ATTACCHI DI PANICO: Come crearli e come curarli
ATTACCHI DI PANICO
Come crearli e come curarli
Forse è passato poco tempo. Forse ne è passato tanto.
Comunque adesso, i ricordi, si sono presi lo strano diritto di richiamare loro sentimenti e sensazioni, fissandoli in improvvisi flashback.
A volte, mi dico di esser stato fortunato nell’aver vissuto l’epilogo del mio matrimonio, da accatastato, come uno dei tanti pacchi di quel trasloco improvviso.
Si andava di fretta e, ogni camera di casa era stata sollecitamente smontata e liberata. Solo in due ci contendevamo lo scomodo affitto: io e il mio cane. Ci eravamo scavati un unico posto vivibile, in soggiorno. Da mangiare, pizza o scatolette e come letto, un divano.
Non so quantificare con precisione, ma credo di esser rimasto lì, stranito, per ore. Io a guardare la tv e il cane a guardare me. Attorno a noi, solo cartoni imballati. Si doveva restituire tutto e subito e qualsiasi proprietà era stata divisa simmetricamente; in maniera precisa, come è proprio della foga del concludere.
Forse è stato anche questo ad aiutarmi a prendere distanza dalla ferita degli eventi. Ero un vagabondo, tra avanzi degli altri, in cerca di qualcosa di buono. Avere davanti ai piedi (e al cuore) quei pacchi, mi costringeva a trovare una mia strada, tra le macerie.
Era estate. Proprio quella stessa, venne definita dai sismologi, una delle più interessanti riguardo i movimenti tellurici. Dopo decenni, la media delle scosse (anche non umanamente percepite), aveva sfiorato i 40 episodi al giorno. Uno ogni mezz’ora. Dicevano che, in situazione di emergenza, il fenomeno sarebbe stato devastante sulla psiche degli sfollati.
Poco dopo, le zone di Amatrice, Accumuli, Pescara del Tronto lo avrebbero confermato. Squadre di psicologi erano stati mandati a presidiare gli accampamenti degli sfollati, perché proprio durante le scosse di assestamento, i sintomi del panico, andavano a interessare quasi tutti gli ospiti delle tendopoli. Il terremoto aveva abbattuto le case, i muri, perfino la stessa concezione di rifugio, dato che non c’erano più luoghi sicuri, dove, appunto “re-fuggire”, terminare la corsa innescata dalla paura.
E’ questo il panico: trovarsi in mezzo ad una libertà assoluta e non saperla gestire. Un respiro più ampio che toglie il respiro, un battito più veloce che confonde il cuore, una realtà improvvisa e inaspettata, così ridondante, da sembrare irreale. Chi è attraversato dal DAP, generalmente conosce un bivio: o cercare di fuggire dall’evento traumatico (“meglio andar via di qui”) o rimanere, aggrappandosi al passato e cercando il familiare in ciò che è rimasto (“ricostruiremo tutto com’era”). Insomma, o si tende all’ipocondria, assumendo farmaci per ogni starnuto o ci si attacca, in modo morboso, ad alcune figure di riferimento (genitori, amici, compagni).
Credo la psicoterapia, individuale o di gruppo, aiuti a ricollocare, il paziente in mezzo ai cartoni dei ricordi, alle macerie della disfatta, alla frattura del fallimento; presentandogli il presente, seppur problematico e caduco, come luogo preciso della guarigione, della remissione dell’accesso. Infatti, si può dire che l’appanicatoviva tutti i tempi verbali, tranne proprio, quello dell’oggi.
I suoi sintomi si confondono tra passato codificato (“non ce la faccio”; “non è per me”; “non sono capace”) e un futuro tragico (“sverrò”; “impazzirò”; “morirò”).
Rituffarsi nel presente, vuol dire pazientare. Aspettare che si sedimenti la polvere, per gustarsi il panorama della maturità e dell’indipendenza. Qualità oggettivamente non raggiungibili per induzione, ma che richiedono il personale coinvolgimento per risorgere dalle ceneri.
Da quell’estate sono trascorsi anni, a volte mi sembrano secoli. Onestamente non so dire dove io sia adesso; una cosa è certa: attorno a me non trovo più cartoni e macerie. C’è, forse, una casa più povera, più silenziosa, più piccola, ma quello che c’è dentro, so che è mio e solo mio.
Il mio cane continua a fissarmi. Lui è fortunato, perché i terremoti li annusa prima.
A noi uomini spetta passarci in mezzo, per diventare più grandi.
Luca
ContinuaIL PROBLEMA È LA SOLUZIONE: istruzioni d’uso per curare le ossessioni.
IL PROBLEMA È LA SOLUZIONE.
L’ abbandono e l’ atrofia emotiva, generatori di ossessioni.
Una macchina perfetta, ecco come mi si poteva definire fino a qualche mese fa: sul lavoro prestazioni sempre al top, successi professionali, riconoscimento sociale, apprezzamento e stima da parte di amici e colleghi, forte senso del dovere, dedizione e abnegazione verso ogni tipo di responsabilità.
Apparentemente tutto impeccabile e gratificante, il giusto merito per tanto sforzo profuso e per il grande investimento fatto nel lasciare la mia città di origine dopo la laurea in ingegneria (conseguita ovviamente con il massimo dei voti) per accettare il meritato lavoro in una società prestigiosa nel campo di applicazione dei miei studi.
Avevo nel tempo orientato la mia vita verso questa direzione, facendo affermare involontariamente e forse inconsapevolmente quella parte di me logica e razionale a discapito di quell’essenza emotiva e istintiva che, per propria natura, è imperfetta, autonoma, libera da schemi e pregiudizi sociali. E tutto questo andava bene, mi sentivo bene, fino a quando realizzo di avere un problema.
Succede tutto sei mesi fa.
L’incontro con il mio fidanzato storico, con l’amore della mia vita, con colui che in passato avevo creduto sarebbe stato il padre dei miei figli, a distanza di diversi anni dalla rottura del nostro rapporto mi ha fatto fare i conti con un bilancio di vita personale che evidentemente non era così perfetto come inconsapevolmente mi convincevo che fosse.
La nostra storia (probabilmente tutti lo pensano della propria) era speciale: ci eravamo cercati negli anni, prima nell’adolescenza e poi da ragazzi adulti, ritrovati e riscoperti sorprendentemente ed eccezionalmente uguali a condividere la stessa idea di vita, ma purtroppo ci eravamo ‘dati per scontati’ e così i micro-obiettivi professionali che ci eravamo prefissati, e per i quali avevamo temporaneamente deciso di stare lontani, nel tempo ci avevano allontanato sempre più dal macro-obiettivo di stare insieme per sempre, la mancanza di condivisione di una quotidianità vera vissuta e di una prospettiva di vita insieme ci aveva portato a ferirci, odiarci, non facendoci ritrovare più, tanto ci eravamo fatti prendere dalle nostre vite separate che contemplavano un noi solo come rapporto a distanza, un noi nel presente, un noi senza futuro.
Quando mi ha lasciato ho patito le più grandi sofferenze della mia vita, e lui non faceva altro che alimentare il forte senso di colpa che mi portavo dentro per essere stata, apparentemente, l’elemento scatenante di quella rottura.
…Ma la vita per fortuna continua, con il mio ottimismo, la mia energia e l’affetto delle persone a me più care sono riuscita ad andare avanti, costruendo peró, un pezzettino dopo l’altro, una corazza invisibile che mi rendeva orgogliosamente immune al dolore per amore…
Qualche contatto avuto poi nel tempo con lui ci aveva fatto riscoprire più maturi, senza rancori e con i bei ricordi del passato sempre vivi, sebbene ormai con percorsi di vita distanti e forse divergenti, ma con la convinzione comunque che la nostra fosse stata una storia speciale.
Ma torniamo al nostro incontro di sei mesi fa: dopo uno scambio di messaggi buttati lì quasi per gioco decidiamo di trascorrere un paio di giorni insieme, così, senza aspettative, in virtù del grande affetto che ci lega, ‘per stare un po’ di tempo insieme e vedere come va.’
Be’, il nostro incontro ha riaperto in me sofferenze e ferite talmente sommerse e represse che fanno molto più male di quelle del passato, mi ha gettato nello sconforto, dal momento che, dopo giorni idilliaci in cui lui ha cominciato a rievocare le meraviglie del nostro rapporto, fa retromarcia e matura la saggia convinzione che tra noi non ci potrà mai più essere niente.
Ed io, che ero davvero partita per quei giorni senza aspettative, con un ‘vediamo come va’, ci sono cascata appieno, sottovalutando le mie debolezze e bastando quindi poco a farmi credere che un ‘noi’ potesse ancora esserci.
E così avviene l’ennesimo distacco dall’uomo che più ho amato nella mia vita. Nei giorni seguenti sono stata fermamente trattenuta dal cercarlo perché avevo lucidamente realizzato che
“non avrei sopportato un ulteriore distacco. E la paura di questo distacco, di qualsiasi forma di distacco, da persone e oggetti”,
comincia da lì ad avvinghiarsi a me, fa a pugni con la mia razionalità, prende il controllo della mia vita.
E così me ne torno a casa, logorata e sofferente, senza aria, disperata, e nella mia testa prende forma la consapevolezza che, dopo tutti questi anni di sacrifici ricompensati da eccezionali traguardi professionali raggiunti, mi ritrovo in una città che non è la mia, senza aver costruito una famiglia, attualmente senza tempo libero perché ‘incastrata’ in un lavoro super impegnativo che ha reso fertile il terreno affinché la mia emotività uscisse da questa vicenda distrutta.
E così la corazza stratificata nel tempo a causa delle delusioni e sconfitte del passato si è sgretolata in un attimo come un vaso di terracotta che, scivolandoci dalle mani, arriva al contatto con il suolo, da dentro è spuntata fuori una bambina indifesa, spaventata, una me che ha terribilmente paura di restare sola.
E allora, sopraffatta e ossessionata delle emozioni che avevo congelato per quasi dieci anni, decido, contro ogni mia passata diffidenza, di rivolgermi ad uno specialista che mi aiuti a decifrare – proprio a me che sono così brava a fare tutto e a dare saggi consigli agli altri… – il labirinto emotivo all’interno del quale non mi riesco più a districare.
E così accetto l’idea di aver bisogno anch’io di aiuto, di aver bisogno di un ‘decoder’ in carne ed ossa (lo dico con la massima stima verso il complicatissimo lavoro che il dottore sta facendo) che mi sta supportando nell’interpretare le ansie e paure che mi tormentano, ma soprattutto mi sta incoraggiando a espormi ed aprirmi ai sentimenti, anche se il mio io più profondo vede il rischio intrinseco, vede la possibilità di ulteriori sofferenze e ha difficoltà a lasciarsi andare verso una dimensione che da anni non è più la sua.
Dal confronto con i ragazzi incontrati in terapia di gruppo (anche lì dopo una prima fase di diffidenza verso una condivisione dei propri problemi) inizio a vedere sciogliersi il mio distacco verso gli altri, il pensiero assurdo che i problemi si devono superare esclusivamente con le proprie forze, apprezzo la genuinità e trasparenza dei ragazzi, tutti esposti a presentarsi per come sono, a tendere la mano, a non giudicare, ad aiutare anche senza volerlo.
Sto scrivendo tanto e di getto e mi rendo conto di non aver ancora chiarito che il mio obiettivo di questo percorso non è più riavvicinarmi al mio ex: ormai, se magicamente tornasse da me come il principe delle favole, non sarebbe quello che voglio e non mi renderebbe felice.
Dal nostro incontro in fondo si è attivato un meccanismo che, sebbene ora mi faccia stare male, sebbene io l’abbia visto e definito come ‘problema’, mi sta aiutando a mettere in ordine un po’ di cose, soprattutto a comprendere l’importanza di essere me stessa e non quello che gli altri vogliono che io sia: magari mi scoprirò un po’ meno perfetta, ma sarò felice di essere consapevole di me.
Stavolta almeno é cambiata la prospettiva, ho capito veramente che devo guardare in un’altra direzione che sia concentrata e sincera su di me.
E soprattutto, grazie alla terapia, ho compreso che la sofferenza e la paura dell’ abbandono, i sentimenti e le emozioni tutte, mascherate attraverso le ossessioni, vale a dire ciò che sei mesi fa mi sembravano il problema, di fatto sono la via verso la soluzione: sono comunque le mie emozioni che, per fortuna, esistono ancora e che mi fanno capire che non sono un robot e che c’è ancora spazio per amare, gioire, rischiare, sbagliare, vivere essendo libera di essere me stessa.
Quando recupero il tempo per me, colgo e lascio esistere l’ affetto profondo o meno, quando accolgo il mio “sentire” silente, i sintomi ossessivi non esistono più, come se non fossero mai esistiti.
C.
ContinuaESSERE CIÒ CHE VOGLIONO
ESSERE CIÒ CHE VOGLIONO
Vita e relazioni senza veli.
Nasco e cresco da due genitori che hanno come principale fonte di gratificazione il proprio matrimonio e i propri figli, interpretati come protesi delle proprie mancanze e del proprio essere.
Per loro, l’ unica fonte di realizzazione dell’ essere uomo/donna è attraverso la metamorfosi in marito-padre/moglie-madre.
Il danno maggiore causato dalla mia famiglia “proletaria” è stato il proiettare sui propri figli le aspettative che i miei genitori sognavano per se stessi.
Raramente mi è stato chiesto e mai è stata presa in considerazione la risposta alle domande: Cosa desideri? Cosa ti piace? Cosa vorresti? Ero di loro.
Non ero una persona, ero un figlio.
Un dipendente, un sottomesso ai desideri, piaceri e volontà dei miei genitori.
Vivevo in una famiglia piuttosto isolata: i miei genitori avevano pochi amici e quei pochi condividevano le stesse politiche sociali. Non avendo altri esempi o figure di riferimento, i miei genitori erano riusciti nel processo di addomesticamento. Il mio vero se è stato stroncato sul nascere.
Ero il figlio che ogni genitore impreparato e insicuro sogna: disponibile, assertivo, empatico, studioso, anticipatore dei loro desideri. La mia priorità era assecondare le loro aspettative.
I problemi del figlio che non dava mai problemi, iniziano quando fui costretto a confrontarmi con uno spaccato del mondo reale: la scuola.
Il periodo scolastico fu pervaso da furiosi scontri in ambito familare, scolastico e amicale. Solo ora ho la consapevolezza di esserne stato io la causa. Io, come individuo inconsapevole, ho cercato e creato lo scontro perchè non riconoscevo le persone che mi circondavano come attori compatibili e approvabili a partecipare alla mia vita. Ero disorientato.
Il vivere in modo isolato, con pochi contatti con la realtà aveva creato in me un idea di mondo diversa da quella che era realmente.
Paragonando la società al mare, io ero convinto di vivere in un golfo, ma mi rendo conto che io fino ad allora avevo vissuto in un acquario.
Perse le mie scarse e precarie certezze, mi chiusi in un periodo di completo isolamento in cui ho tagliato fuori dalla mia vita chiunque e spesso anche me stesso. Nel periodo che ho dedicato alla riflessione (con gli strumenti che avevo a disposizione) ho riconsiderato quali sarebbero stati i miei nuovi untori di verità da idealizzare, ai quali sottomettermi:
i privilegiati del liceo che frequentavo.
Volevo essere uno di loro. Provenivano da famiglie benestanti, avevano bei vestiti, frequentavano bei luoghi, avevano sempre soldi in tasca, non pagavano le conseguenze dei loro errori.
Soprattutto “loro” avevano i propri genitori sempre dalla propria parte, i miei invece, avevano reverenza nei confronti di qualsivoglia autorità.
Avrei riciclato e rottamato senza titubanza i miei genitori arroganti ed impreparati con i loro che all’ apparenza risultavano perfetti. Iniziai con il mimetizzarmi tra i miei coetanei, nella speranza di essere integrato nel gruppo “loro”.
Le auto limitazioni alimentari per corrispondere ad uno dei “loro” comandamenti: magro uguale bello, si trasformano prima in digiuni e poi in abbuffate con rigurgito.
Il processo durò poco perchè semplicemente non ero uno di loro. Mi mancavano sia i soldi che i loro usi e costumi.
Avevo ancora una volta perso la mia identità.
Non ero una persona, ero ancora un figlio. Figlio non più dei miei genitori ma di una ideologia alla quale così come i miei genitori, anche a lei non importava nulla di cosa desiderassi, cosa mi piacesse, cosa volessi.
Ero dipendente dalla dipendenza: imprigionato nella coazione a ripetere:
Scuola, lavoro, relazioni, amicizie, ho cercato e/o creato i presupposti perchè qualcun altro mi desse le linee guida da seguire per essere un bravo dipendente.
Questo circuito è andato in corto quando non ho più avuto qualcuno o qualcosa che mi desse la possibilità di essere un bravo dipendente.
A questo punto ho deciso di rivolgermi allo psicoterapeuta Burdi che mi ha consigliato la terapia di gruppo.
Entrare in una terapia di gruppo è come entrare in una nuova realtà. Quella autentica.
Questo debutto in questa nuova realtà è stato contraddistinto dalla variazione delle mie priorità.
Il primato detenuto dalla conformazione ha ceduto il posto all’ autodeterminazione.
I membri cercano di raccontarsi per quello che sono. Senza maschere, senza patinature, senza veli.
Nella realtà social fatta di filtri instagram e Photoshop, confrontarsi con l’ autentico è raro.
Durante questo percorso ho avuto la possibilità di capire e scoprire i pensieri ed il modo vero di essere e di pensare dei miei “compagni di viaggio”.
Generalmente i sintomi del malessere sono differenti ma le cause sono comuni ai membri del gruppo: essere stati velati. Nel momento in cui si da un consiglio al prossimo su come curare il proprio sintomo, lo si sta dando a se stesso.
Questo percorso mi ha portato alla consapevolezza che non sono più un figlio, sono una persona.
guido
ContinuaLA TERAPIA MORDI E FUGGI
LA TERAPIA MORDI E FUGGI.
Curarsi fai da te, senza impegno
Vi racconto un episodio: l’altro giorno ero in pasticceria, una signora continuava a non rispondere al ragazzo che la pressava perché ordinasse.
Niente, nessuna risposta, era ipnotizzata da un tutorial: “Come farsi le torte a casa e non andare più in pasticceria”. Scherzi a parte, comprendiamo tutti che stiamo cadendo nel ridicolo.
C’è un tutorial per ogni cosa: come pettinare il gatto, togliere un chiodo, come suonare la chitarra elettrica senza corrente, come auto concepirsi, come farsi un figlio in provetta, allungarsi il fallo, come catturare un ratto o operarsi d’ appendicite e seppellirsi da soli, praticamente come bastare a se stessi, come farsi un tutorial e via discorrendo. Non c’è più studio che tenga, ci sono i tutorial per curarsi. Youtube e Dr. Google sono la nuova “specialistica” .
I nativi digitali non me ne vorranno, non voglio togliere nulla a questo originale modo di apprendere, ma sono convinto che il tutorial: “come vivere senza problemi” non lo posterà nessuno.
I problemi vanno affrontati, nell’immediato, perché affinano in noi, quell’esperienza necessaria per non rincontrarli. Qualche anno fa, divenne famosa, in Ucraina, una sorta di terapia d’urto che prometteva soluzioni, quasi miracolose, per le nevrosi di ogni genere.
Consisteva nel seppellire i pazienti, per qualche ora, in una cassa, sotto pochi metri di terra. I risultati erano a portata di mano! La paura della morte scacciava via quella della vita!
Nessuno, però, dopo, ci ha informato della durata dei risultati. Non sempre la terapia d’urto è totalmente risolutiva, moltissimi pazienti, dopo qualche tempo ripresentano sintomi uguali alla patologia di partenza, peggioravano o ne elaborano un’altra con diversi esordi, con una simile eziologia.
La psicologia psicoanalitica, fin dai suoi esordi, si è proposta come un “cammino”, un accompagnamento del soggetto dentro e verso se stesso, perché in esso, come diceva Pontalis (Finestre 2002): “torni il gusto di vivere e le cose trovino il proprio sapore, perché sull’ostilità, sul rifiuto predomini almeno ciò che un pittore innamorato dei colori chiamava cordialità per il reale”.
Una terapia, insomma, che generi un urto nella vita di chi vi si sottopone. Un urto continuo che lo spinga a spostarsi dal suo personale e avvilente status-quo.
Corpo contundente, in questo caso, diviene la “parola”. Un mosto che continuerà a fermentare nell’animo, anche a seduta terminata. Un dialogo avviato in seduta che non è possibile interrompere e che ci segue dappertutto, in ogni situazione e scava, rivanga, rimescola il terreno delle nostre ansie, e rintraccia le cause, dissotterrando tutto quello che può essere utile alla nostra risoluzione.
luca
ContinuaSano egoismo
Il Sano Egoismo. Se ti prendi più tempo, ti rispettano.
Nella vita mi hanno insegnato ad essere “buona” “brava”, “bella” e “gentile” e per far ciò spesso ho dovuto mettere in secondo piano me stessa.
Non mi hanno mai detto pensa prima a te, ascolta il tuo animo per capire cosa ti rende felice, vivi in funzione di te stessa per piacerti, metti in primo piano i tuoi bisogni e le tue necessità, persegui ad ogni costo il tuo benessere che ti da’ serenità e ti aiuta a crescere.
A volte solo essendo fedeli a se stessi si può raggiungere quell’arduo obbiettivo che è l’equilibrio.
Il percorso è tutt’altro che semplice… perché volersi bene è così difficile? Forse perché ci si scontra con l’essere bravi, buoni, gentili e belli per gli altri?
Un giorno mi sono fermata, ho provato a dare ascolto a me stessa ed ho deciso: ora voglio vivere a colori !!
La mia felicità non renderà infelice qualcun altro .. pazienza, la mia allegria rattristerà qualcuno… troverò la forza per andare avanti, il mio entusiasmo creerà invidie e gelosie … me ne farò una ragione!!! Io, o come sempre gli altri ?
La mia libertà ha sempre determinato il dissenso e la prigionia altrui.
E così ho intrapreso il percorso di psicoterapia verso il mio “sano egoismo”, non è semplice, cado e poi mi rialzo e poi cado di nuovo, ma riesco ad alzarmi, ce la faccio ed ogni volta è meglio della precedente, mi sperimento che ci sono e funziona.
D’altra parte “ego” dal greco significa, “io esisto”, volersi bene, e non è un reato, ma un dovere nei propri confronti.
Gli altri prendono da me tanto più quanto io do a me stessa il mio tempo.
Uno che da soltanto, prima o poi si esaurisce, si consuma per l’altro è rischia di non essere più considerata. Se mi penso, mi carico di energie, e il mondo intorno, messo al secondo posto, ottiene di più da me, e riconoscendomi, mi rispetta.
Certo non ho ancora raggiunto tutti i colori dell’arcobaleno però ho una certezza: vorrei, anzi, voglio una vita piena e degna di essere vissuta nel rispetto degli altri ma prima di tutto nel rispetto di me stessa.
Aurora
ContinuaLogos ed Eros
Logos ed Eros
L’ emozione è la via, il pensiero la malattia.
Tutti azioniamo continuamente sottili meccanismi di razionalizzazione nei confronti del nostro stesso mondo emozionale, che per questioni di sofferenze, abbiamo disimparato ad auscultare e a comprendere, da cui tentiamo di proteggerci e di difenderci, rendendo la nostra vita veramente difficile da sostenere.
Come ci ricorda Jung, “Privo della dinamica affettiva, il fenomeno della coscienza perde ogni senso” (1958, 301). Il Logos distruggerebbe se stesso senza la controparte affettiva, antidogmatica e componente creativa dell’Eros.
Poiché Eros significa anche solidarietà e umanizzazione contro le moralizzazioni, le rigide norme della Legge, i suoi divieti, il suo limite.
Per comprendere quale arma a doppio taglio sia il potere razionale dell’uomo senza un supporto d’eros che conferisca valore anche etico alle cose, basta pensare
alla facilità con cui l’opinione pubblica accoglie la pratica di sospendere le cure a un neonato che viene alla luce deforme: tutti sembrano d’accordo nel negare l’accesso alla vita a una creatura così svantaggiata, così ’minorata’, appellandosi ad argomenti razionali che peccano però di giansenismo e nascondono, probabilmente, la paura del diverso.
C’è da dire intanto che, se vogliamo affidarci a criteri rigorosamente e scrupolosamente razionali, dovremmo anzitutto chiederci se e perché siamo sicuri che la mancanza di braccia o di gambe decida realmente del significato e dei risultati della vita di un individuo.
Ma la pericolosità di tali atteggiamenti non sta tanto nel caso specifico, quanto, a un livello più generale, nel concetto di ’controllo sociale’: dalla
soppressione di chi manca di braccia o di altro, alla soppressione di chi difetta di determinati requisiti psicologici o intellettivi che ’qualcuno’ ritenga fondamentali, il passo risulta pericolosamente breve.
Le azioni eroiche, quelle di chi arriva anche a sacrificare la propria vita, sono dettate dal sentimento, non certo dalla ragione, in ossequio alla quale non si potrebbe che optare per la conservazione della propria vita, per la sopravvivenza.
‘Sento’ che devo agire in questo modo: espressione umana comune che illumina circa l’origine emozionale che muove all’azione in determinate circostanze, anche contro le regole e le logiche del quieto vivere e della morale comune.
Ma perché l’uomo finisce per mortificare il suo sentimento al punto tale da essere poi condannato all’aridità e alla schiavitù di una condizione di esistenza rigida e inappagante? Ciò avviene quando l’uomo ha paura delle proprie emozioni.
L’emozione coinvolge laddove la ragione controlla: attraverso il Logos l’individuo guarda al mondo e alle cose in posizione frontale da calcolo e distaccata, dove c’è emozione, al contrario, c’è partecipazione e coinvolgimento.
L’amore abbatte le barriere divisorie tra amante e amato, travolgendo entrambi in un’identificazione reciproca per cui l’uno è l’altro.
La forza dell’Eros spezza ogni resistenza, e sembra annullare ogni remora morale e normativa, trasformando chi ne è oggetto in un trasgressore: la gelosia acceca, l’amore travolge, la passione, nella sua significazione etimologica, è una forma di sofferenza passiva, una possessione per la quale si è preda di qualcun altro.
Le emozioni represse conducono ad un groviglio caotico di pensieri che il logos tenta di sciogliere attraverso folli atteggiamenti e pensieri, tutti da decriptare e sfociare in rituali di comportamenti.
Quanto più i suoi sentimenti sono rimossi, tanto maggiore è l’influenza dannosa che essi esercitano segretamente sul pensiero.
Tutte le dimensioni dell’umano, della solidarietà, del vivere all’unisono sono dettate dall’Eros, dalla sensibilità attraverso cui si può cogliere l’altro nella sua nudità ed essenzialità, al di là delle regole, dei pregiudizi e delle categorizzazioni.
Lo psicologo del profondo è costantemente sottoposto alla richiesta da parte del paziente di una comprensione che va ben oltre il bisogno di decodificare razionalmente il proprio vissuto.
Ciò che si chiede è di essere accolti nella propria totalità, di poter dare voce alle proprie emozioni senza remore e freni inibitori.
la vita nella sua pienezza è norma e assenza di norma, razionale e irrazionale. Quanto più allarghiamo la scelta razionale tanto più possiamo essere sicuri che così facendo escludiamo la possibilità di sapere profondamente irrazionalmente chi siamo (jung 1917, 43-50).
Ciò è possibile solo se si è dato pieno diritto di cittadinanza al mondo dei sentimenti, al “cuore” e all’anima che parlano attraverso un sorriso, uno sguardo, un silenzio.
Credo che, nonostante le difficoltà, valga sempre la pena di avventurarsi sul terreno dei sentimenti e delle passioni e rischiare fino in fondo, giacché il linguaggio dell’eros svela aspetti della realtà che sfuggono al logos e verso il quale è giudice severo.
Avremmo prospettive e Aspettative che non conosceremo mai, se ci adeguassimo supinamente alle regole del gioco imposte dalla collettività:
c’è sempre un momento nella propria vita in cui bisogna infrangere le ‘regole’ e la ’legge’ per poter crescere e maturare psicologicamente.
L’educazione che abbiamo ricevuto dettava prescrizioni rigide: questo si può fare, questo no. Il nostro sviluppo è legato all’atto di infrangere la norma che proviene dall’esterno per sostituirla con una voce e una morale interna.
Per l’uomo pensante, per l’uomo del sottosuolo, l’ uomo delle profondità, giunge sempre il momento della presa di coscienza che richiede un ’tradimento’ nei confronti dei valori collettivi, e la creazione di nuovi valori.
L’uomo del sottosuolo deve trasgredire, deve infrangere le leggi derivate dall’eredità culturale, deve rompere con le regole, se vuole conoscersi, perché non è perimetrabile o scontato.
La coscienza è un’esigenza che si impone al singolo o che almeno gli “procura serie difficoltà”, essa “esige dal singolo che egli ubbidisca alla voce interiore anche a rischio di sbagliare”
Creare i propri valori significa infatti confrontarsi continuamente con la propria dimensione Ombra, con la possibilità di operare il male: “La coscienza più evoluta porta alla luce il conflitto morale latente o acuisce i contrasti che lo arrovellano”
Se il soggetto è sufficientemente coscienzioso, il conflitto è portato fino in fondo;
la sensazione di vivere autenticamente, come essere umano, deriva proprio dal coraggio di andare contro corrente, ascoltando se stesso, e la maturità consiste nel sopportare il peso del giudizio di un collettivo che necessariamente deve stigmatizzare il trasgressore come fuorilegge.
aldo carotenuto
giorgio burdi
ContinuaVivere a Colori
Vivere a colori, sul nero dell’ ansia.
Forse non l’ho mai fatto da quando sono nata, o forse sì ma non me lo ricordo….forse quando ero bambina, non lo so….di certo non “da grande”.
Il perché? Probabilmente non mi è stato insegnato o tramandato, ma solo oggi inizio a percepirlo a pieno. L’ansia e la depressione, mie “amiche” ormai da molti anni, mi hanno privato della ricca gamma di colori che la vita offre.
Troppe paure, troppi pensieri negativi, l’attesa come se debba arrivare una catastrofe sempre dietro l’angolo, una malattia, una morte di un caro se non la mia….quel panico che arriva e non so il perché, mi toglie il fiato, manda la testa in palla, s’impossessa di me e decide lui cosa fare….cioè niente.
Non posso guidare allontanandomi molto da casa da sola, non posso prendere un ascensore, non posso viaggiare in treno o in aereo tranquilla e serena nonostante l’obiettivo sia una vacanza, non posso farlo per tragitti lunghi che mi porterebbero in posti da me tanto desiderati.
Ma anche tra le mura domestiche qualcosa non funziona, ho paura di stare sola di notte, mi mette ansia un temporale, se ho tempo libero non riesco a rilassarmi, a dedicarmi senza fretta o sensi di colpa a ciò che mi piace, che mi fa bene.
C’è sempre qualcosa o qualcuno che viene prima di me, c’è sempre il giudizio dell’altro che chissà cosa pensa, chissà cosa dice, chissà se ci rimane male. Ed io dove sono? A che posto? Boh….forse non l’ho mai considerato, mai prima d’ora, perché solo dopo tanta sofferenza, tante lacrime, tante occasioni perdute, tanti silenzi, tanti vuoti, è arrivato il momento della scalata verso il primo posto.
Ora ho capito che si può fare anche se non ci credevo, ho capito che esistono un’infinità di colori che sono i piaceri, le emozioni, le sensazioni, positive e negative ma comunque vive.
Ho capito che non deve esistere il se condizionale, perché mi intasa soltanto la testa con mille paranoie, offuscandomi la visuale su quello che ho, su quello che sto vivendo e privandomi di me stessa.
Ho capito che posso percorrere 60 km guidando da sola senza che mi succeda nulla, ho capito che non è necessario essere sempre preparata e perfezionista e anzi, allentando la presa, le cose vengono meglio, posso anche permettermi di sbagliare e di dire di no.
Ho capito anche che posso e devo mostrare a mia figlia il bello della vita, i colori….senza i mille sensi di colpa né gli insostenibili sensi del dovere che mi hanno soffocata subito dopo esser diventata mamma.
Certo il traguardo è ancora lontano, vivere serena e senza ansie mi risulta ancora difficile…. ma una cosa è certa, voglio vivere a colori, voglio capire ed aprire la gabbia, voglio far esplodere me stessa e non restare una fotocopia in bianco e nero di me stessa.
Maria
ContinuaLa Gelosia Retroattiva e la Rivalità
La Gelosia Retroattiva e la Rivalità.
Il confronto, la competizione, fanno parte della natura umana. Esistono vari tipi di competizioni, ma credo che una sana, aiuti a migliorarsi e a superare propri limiti.
Ci sono invece quelle competizioni che durano anni, probabilmente da quando si è ancora bambini. Confronti, giudizi, raggiri, conflitti familiari, per i quali gli altri sono sempre migliori di te, non fanno altro che generare imbarazzi e vedere agli altri come competitors e acerrimi nemici.
Si avvia una formazione all’ inferioriorizzazione, screditandoci, a vantaggio di chi diventa il nostro inferno.
Questa formazione distruttiva, lascia tracce nella memoria della nostra autostima, tanto da pensare di se solo ciò che gli altri vedono di noi.
Le ruminazioni e le sensazioni associate a tali ragionamenti fanno si che la rivalità predomini e diventi ossessiva.
La gelosia retroattiva non è da riferirla alle circostanze presenti, ma ad esperienze passate con i nostri veri rivali.
Inizialmente prodotta nel passato dalla famiglia , la rivalità viene rivisitata e poi rimessa in vita nelle relazioni presenti.
Nel modo reiterato, essa perdura sotto forma ossessiva, Allora cosa si potrebbe fare o pensare, sottoposti ad un mantra in cui tutto il mondo sarebbe migliore di se ?
Pertanto, gelosia retroattiva e Rivalità rappresentano le due complici facce della stessa medaglia.
Uno schema di questo genere viene stampigliato nella mente da ricercare un qualsiasi rivale da sconfiggere, uno schifo da superare, i primi rivali che hanno innescato questo meccanismo, da permeare tutta la propria esistenza e gran parte del proprio tempo, è la famiglia, con le sue continue apprensioni, derisioni , insulti ed imbarazzi.
Ma la famiglia non é la sola causa, anche la scuola con i cosiddetti bulli.
Formati alle derisioni in famiglia, indebolito l’io, si subiscono altrettante derisioni e delusioni tra i banchi di scuola, tali da edificare quell’ “opera d’ arte” definita ossessione compulsione e la gelosia retroattiva con i rispettivi disturbi d’ansia, dell’umore e le esplosioni di rabbie.
Diventa arduo sentirsi bella, forte e migliore, si diventa insensibile ai complimenti. Contrastare un ossessione è difficilissimo, ma comprendere le radici e distaccarsene attraverso, la psicoterapia, rappresenta la cura che può guarire.
Reginella
ContinuaFa divertire il tuo cervello
Fa divertire il tuo cervello
Quanto ne gioverebbe il tuo equilibrio mentale se dedicassi al divertimento e al piacere tutte quelle ore che invece passi a rimuginare, a preoccuparti e a temere cose e situazioni che non sono ancora successe e che probabilmente non succederanno mai.
Uno degli errori più comuni che commettiamo da sempre ma che solo oggi ci rendiamo conto di quanto possa aver contribuito al nostro malessere attuale è quello di pensare al nostro corpo e alla nostra mente come a delle macchine perfette.
In realtà alla base dell’equilibrio psico-fisico di ognuno di noi vi sono dei principi fondamentali che regolano il nostro sano funzionamento.
In termini psicoanalitici questi istinti e bisogni che governano il nostro Io interiore vengono definiti con i nomi di due divinità greche: Eros e Thanatos, rispettivamente Dio dell’amore e Dio della Morte.
Eros sebbene richiami il concetto greco di desiderio amoroso – non si riferisce solo all’atto sessuale, ma al bisogno di tutto ciò che stimola il piacere umano, cioè la fantasia, la creatività, l’entusiasmo e il desiderio di vita, Al Dio Eros viene quindi attribuita quella parte del nostro IO legata al divertimento, all’attività fisica e al riposo dallo stress. Thanatos – si riferisce alla nostra parte razionale e inibitoria, che regola gli istinti per l’appunto di morte e di paura, non a caso luogo d’origine di tutte le nostre ansie e insicurezze.
Ora basta chiederti: quale di questi due istinti prevale nella tua quotidianità ?
In una società che ci vuole sempre più veloci, sempre più preparati e perfetti quanto tempo è rimasto per la cura dell’anima ? Per il piacere di un Hobby o della compagnia degli amici per farsi due risate ?
Eppure stiamo parlando di un bisogno che è fondamentale al nostro benessere quasi quanto il bere e il mangiare. Il nostro cervello ha il diritto e il sacrosanto dovere di divertirsi per poter funzionare correttamente.
Il tuo cervello è un muscolo che puoi allenare come qualsiasi altro muscolo del tuo corpo, se per tanto tempo hai concentrato le tue energie verso il lato negativo della tua esistenza, hai sviluppato un allenamento e un abitudine a pensare e comportarti in maniera tutt’altro che costruttiva.
Se riconosci in te questo tipo di comportamento sei sulla buona strada per il cambiamento.
Ricorda che hai il potere di costruire nuovi percorsi nel tuo cervello ma ci vuole più coraggio e pazienza di quanto tu possa pensare perché i tuoi vecchi schemi sono già ben sviluppati e sradicarli è un operazione che richiede tempo e perseveranza. Buon divertimento.
carmen
ContinuaArchetipi: Siamo tutti uguali.
ARCHETIPI
Pensieri ed immagini indicibili. Siamo tutti uguali
Ci vorrebbe poco per conoscere gli altri, basterebbe conoscere il nostro mondo sotterraneo indicibile, ammettere che siamo sempre in lotta con esso, accettarlo, per capire per quale motivo è insidioso o siamo invidiosi, in lotta e in competizione con gli altri.
La lotta contro gli altri, è la lotta contro il nostro indicibile, essa è all’ origine della paura per il giudizio.
Tutti siamo in modalità simile e differente da noi stessi. Gli altri sono la nostra poliedricità, come noi la loro, e insieme siamo la sintesi dell’ umana esistenza.
La nostra mente si esprime per immagini, che sono rappresentative del nostro inconscio ed esse sono universalmente presenti in tutti e condivisibili.
Ogni soggetto crede di essere unico, ma lo diventa, e pertanto crede di non essere in grado, o lo ritiene inopportuno, condividere le sue immagini intime. Ma le nostre immagini sono archetipi onnipresenti in ognuno e condivise o no, esse ci sono, e ci accomunano.
Ciò che ci fa differenti, è il livello della consapevolezza, relativa alla presenza degli archetipi in ognuno di noi, tale da non farci temere alcun giudizio nel poterli esprimere e nel poter essere noi stessi.
È la sola consapevolezza e il conseguente suo agito, che ci rende emancipati.
“Nessun uomo è un’isola, e le immagini archetipe sono rivelatrici della comune matrice umana, questa è la ’materia’ da cui è sorta la coscienza. Questa appartenenza al grande affresco del ciclo della vita è l’aspetto mitico della nostra vita.” [ Carotenuto ] .
Ognuno di noi viaggia cercando di scoprire quale è il proprio mito, per poi viverlo fino in fondo, nel bene e nel male, in tutti i suoi aspetti chiari e oscuri:
possiamo nascere in qualsiasi condizione sociale, con qualsiasi particolare aspetto fisico, ma l’unica cosa importante nella strutturazione di se stessi è la capacità di superare le “prove mitiche”, che sono le prove delle nostre ed altrui “immagini indicibili” , archetipe, cioè quelle prove esistenziali che le immagini dell’inconscio ci indicano come tappe ché hanno costellato il cammino di tutte le generazioni precedenti, il cammino dell’uomo in generale.
Viviamo temendo gli archetipi, ovvero temendo tutto ciò che è presente in tutti gli uomini, viviamo all’interno di continue prove quasi mitologiche, idilliache di sopravvivenza.
La lotta contro gli archetipi rappresenta la lotta contro l’uomo, essa è all’origine delle guerre inutili, guerre contro se stessi.
Sentirsi inseriti in una storia metaindividuale, conferisce una grandissima forza interiore, perché ci inserisce in un universo di significato di similitudini, un universo immaginale, di superamento della solitudine, di cui la psiche è testimonianza comune.
Bisogna imparare a guardare agli eventi in quest’ottica, rifacendoci alle leggende e ai miti, creazioni universali della psiche, per attingere dai loro simboli un insegnamento sempre valido e illuminante che ci rende favolosamente vicini.
Le componenti dell’animo umano sono universali e attraversano la storia trasversalmente, accomunando destini apparentemente lontanissimi tra loro, ci fanno pensare alla presenza di un inconscio collettivo.
Noi tutti siamo così vicini, più di quanto possiamo immaginare, solo che siamo intimoriti dalle nostre iconografie mentali e nel timore di essere giudicati, ci allontaniamo ed entriamo, come degli adolescenti, in continua competizione ed invidia.
Servirebbe una torre di buon senso e di libri interminabili da saggiare, per scalare noi stessi, per emanciparci dalle nostre caverne, per sentirci consapevolmente esseri umani, accomunati e sereni da poterci condividere.
giorgio burdi
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