sono che sono molto più belli e femminili di me. Eppure, mi domando cosa avrebbero pensato al vedere che anche una donna senza forme e senza grazia, come me, può diventare sensuale a partire da dentro, a partire da uno spirito che è esso stesso femminilità pura, che io esprimo nella danza.
E stasera, che farò di speciale? Proprio niente, stasera la voglio passare tra le braccia dell’uomo che amo, a raccontargli la bellezza della mia giornata e ad ascoltare i suoi racconti, a cucinare insieme a lui una cena semplice, ad addormentarmi al suo fianco e, se sarò fortunata, al sentirlo che mi cerca e mi dice “buongiorno amore mio” anche se sono le tre di notte e fuori è buio pesto ma lui è un po’ sonnambulo e che ne sa. Un uomo che è dolce e romantico con me pure quando non è sveglio, pure quando non può controllarsi e pensare.
Un uomo che non mi ha mai fatto promesse sul futuro per non seminare illusioni, per farmi godere l’unico tempo che è vero: il presente. Un uomo che non mi ha mancato di rispetto una sola volta impedendomi di esprimere chi sono, che mi ha incontrata che ero in pezzi e non mi ha mai voluta salvare, perché sapeva che sarei stata libera solo quando mi sarei rialzata con le mie sole forze.
Un uomo che non mi compra gioielli, ma che mi ha insegnato a sfoggiare il mio sorriso del quale, difettoso com’è, mi vergognavo come una ladra. Mi ha insegnato che le irregolarità non sono difetti, ma pezzi unici in rarità.Un uomo che non mi offre cene chissà dove, ma che mi cucina la mia torta preferita con quei due ingredienti semplici ogni volta che mi vede triste o cagionevole; che non mi sfoggia e non mi sminuisce, non mi ha mai voluta bella e perfetta: mi ha restituito la mia capacità di sentirmi tale, anche spettinata, senza trucco e con addosso un suo pigiama che mi sta quattro volte.
Tutto ciò che desideravo mi desse qualcuno, mi ha dato la capacità di trovarlo in me stessa, e mi ha riempita di ricchezze inestimabili: di condivisioni, di segreti, di difetti da amare, di sorrisi e risate, di gesti di amore sincero, di abbracci che durano minuti interi, di nottate a parlare di sciocchezze che sono importanti e di cose che credevo importanti e che ho scoperto esser sciocchezze, di salse e bachate da ballare insieme tra le luci accecanti della nostra discoteca latina, di baci che sanno di eterno e di un paio di ali tanto grandi che oramai il cielo mi sembra piccolo, con le quali vado dove voglio, con o senza di lui, perché lui mi ha dato soprattutto questo: la libertà di star bene anche con me stessa.
Oggi è il giorno più bello della mia vita. E prego chiunque di non odiarmi se sono così tracotante: è che sono talmente ricca da aver bisogno di regalare un po’ di questa luce a qualcuno, stasera.
Perché a degli occhi disattenti, potrebbe sembrare una vita mediocre; per chi conosce la mia storia può parere anche fin troppo dolorosa: io stessa l’ho creduto in passato, tanto a lungo da aver pensato di rinunciarvi per abbracciare l’oblio.
Ma oggi ho capito che dietro alle semplici cose che faccio e che vivo nella mia giornata, ci sono grandissimi significati, e messaggi, che raccontano di chi sono davvero. E chi sono davvero è tutto ciò che voglio essere. Anche se non sono una persona di successo, anche se non sono speciale, e non sono né bella, né particolarmente dotata di speciali abilità, anche se non ho scelto un futuro ambiziosissimo e mi nutro della mia umiltà circondandomi di persone altrettanto umili, anche se dovessi fallire mille altre volte e sentirmi l’ultima dei perdenti, io so dentro di me che non ho alcun bisogno di “diventare qualcuno” nella mia vita, perché io sono già qualcuno.
Sono quello che sono, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto, nel mio passato burrascoso e nel mio terso presente.
E aver trovato me stessa, fa di me la persona felice e libera che sono adesso.
E oltre alla forza che traggo da dentro, ho un universo intero a mia disposizione intorno a me, e una vita di cui posso fare tutto ciò che voglio: non c’è niente che mi manchi per poter essere la persona più felice del mondo, oggi e ogni giorno.
In questa foto ho un sorriso che nessuno mi aveva mai visto addosso prima di quella sera. E’ la serata da cui tutto è cominciato, quella in cui ho incontrato l’amore della mia vita, e ho dato il via a un’infinita serie di gesti d’amore, anche verso quella persona che avevo odiato nel profondo e trascurato per così tanto tempo: me stessa.
gaia caputi
tirocinio psicologia padova
Settimanale Psicologo Roma : VIVERE LIGHT Settembre : BACI, ABBRACCI, PAROLE E CAREZZE
I preliminari più importanti del sesso
Dedicarsi allo scambio di tenerezze e baci nella fase iniziale del rapporto sessuale, rappresenta la massima espressione d’intimità, complicità e qualità relazionale all’interno di un rapporto di coppia.
Nel bacio, si ama l’anima del partner. Esso stimola la produzione di ossitocina, ormone che favorisce soprattutto nella fase dell’innamoramento il processo di attaccamento, fattore determinante per l’avvio e il proseguo di una relazione d’amore.
È uno scambio non solo fisiologico ma anche emotivo, che mette in relazione le persone senza filtri e barriere, perché è uno specchio sincero e trasparente che non ammette finzioni.
Il bacio, non mente mai: ciò che accade durante questo atto può rivelare la qualità di un incontro e delle sensazioni provate, può raccontare tutte le potenzialità, le affinità e l’essenza della coppia in procinto di scegliersi.
Il bacio è il selezionatore della relazione, è l’atto più intimo, rispetto al rapporto sessuale e alla penetrazione, rappresenta il gesto più elevato dell’attrazione e del richiamo verso l’attaccamento e il legame. È tanto più intimo baciare che avere un rapporto sessuale.Da esso si deciderà il destino è la durata della relazione.
Il significato primordiale del bacio risale a una delle fasi più importanti della nostra vita: l’ oralità e l’allattamento al seno materno, attraverso il quale non si ha solo il nutrimento, ma si sperimenta il primo contatto e attaccamento rassicurante verso la madre, fatto di coccole e calore.
Nell oralità del bacio c’è la fonte del nutrimento e dell’alimentazione dell’altro, ci si assapora l’un l’altro come cibo che nutre il proprio benessere. Il bacio diviene fonte di rassicurazione e rilassamento vitale .
Da un punto di vista erotico il bacio è un atto fusionale. È un entrare l’uno dentro l’altro, così come accade nell’amplesso, ma il bacio significa molto di più perché è innamoramento, amore e affettività.
La vicinanza indotta dal bacio aumenta l’affinità, esso è un detonatore del desiderio dell’altro La sensazione di benessere e di positività nell’ umore , vengono dettati e stimolati dalla produzione di dopamina, migliorano il coinvolgimento e acuiscono le sensazioni, anche grazie alle terminazioni nervose presenti sulle labbra.
Il bacio come le carezze sono un vasodilatatore, “un viagra” che dilata i corpi cavernosi, le grandi labbra predispone all’ eccitamento e al rapporto sessuale, accende la passionalità, favorisce il lasciarsi andare, la fiducia, e maggior senso di appartenenza e di godimento nell’amplesso.
E’ un invito al gioco, alla fantasia, all’esplorazione e al contatto di diverse zone erogene, alla conquista di nuovi “territori”, tutti ingredienti che fanno la differenza nei rapporti.
Perché baciarsi è anche lasciarsi andare all’altro, perdersi nel coinvolgimento e, soprattutto, ritrovarsi. Il bacio contiene l’abbraccio, che trasmette accoglimento, protezione affetto e vicinanza.
Una relazione senza abbracci e ne baci è una relazione assente, distante, lontana dall intimità. Non si può parlare di relazione, senza baci, rappresenterebbe una sterile convivenza tra conoscenti.
Cercare il contatto significa rinnovare la scelta, è riscegliersi dopo ogni distanza, un ritornare dopo ogni andata e rimanere dopo ogni scomparsa, rappresenta la riconciliazione, baciando il luogo della parola è il ridarsi la stessa parola come una conferma del legame .
Quando il rapporto si stabilizza, il bacio cede nel dimenticatoio. Il tempo dei lunghi baci, diventa una pratica appena accennata.
In genere, è frequente che siano gli uomini i primi a dimenticare l’importanza di questo gesto, probabilmente perché l’atto sessuale all’interno della coppia viene comunque garantito.
In tal senso perde la sua funzione di “coinvolgimento” e di conquista e, quindi, di attrattiva. Baciare per l’universo maschile, se diviene occasionale, è focalizzato ad un solo obiettivo.
Ma attenzione, se non baciate, perdete un fondamentale potenziatore del sistema immunitario e del benessere, grazie alla complessa stimolazione neurochimica, oggetto della gratificazione e della seduzione all’interno della coppia.
Tutti dovrebbero sapere che proprio nel bacio possiamo trovare le risorse per salvare il rapporto di coppia. I baci e gli abbracci rappresentano i primi preliminari di una terapia di coppia .
I baci possono essere inesigenti, ovvero, che non necessariamente devono portare ad un seguito sessuale.
Bisogna enfatizzare la sensualità anziché la sessualità e far diventare tutto un po’ più romantico e meno fisico, rimandando ad un piacere pre-sessuale, che è più eterno, rispetto allo stesso orgasmo limitante. Il Massimino del piacere sessuale consiste nel rinviare a lungo lo stesso .
Bypassare tale atto significa rinunciare al fuoco e accontentarsi di un contatto tiepido e deludente.
Chi non bacia, non vuole un legame, forse non ama o non vuole entrare, chi vuole entrare si abbandona, chiude gli occhi e contempla quel momento sublime .
guardare negli occhi e baciare il partner mentre si fa l’amore è la massima espressione di fusionalità affettiva
Come baciare ad occhi aperti, è voler godere della visione della passionalità del partner per se.
giorgio burdi
ContinuaSettimanale Psicologo Roma : LA TELA E IL RAGNO
C’ è chi si nutre di te
La tela del ragno è un marchingegno perfetto, una costruzione di precisione millimetrica. Assolutamente micidiale per le sue prede, poiché queste non la vedono da principio.
Si accorgono di essere state catturate solo quando ci sono già dentro, invischiate fino al collo.
Predatore subdolo, non attacca la sua vittima con l’aggressività dello squalo, con l’irruenza del leone, da cui una gazzella può sempre tentare la fuga. Il ragno è vigliacco.
Aspetta in penombra, senza mostrarsi. Se ne sta immobile, sembra che non faccia nulla di male. Lascia apparecchiato il suo inganno per poi godere della vittima raggirata.
Quante trappole ci sono state tese, con astuzia e grande minuziosità, perché così sottili che tanto non le avremmo viste?
Una madre che con la scusa dell’amore usa il figlio a suo servizio tutta una vita.
Un padre che ti porta a letto per la buonanotte e abusa di te.
Un uomo che col matrimonio ti rende sua proprietà e schiava dentro quattro mura.
Una donna che con una gravidanza inattesa ti lega a sé per sempre.
Un genitore che col senso del dovere ti fa prigioniero in una vita che non vuoi.
Meno letali di una tarantola velenosa? Proprio no. Ma neanche altrettanto infallibili, le loro trappole si possono sgamare.
E, cosa ancor più bella, ci si può liberare sempre. Anche quando ci sei rimasto dentro mani e piedi, anche quando sei così impigliato nella rete da non riuscire più a muovere un muscolo.
Perché a quel punto la trappola la vedi. Vedi il predatore per quello che è. E allora è un attimo, basta un soffio. Puoi soffiare sulle tue ali variopinte per spolverarle di quella tela appiccicosa che non ti faceva respirare, e finalmente spiegarle verso ogni orizzonte possibile.
E mentre te ne voli verso il sole puoi anche lanciare l’ultimo sguardo a quel miserabile subdolo ragno, che pensava di averti in pugno, e invece rimane a bocca asciutta.
Cosa mangerà, o se morirà di fame non importa, l’importante è che non si nutra più di te.
Aidi
ContinuaSettimanale Psicologo Roma : Il potere della leggerezza
Se vuoi salpare, togli le ancore
Il potere della leggerezza
Dal momento della nascita ogni essere umano interagisce con il mondo esterno esprimendo in tutti i modi i propri bisogni, manifestando la propria essenza incurante delle reazioni delle persone intorno.
Man mano che passano gli anni, iniziando a concepire l’esistenza di altre individualità, di ruoli e convenienze sociali, il bambino orienta i suoi comportamenti in vista di un ritorno, premio o punizione che sia.
Questo progressivo processo di adattamento alla società non si interrompe con l’adolescenza, periodo in cui spesso le regole vengono apertamente sfidate per spirito di contraddizione e, di conseguenza, indirettamente rafforzate.
La famiglia e le istituzioni religiose partoriscono ingiunzioni, ammonizioni e –peggio ancora – silenzi carichi di aspettative al fine di orientare la vita del singolo verso ciò che sarebbe giusto e rispettabile, al fine della loro stessa autoconservazione.
Anche ipoteri politico-economici, attraverso slogan e pubblicità, creano un mondo fittizio a cui adeguarsi, pena l’isolamento e la svalutazione sociale.
Il risultato è che la maggior parte degli individui vive in un latente stato di insoddisfazione, pesantezza, incapacità di esprimere la propria energia vitale. Troppo difficile rinunciare all’approvazione degli altri, alla posizione sociale, alla promessa di una ricompensa futura.
Succede a volte – però – che questi condizionamenti opprimono a tal punto da richiedere una presa di coscienza per un cambiamento e la conseguente scelta di comprendere chi siamo realmente, nella nostra unicità e irripetibilità.
Solo attraverso una piena consapevolezza possiamo mirare all’autorealizzazione e assecondare i nostri impulsi e passioni più profonde.
Abbandonare un lavoro sicuro che ci opprime, svilisce, offende, rinunciare ad un’etichetta che ci è stata imposta, agire secondo la nostra volontà incuranti del giudizio degli altri, sono alcuni modi per sperimentare la vera coscienza di sé e una inebriante leggerezza.
Abbattere gli argini, assaporare la vita nella sua imperfezione e perenne incertezza, essere pronti a mettersi in gioco senza rinunciare mai ai propri veri bisogni…perché non provare a farlo?
Il giudizio degli altri è sempre in agguato, il rischio di essere chiamati pazzi, immaturi, egoisti…anche. Ci verrà chiesto sempre un risultato, una prova “economica” della validità della nostra scelta.
Ma non è forse attraverso il sano egoismo e la creatività inespressa che possiamo realizzare la nostra “missione” e fare quello per cui siamo venuti al mondo?
Ci insegnano a compiacere gli altri, ma non possiamo andare d’accordo con tutti…il mondo è bello perché è vario. Le “brutte” parole esistono e vanno usate quando opportuno…un bel vaffanculo (nei luoghi e nei momenti giusti si intende) non ha mai ucciso nessuno.
Esprimere il nostro “numero uno” (l’essere reale dietro le maschere che spesso si indossano) ci consente di stare bene con noi stessi e in fondo, in questo modo, è più facile far stare bene anche gli altri intorno a noi.
The Director
ContinuaLa Stanza degli Specchi
La psicoterapia gruppo analitica
E il Cerchio dei Cambiamenti
Chiunque entri in un gruppo terapeutico, lo fa con un piccolo bagaglio di certezze a livello inconscio. Queste certezze sono tre: la propria identità, la propria visione del mondo la propria caverna, le sue ombre e il proprio “mostro arcaico”.
L’identità è ciò che crediamo di essere, quell’insieme di caratteristiche positive e negative che rivediamo come nostre e alle quali siamo affezionati.
La visione del mondo è quella che abbiamo sviluppato durante il nostro percorso di vita, condizionata soprattutto dal nostro background antropologico, sociale, familiare.
È un modo stabile di interpretare situazioni e attribuire significati all’esistenza, che ci impedisce di vedere significati differenti e pensare al di fuori del nostro schema abituale.
Infine, possiamo definire il “mostro arcaico” come l’insieme di tutti i nostri vissuti difficili, delle paure profonde, dei traumi. É una delle basi del nostro essere, una delle fondamenta più solide e radicate, che allo stesso tempo complica la vita ma permette di riconoscerla come propria.
È una parte oscura, inconscia, nucleo di ogni problematica interna, come una ferita originaria che segna l’individuo e lo cambia nel suo modo di vivere, pensare e sentire.
Tutti e tre questi aspetti sono molto difficili da mettere in discussione, e il gruppo terapeutico tende a fare esattamente questo.
Immaginate di trovarvi in un Luna Park, davanti all’ingresso di una di quelle che chiamano “case degli specchi.”
Ci entrate, è una stanca oscura, con luci particolari e tanti, tantissimi specchi tutti diversi, in grado di deformare la vostra sagoma nei modi più svariati.
Un primo specchio potrà farvi apparire più alti, uno più bassi, uno potrà schiacciare la vostra figura dando l’effetto di una pancia enorme, altri vi daranno grandi piedi e una testa minuscola, o il contrario.
Ecco: è così che si sente un individuo che si addentra in un nuovo gruppo, specialmente se si tratta di un gruppo terapeutico già formato prima del suo arrivo.
Una volta entrato, si accorgerà subito che gli altri membri sono come degli specchi capaci di deformare la realtà.
Quando ci si racconta in un gruppo, il vissuto presentato agli altri viene da essi interiorizzato, e “restituito” investito di caratteristiche proprie.
In poche parole, il racconto di un membro viene ascoltato dagli altri, che per certi aspetti lo sentiranno come proprio, per altri si differenzieranno da esso, e quando si esprimeranno circa ciò che hanno ascoltato, il contenuto non sarà mai identico a quello iniziale. Sarà diverso, arricchito delle caratteristiche e del pensiero degli altri, della loro esperienza in merito.
È come un puzzle di cui ciascuno possiede un pezzo, e che non può essere assemblato da una persona soltanto, seppure sia stata quella persona ad esprimere la necessità di volerlo completare.
Chi arriva in un gruppo con un problema, spesso possiede solo un piccolo cumulo di pezzi e ha una visione molto parziale della situazione, che non consente di cogliere la figura nel suo insieme.
Sarà nel confronto con l’altro che il problema potrà essere analizzato da molteplici punti di vista, e con il contributo di ogni membro del gruppo la figura apparirà finalmente completa.
Questa caratteristica dei gruppi si chiama rispecchiamento ed è un grandissimo fattore terapeutico.
Ma così come il problema raccontato può essere modificato, arricchito e, in un certo senso, manipolato dagli altri membri, allo stesso modo possono esserlo l’immagine di sé, la propria visione del mondo e il “mostro arcaico.”
Ognuno si racconta per ciò che è convinto di essere, ma anche in quel caso gli altri membri del gruppo rimanderanno immagini che sono diverse da quella originaria, e questo può essere vissuto come molto destabilizzante, e in un certo senso inquietante.
Immaginate di vedervi deformati davanti a uno specchio, e di non sapere se è effettivamente uno specchio deformante o se, invece, è una riproduzione fedele.
È così che si sente chi entra in un gruppo, quando sopraggiunge la funzione del rispecchiamento: infastidito, destabilizzato, turbato. Noi cerchiamo sicurezza e conferma alle nostre teorie: spesso non vogliamo vedere prospettive diverse perché avere davanti una sola strada, anche se sbagliata, fa sentire più sicuri rispetto ad averne molte tra cui dover scegliere.
Abbiamo il bisogno di credere di conoscerci meglio di chiunque altro, e questa è, in realtà, una spinta che si oppone al cambiamento.
Quando la propria visione del mondo e di se stessi collide con quella degli altri, è facile sentirsi incompresi, non capiti e dunque distanti dal resto del gruppo.
In particolare, il parlare del proprio “mostro arcaico” può essere difficile per molti, proprio perché si teme che esso possa essere frainteso o sminuito dal gruppo: non si accetta facilmente che qualcuno giudichi o distorca l’immagine della propria sofferenza. Ognuno si sente infinitamente solo di fronte al proprio dolore, e in un certo senso tende a sua insaputa a preservare quella solitudine.
Il gruppo, tramite il rispecchiamento, ha il compito di far crollare tutte queste certezze, e di ricostruirle rinnovate e ampliate di molteplici punti di vista e prospettive.
Il suo grande potere non è quello di far apparire il mostro originario come più piccolo, o meno doloroso, ma di permettere a chi lo temeva di guardarlo nella sua interezza, senza più la stessa paura.
Ed è proprio per questo che, alla fine, chiunque resti in un gruppo abbastanza a lungo da permettere al rispecchiamento di agire indisturbato, ne esce con una mente completamente nuova, trasformata.
Comprendere meglio se stessi, pensare al di fuori dei propri schemi abituali e accettare che venga tolto potere al proprio mostro arcaico è la chiave per abbattere ogni disagio, e niente di tutto questo sarebbe possibile senza aprirsi al confronto con gli altri, gli specchi rivelatori della nostra stessa anima.
gaia caputi
tirocinante psicologia padova
Presso lo Studio Burdi