IL PILOTA AUTOMATICO
Evitare l’annientamento
Credici che puoi tirar fuori il massimo, investi. Se non investi non cambierà mai nulla. Provaci, nel qui ed ora, perché le cose possono cambiare dall’oggi al domani, da un istante all’altro, come uno switch mentale. Cerca l’elemento che frena l’emancipazione, che crea un senso di colpa. Qual è quell’autorevolezza, quell’ autorità a cui noi siamo sempre rinviati? Ognuno di noi può cambiare questi meccanismi, queste istituzioni mentali.
Riconoscere ciò che si contrappone tra sé stessi e il raggiungimento dei propri obiettivi, permette di essere presenti nel qui ed ora, di imparare a disattivare “il pilota automatico”, per sospendere i pregiudizi e riconoscere i propri pensieri nella realtà.
Possiamo introdurre così il concetto di “Mindfulness”, in italiano consapevolezza, presenza mentale. La Mindfulness si riferisce alla disposizione delle proprie risorse esclusivamente nel qui ed ora, in modo consapevole e non giudicante, all’osservazione dei propri stati emotivi e fisici, cambiando ciò che è possibile cambiare e accettando ciò che non è possibile cambiare.
Per fare ciò è importante anche rivalutare ed affrontare tutti quegli stati emotivi etichettati come “negativi” e “deleteri”, che ci fanno scappare, aumentare il ritmo.
L’ansia, la paura, l’incertezza, la mancanza di controllo, la rabbia.
Ma, perché corriamo? Perché questo tentativo incessante di occupare il tempo?
Rallentare nella frenesia, permette di vivere la pienezza dell’istante, di accettare le incertezze e rinunciare al controllo, di non temere il presente e le possibili vittorie o sconfitte.
A volte, l’incapacità di fronteggiare la propria emergenza emotiva si proietta in un’apparente iperattività. La dipendenza all’azione è un modo per evitare il confronto con noi stessi, per non ascoltarsi nel profondo. La frenesia continua ci pone a distanza di sicurezza e ci illude di avere il controllo sulla realtà.
Dunque, è opportuno domandarsi: cos’è che non vogliamo sentire? Da cosa sto sfuggendo e con che cosa non voglio un confronto?
Correre costantemente, senza essere mai veramente presenti, determina uno stato perenne di tensione e allerta, producendo alti livelli di ansia e stress. In questo modo il respiro si fa corto, i muscoli sono contratti e l’addome e teso. Il tentativo di fuggire dai propri mostri e/o di avere il controllo della realtà, fa perdere il controllo di quella che è la propria realtà.
“L’ansia anticipatoria o l’ansia per la perdita del fondamento dell’esistenza, è la paura della paura, della perdita di sostegno, della caduta nel nulla“.
Gli stati d’ansia e di agitazione si attivano alla percezione di una situazione potenzialmente pericolosa, in cui l’individuo mette in discussione il proprio “poter essere”. Dal punto di vista esistenziale l’ansia deriva dalla consapevolezza e dal timore di un possibile “annientamento”, dalla perdita delle proprie certezze ed istituzioni mentali. Vi è paura di “non poter essere”.
Come detto precedentemente, quindi, è importante cambiare ciò che è possibile cambiare, ma soprattutto accettare ciò che non è possibile cambiare. Essere presenti nella nostra quotidianità e assaporare la bellezza e il piacere nel frenare.
La facilità e la velocità nel fare una cosa non danno al lavoro durevole solidità né la precisione della bellezza.
— Plutarco
Francesca SCALERÀ
Laureata in Psicologia clinica e della riabilitazione- Tirocinante presso Studio BURDI
ContinuaL’ ASSENZA NEL QUI ED ORA
Ansia del futuro o del presente?
“tutto sembra instabile. Il futuro si tinge di colori poco rassicuranti e di una forma indefinita”
Riempiamo le nostre giornate di preoccupazioni; ci muoviamo senza una vera consapevolezza, ma con la mente costantemente trasportata nel passato, a ciò che è stato o sarebbe potuto essere o nel futuro, a cosa sarà.
Viviamo così, con un atteggiamento di proiezione costante, assenti dal qui ed ora.
Ci giustifichiamo parlando di obiettivi e progettualità, ma in realtà navighiamo in pensieri negativi, sommersi da ansia ed apprensione; abbiamo paura del futuro (o di vivere il presente?).
“ho paura di non farcela”, “sarà la scelta giusta?”, “cosa potrà accadere?”.
La paura è un’emozione primaria che, attivandosi alla percezione di uno stimolo potenzialmente dannoso, garantisce la propria sopravvivenza e riveste un ruolo adattivo enorme. Di fronte alla minaccia l’organismo effettua una valutazione, dunque, non è importante in sé e per sé quale sia l’evento esterno, ma piuttosto quale sia la valutazione che il nostro organismo ne da.
Quando le emozioni negative prendono il sopravvento, la paura si prepara a difenderci con reazioni comportamentali dell’evitamento o paralisi (effetto freezing).
Quindi, pensare e immaginare che in futuro possa accadere qualcosa di negativo, l’ansia, la paura, ci portano ad evitare la situazione o a rimanere fermi.
Questi atteggiamenti, spesso, condizionano e sono condizionati dagli aspetti di vulnerabilità individuale.
“Vivere l’ansia significa fare le prove su un palco e concludere che la prestazione non raggiunge uno standard richiesto (da chi?). Da qui la preoccupazione per l’esito della gara. Il pericolo non è presente in quel momento, ma lo è nel futuro. L’atleta entra in contatto con un pensiero, una fantasia e vive l’esperienza dello smarrimento, dell’incertezza verso il futuro, diventando difficile per lui vivere il qui e ora. Egli si stacca fisicamente ed emotivamente dal mondo, lascia il presente per andare nel futuro bloccando l’azione.”
In questo modo, come un circolo vizioso, siamo sempre assenti dal qui ed ora perché costantemente in attesa di un futuro che, quando arriva è il nuovo presente.
Così, come la paura di morire può riflettersi nella paura di vivere, chi è proiettato mentalmente nel futuro effettua uno spostamento: la paura del futuro si riflette nella paura del presente.
In questo modo il presente perde di significato e tutto è accelerato. La paura del futuro segnala la necessità di rallentare e godersi il momento, accogliere le proprie emozioni ed elaborarle.
Francesca Scalera
Laureata in Psicologia clinica e della riabilitazione- tirocinante presso Studio Burdi
ContinuaIL BULLISMO
LA POTENZA DI UN IMPOTENTE
La Cicatrice indelebile.
“ho ancora davanti agli occhi il terrore di andare a dormire la notte”
Il bullismo è un fenomeno tristemente famoso e in crescente aumento negli ultimi anni. L’etimologia del termine deriva dall’inglese “to bully”, che tradotto in italiano vuol dire “tormentare, perseguitare”. Nel bullismo il più forte strumentalizza la propria superiorità per arrecare danno al più debole. Attraverso aggressioni fisiche, verbali o psicologiche esercita il proprio potere e domina la propria vittima. Il bullismo a qualsiasi età venga subito, è un’esperienza deleteria, pregnante e angosciante. Tutti quei comportamenti prepotenti e pervasivi portano all’esclusione sociale, a disagi personali e sono il risultato di una forte sofferenza psicologica.
La causa di tale comportamento spesso ha un’origine profonda. Anche se il bullo possa apparire come un soggetto estremamente sicuro di sé, spesso è un soggetto con scarsa empatia e frustrato, fragile e sofferente, pervaso da un senso di inadeguatezza. Le azioni violente possono essere l’espressione di sentimenti di gelosia e/o invidia, così come difficoltà nella gestione della rabbia o il controllo dell’impulsività. Per questo, il tentativo di guadagnare potere, attenzione e ammirazione. Inoltre, spesso il bullo è a sua volta vittima di bullismo e i comportamenti che mette in atto sono un’emulazione di ciò che ha vissuto e sta vivendo. Per ciò, il modo per sentirsi forte ed aumentare la propria autostima è quello di creare un rapporto di sottomissione con la vittima.
Un basso concetto di sé, quindi, può avere conseguenze sullo sviluppo dell’autostima e, non solo condurre a comportamenti aggressivi, ma anche alla vittimizzazione.
Infatti, i bambini tiranneggiati hanno un’opinione negativa di sé e delle proprie competenze, mettono in dubbio il proprio valore ed hanno poca autostima. Fanno fatica a socializzare, si sentono in difetto, inadatti e si abbandonano in stati d’ansia e frustrazione.
Come nella profezia che si auto-avvera, gli attacchi del bullo alimentano le sensazioni di inferiorità, le insicurezze e la convinzione di essere una nullità. Così, essi diventano un obiettivo di attrazione. La scuola diventa il “regno” del bullo, “la valvola di sfogo”, mentre per la vittima il luogo del terrore.
Le famiglie dei bambini tiranneggiati tendono ad essere eccessivamente coese e a rendere i figli molto dipendenti dai genitori. Questo si ripercuote negativamente sui bambini, che maturano grandi difficoltà nell’aprirsi agli altri e nel gestire le difficoltà di relazione con i coetanei.
Il trauma del bullismo può portare i bambini a provare forti sentimenti di angoscia, ansia dei luoghi comuni o paura nel rimanere soli, così come può portare ad essere desensibilizzati, a reprimere i propri pensieri o i sentimenti su quanto è accaduto. I bambini si sentono intorpiditi e perdono qualsiasi tipo di interesse.
Inoltre, come nel disturbo post traumatico da stress, possono verificarsi pensieri intrusivi, flashback di quanto accaduto. È così che il bambino si sente in trappola, in un loop, e continuamente sconfitto.
La storia di Daniele
Le conseguenze di un atto di bullismo però non si ripercuotono solo sulla vita presente dei bambini, ma può avere importanti conseguenze anche sul futuro dell’individuo. Così come ci racconta Daniele, nella sua lettera al bullo:
“Sembra ieri che varcavo la porta di quell’aula maledetta del primo giorno delle superiori e come se fosse ieri ancora mi ricordo quello stato d’animo… la paura di iniziare un nuovo anno, un percorso, l’ansia di non riuscire a socializzare, di trovarmi maltrattato, maledetto, inadatto come già era successo alle elementari, di essere incompreso, insultato, di essere diverso, di non essere uguale a chi ? di non essere come tutti gli altri, di essere considerato una nullità, sensazioni che man mano che passavano i giorni prendevano sempre più piede fino a diventare incubo e realtà… ho ancora davanti agli occhi il terrore di andare a dormire la notte perché sarebbe venuto quel “domani”, quella mattina, quella “maledetta” ricreazione dove tutto era possibile… dove andavo al bagno e quando tornavo in classe vedevo lo zaino preso a calci , la merende buttata in terra o nel cestino, disegni sulla lavagna per prendermi in giro essere considerato il soggetto inetto della classe, non si sa per quale ragione… ; potessi tornare indietro avrei preso a calci e pugni tutti chiunque mi veniva ad insultare, chiunque mi faceva star male, chiunque si fosse messo sulla mia strada; purtroppo però non si può tornare indietro, ma solo avanti ed io voglio andare avanti voglio stare bene e voglio la serenità, quella serenità che mi è mancata in quei cinque anni…forse è proprio per questo che adesso sono cosi… che penso solo a divertirmi, a maggior ragione da quando mi sono lasciato con la mia ex, sono freddo, cinico, razionale con solo la voglia in testa di “scopare” e non avere più sentimenti ed emozioni verso nessuno, ne ricordo solo di negative, per non stare male di nuovo e non avere più pietà di quella pietà e rispetto, che ho sempre avuto e non mi ha portato da nessuna parte… e tu, mamma, sei una grande mamma sempre presente, troppo accorta… eh si quel troppo che secondo me è controproducente perché non mi ha fatto crescere mi ha fatto essere insicuro non mi ha fatto mai sbagliare, sempre protetto da un mondo per lei feroce, non mi hai aiutato a difendermi e di sbagliare, perché a volte sbagliando capisci molto di più rispetto alla cosa giusta da fare e per quanto ti amo come figlio, devo riuscire ad autonomizzarmi e distaccarmi per riempire quei tasselli che mi mancano per sentirmi più uomo, per non essere più quel bambino indifeso e protetto dalla mamma, per avere un mio equilibrio, la mia logica, il mio istinto di protezione e per dire finalmente questa è solo la “vita” mia, la vita di Daniele.”
Daniele
Francesca Scalera
laureata in psicologia clinica e della riabilitazione–Tirocinante Presso lo Studio BURDI
ContinuaLA RABBIA
La nostra rappresentante sindacale
Se sappiamo osservare la rabbia capiremo su cosa e come lavorare per migliorare il suo utilizzo.
La rabbia è una risposta naturale ed adattiva, grazie alla quale possiamo difenderci in caso di una minaccia reale o percepita. La giusta quantità di rabbia quindi è necessaria e fondamentale per la nostra sopravvivenza.
Quest’emozione può essere vissuta in modo ambivalente: se da una parte questa emozione difende il nostro Sé agendo come protezione dalle minacce, dall’altra parte può essere vissuta come un atto aggressivo verso terzi e se stessi, provocando conflitti intra e interpersonali.
Inoltre, l’ambivalenza di questa emozione si denota anche nella sua manifestazione in quanto può essere espressa sia come rabbia repressa che come rabbia aggressiva. Nella rabbia aggressiva la distruttività, la vendetta e l’esplosività fanno da padroni, mentre nella rabbia repressa troviamo più forme di manifestazione passiva, tradotte in sensazioni come la tristezza, l’impotenza, la vergogna, l’ansia, l’inadeguatezza e l’isolamento.
La rabbia quindi può essere sia una conseguenza, che una distrazione, dall’intenso dolore.
Molto spesso, quando si sperimentano sintomi ansiosi o attacchi di panico, il soggetto non riesce a comprendere da solo le motivazioni che hanno scaturito tali episodi. Così come può capitare anche nella depressione, in questi casi le componenti fondamentali dei sintomi sono proprio la rabbia repressa e il sentimento di intrappolamento.
Proprio come sosteneva Freud “Le emozioni represse non muoiono mai. Vengono sepolte vive e prima o poi usciranno nel peggiore dei modi.” “Infatti, l’intreccio di mente e corpo fa sì che ciò che non viene espresso a livello emotivo, venga canalizzato a livello corporeo.”
Le emozioni represse, tra cui la rabbia, possono essere delle possibili cause di questi sintomi. Questo avviene perché a volte si tende a vivere le emozioni come qualcosa di disconnesso dalla nostra mente e dal nostro corpo.
La rabbia repressa è protagonista anche nei soggetti che hanno una bassa autostima. La visione distorta di loro stessi li intrappola e li limita, non gli permette di esprimersi liberamente.
Spesso le persone che accumulano rabbia, anche verso se stesse, e la reprimono, tendono ad autocriticarsi, ad accettare ogni critica come se fosse vera, sono passivi, oppure eccessivamente disponibili; controllano inconsciamente questa emozione nascondendosi dietro indifferenza o “falsa compiacenza”.
La rabbia contro se stessi è deleteria, tende ad accrescere progressivamente ed innesca un pericoloso meccanismo autodistruttivo.
D’altro canto, la rabbia aggressiva è esplosiva, rabbiosa si agita internamente, investe tutto il corpo e provoca tensioni. Con la sua manifestazione è l’evidenza di un malessere sommerso che, se non decodificato può diventare pericoloso per noi e per gli altri. Una reazione vulcanica impedisce di trovare soluzioni adeguate, di analizzare con lucidità il contesto e le cause che l’hanno portata a manifestarsi.
Saper leggere dentro di noi il processo di attivazione della rabbia vuol dire dirigere l’osservazione e l’accettazione di tutti quei sentimenti di inferiorità, tendenza alla perfezione, mancanza di sostegno e senso di inadeguatezza che possono aver caratterizzato i nostri vissuti trascorsi.
“La rabbia ha una cattiva reputazione, è spesso associata a violenza e aggressività ma anche questa emozione può avere risvolti positivi. La rabbia può essere canalizzata per far rispettare i propri diritti e apportare cambiamenti intorno a noi”.
Durante una seduta di gruppo, un paziente, che può vantare ad oggi di un grande percorso di cambiamento, racconta di come la presa di consapevolezza e l’espressione della rabbia prima repressa sia stata un punto importante nel proprio percorso.
Questa carica emotiva, diventa funzionale e fondamentale nella tutela dei propri limiti e bisogni, e si struttura come difesa del proprio valore personale. Al contrario, è possibile osservare come nei soggetti incapaci di amare se stessi esprimono un tipo di rabbia “disfunzionale”.
Analizzare le origini di una rabbia disfunzionale, può dirigerci verso i nostri irrisolti, verso quegli echi che probabilmente appartengono al passato, ad un’infanzia lontana.
Francesca Scalera
Laureata in Psicologia clinica e della riabilitazione-tirocinante post laurea presso lo studio Burdi
Continua
EROS E THANATOS
L’Impasto delle pulsioni di vita e di morte
Sempre attiva, per amare o per odiare, per far vivere o per distruggere, mai per tendere ad un deperimento naturale
Secondo Freud ogni persona sin dalla propria nascita possiede un “impasto di Pulsioni”, pulsioni sia di tipo libidico che aggressive (Eros e Thanatos). Nello specifico, l’eros è l’insieme delle pulsioni di vita che danno origine alla componente erotica dell’attività mentale, mentre thanatos sono le pulsioni di morte, che danno origine alla componente puramente distruttiva.
Le due pulsioni operano in tutte le manifestazioni possibili, sia normali che patologiche, in modo congiunto. Ogni attività mentale quindi trova la presenza delle due pulsioni, fuse tra di loro. L’energia libidica e quella aggressiva si legano in modo indissolubile alla psiche , come espressione della sintesi tra psichico e somatico. La vita diventa così un bilanciamento fra queste due forze sia a livello individuale che in relazione all’ambiente.
L’aggressività e la distruttività, le pulsioni di morte, sono dei comportamenti reattivi, una risposta alla frustrazione. Va specificato però che, mentre l’aggressività in determinate situazioni può essere una difesa utile alla sopravvivenza, la distruttività si volge contro le radici stesse della vita.
L’aggressività appare come un meccanismo messo in atto al fine di fronteggiare situazioni percepite come spiacevoli o persecutorie.
Gli esseri umani, infatti, non operano solo in relazione alle condizioni poste dall’ambiente esterno ma anche in risposta alle richieste e pressioni provenienti dall’interno. Secondo Freud le pulsioni di morte, quelle distruttive, si esprimono attraverso l’aggressività verso il prossimo e sé stessi. Di fatto, ogni uomo desidera la felicità, ma gli eventi e l’esperienza vissuta possono influenzare in modo negativo il percorso, la psiche e ciò che siamo, portando ad uno sbilanciamento tra le pulsioni.
Si pensi anche semplicemente ad un soggetto ansioso: l’ansia è distruttiva, deleteria, ha un grande impatto sia negli aspetti individuali che interpersonali, compromette lo stile di vita. Le pulsioni di morte in questo caso sono predominanti.
Lo sbilanciamento può verificarsi quando dei comportamenti adottati in passato si sono rivelati inefficaci o, in particolar modo, in caso di una specifica storia evolutiva che ha condotto ad una disintegrazione del sé.
In tal senso il soggetto non possiede altri “strumenti comportamentali” che non siano quelli aggressivi. Questo può portare ad uno sviluppo graduale di un’organizzazione patologica che danneggia la personalità come avviene nelle perversioni.
È importante quindi, operare in modo che le pulsioni vadano di pari passo e siano in equilibrio, dando il giusto valore sia alle pulsioni di vita che di morte.
Senza la morte, senza cioè la cessazione delle tensioni erotiche l’amore sarebbe destinato a rimanere perennemente insoddisfatto ed è così finché siamo vivi. Ecco perché la pulsione di morte sarebbe al servizio del principio del piacere benché nel suo realizzare la cessazione delle tensioni andrebbe, al tempo stesso, al di là del principio del piacere.
“Sotto questo punto di vista, quindi, l’aggressività diviene un elemento organizzatore del sé, finalizzato a realizzarne l’equilibrio qualora venissero avvertite minacce esterne.”
Francesca Scalera
laureata in psicologia clinica e della riabilitazione – Tirocinante Presso lo Studio BURDI
ContinuaLA SOLUTUDINE
Il caos nella solitudine
Ciò che rende socievoli gli uomini è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, se stessi.
Schopenhauer
Ognuno di noi ha un proprio modo di rappresentare la solitudine, di viverla o, d’immaginarsela.
L’uomo fugge alla solitudine costellando il proprio mondo di relazioni, di immagini e azioni. Nel tentativo di placare tale sensazione, l’uomo si procura le gioie e le sofferenze della vita.
La paura di rimanere soli, la necessità e il desiderio di evitarla, costituiscono il principio motivazionale primario nell’uomo, nei bisogni si appartenenza, come bisogno sociale e di sopravvivenza psicologica.
La spinta a fuggire dall’isolamento determina in parte ciò che siamo, o meglio, ciò che sembriamo. La solitudine diventa quasi un nemico dal quale fuggire e, le nostre decisioni, le relazioni, ciò che diciamo e facciamo, sono animati dalla paura di rimanere soli.
“Chi vive dentro di me nell’infinita solitudine dell’unico?”
Ma, perché?
Quando siamo soli, sono i nostri pensieri e i ricordi a parlare, a prendere vita e a farci compagnia. Non sempre però, ciò che ascoltiamo è accettato. Potremmo essere preda di cognizioni negative su noi stessi, sentirci inadeguati, incapaci di affrontare le situazioni della vita o, addirittura senza speranza.
La paura della solitudine quindi, può essere la paura di ascoltarsi e affrontarsi. Fuggire dalla solitudine, circondarsi di relazioni e impegni, quindi, può essere tradotta come una fuga da noi stessi.
Quando torniamo a casa, ci mettiamo a letto e rimaniamo soli, il silenzio viene interrotto dal caos dei propri pensieri. Iniziamo a pensare, a ricordare e le proprie sensazioni hanno più libertà di espressione. E, forse, è questo a spaventare. Non tanto la mancanza dei propri affetti, ma il timore della consapevolezza.
In tal senso, più siamo occupati socialmente e non rimaniamo soli, più abbiamo la possibilità di evadere dai propri disagi.
La solitudine però può evocare aspetti contraddittori: chi colma il silenzio e la paura di affrontarsi con le appartenenze e chi si rifugia nel proprio intimo.
Questo, naturalmente, è strettamente correlato all’autostima e al modo in cui ognuno si vede.
Le persone hanno bisogno di intimità, di calore, un senso di valore e frequenti conferme della loro identità. Questa però non andrebbe ricercata nelle relazioni sociali, ma nel modo di percepire se stessi.
“L’incapacità di sperimentare la solitudine mette in discussione in modo appropriato la propria natura di essere sociale.” (Wood)
Rielaborare la propria storia e vissuto diventa un passaggio fondamentale; ragion per cui la solitudine può essere uno strumento per realizzare un vero incontro con il proprio sé, rivelare le emozioni che proviamo, sentiamo ed inventiamo e ridare valore al silenzio.
Così, saper stare soli diventa una risorsa preziosa, aiuta l’individuo ad integrare i pensieri interni con i sentimenti e, in tal modo, la solitudine non è solo un mostro dal quale fuggire, ma è anche forza e vittoria, conquistata dal riconoscimento di una propria individualità.
Francesca Scalera
Laureata in Psicologia clinica e della riabilitazione-
Tirocinante presso Studio Burdi
ContinuaLE SOMATIZZAZIONI
Quando la testa nasconde, il corpo parla e reagisce sempre
“Per cambiare il tuo corpo devi prima cambiare la tua mente”
“Mi sono svegliato di notte, all’improvviso, sentendo una fitta così forte vicino al cuore. Facevo fatica a respirare. Da lì, una corsa estenuante tra visite e analisi. Ma, nulla. Sono sano come un pesce, eppure ho pensato al peggio! Eppure, i sintomi li ho avuti! Come è possibile?”.
“Lo scorso anno, durante la quarantena, un giorno mi è saltato il ciclo, pensavo ad un ritardo dovuto dall’improvvisa perdita di peso o dall’insonnia. Uno, due, 7 giorni. Nulla! Allora ho pensato che la superficialità nel non usare precauzioni con il mio, da poco, ex ragazzo abbia avuto i suoi frutti.
Ma dopo mesi ancora nulla.
Eppure i sintomi pre e mestruali ogni volta erano presenti! Per questo ogni mese ero convinta che tornasse.
Così, mi sono fatta visitare e dopo tante analisi del sangue, tutto nella norma. TUTTO NELLA NORMA? Ma il ciclo non c’era! Oltre ai danni che può provocarne l’assenza, mi sentivo anche meno donna, come se mancasse qualcosa.
Mi è stata assegnata lo stesso una cura ormonale per cui inizialmente il ciclo è tornato (a stento).
Dopo un anno, però, sono di nuovo da punto a capo. Perché? Ho ripreso peso, dormo e mangio adeguatamente. Sto bene fisicamente ed emotivamente, credo. Poi, mi sembra di non passare un periodo stressante.
E allora che c’è? Dovrei rimandare dal medico!?!.”
Mente e corpo sono due realtà che non possono essere pensate in modo assoluto, bensì come parti integranti. Nonostante per decenni si è creduto nel dualismo tra mente e corpo, ad oggi, è noto, come questi siano strettamente legati.
Il corpo è la mente e la mente è il corpo.
Il corpo è lo strumento di comunicazione perfetto, ha un suo linguaggio, a volte ricopre il ruolo di “messaggero” e soprattutto non può mentire.
Laddove la mente non riesce ad elaborare o a riconoscere un disagio psicologico, il soggetto non può far altro che far parlare il corpo attraverso il ricorso alla somatizzazione. In questo caso il sintomo fisico si manifesta come un campanello d’allarme e costituisce un invito ad occuparsi di sé e del proprio mondo interno.
“Di emozioni si vive, ma ci si può anche ammalare”
Come sostiene Galimberti nel Dizionario di Psicologia (1992) la malattia si manifesta a livello organico come sintomo, e a livello psicologico come disagio.
Molte volte le persone che presentano sintomi somatici nel momento in cui si rivolgono allo psicoterapeuta o allo psichiatra si sono sottoposti già a svariati esami medici e, spesso, sono gli stessi medici che non trovando alcuna causa organica suggeriscono il consulto di uno psicologo.
Di norma, quando una persona sente di stare male o presenta manifestazioni fisiche si rivolge al medico e si sottopone, di conseguenza, a controlli, analisi o day hospital. Dai referti però non sempre viene riscontrata una patologia specifica. A questo punto il soggetto inizia, con ansia e preoccupazione, a destreggiarsi tra un esame ed un altro, sempre senza trovare alcuna causa ai sintomi, perlomeno di natura medica.
I sintomi fisici dunque, nonostante suggeriscano l’esistenza di un disturbo organico, sono il segnale di un disturbo somatoforme. Questi non derivano da una condizione medica, bensì dalla presenza di un disagio mentale.
Ciò che non si vede fa più paura di ciò che si vede.
Il soggetto si trova in una situazione nuova, alla quale non riesce a dare un significato. Alla sofferenza fisica si accompagnano anche difficoltà nelle attività di tutti i giorni. I sintomi influenzano non solo l’aspetto organico ma anche la sfera sociale, intrapersonale e lavorativa.
È doveroso specificare infatti, come i disturbi psicosomatici sono spesso associati alla presenza di un’altra condizione psicopatologia, quale l’ipocondria. Dati i sintomi lamentati il soggetto vive in uno stato di paura, di preoccupazione eccessiva e di ansia. Il soggetto non riconosce la natura psicologica del proprio disturbo, continua a cercare una motivazione medica e avendo il timore per il proprio benessere fisico, a volte, non crede neanche alle rassicurazioni mediche.
Dal punto di vista psicosomatico, l’ipocondria esprime la necessità del soggetto di occuparsi del proprio mondo interno, di comprendere ciò che accade nel proprio inconscio, ciò che la coscienza vede come un mostro.
In quest’ottica, l’elevata preoccupazione ed attenzione per il benessere fisico esprime il desiderio di conoscere se stessi.
Come è stato già sottolineato quindi, il nostro corpo ci racconta, traduce quanto accade nel nostro inconscio e da voce alla nostra sfera emotiva. Ogni sintomo riguarda anche il nostro mondo interno, per cui è possibile pensare al disturbo come un simbolo, un linguaggio, un modo di pensare e di stare al mondo.
Gli eventi passati, la rabbia, l’ansia, i propri desideri o opinioni per esempio, si trasformano in atteggiamenti con cui affrontiamo la vita. Gli atteggiamenti che assumiamo si riflettono nel tono di voce, nella postura, nel modo di camminare, ma anche per esempio nella sessualità, determinano il modo di agire ma anche di relazionarsi.
Per affrontare i disturbi psicosomatici quindi, è importante spostare la propria attenzione dal piano fisico a quello più profondo, identificare (grazie allo psicoterapeuta) gli eventi, le paure e le fantasie che la persona sta cercando di gestire senza esserne consapevole, i mostri che la coscienza si rifiuta di portare a galla.
Francesca Scalera
laureata in psicologia clinica e della riabilitazione – Tirocinante Presso lo Studio BURDI
ContinuaPERMALOSO E SUSCETTIBILE
Permalosità e suscettibilità: E le due facce della stessa medaglia.
Uno scherzo, una parola di troppo o detta in modo fraintendibile, una critica innocente, una battuta o un’osservazione non richiesta… sono tutti aspetti comuni in un dialogo e che, di norma, non recano alcun danno. Per i soggetti permalosi e più suscettibili, invece, tutto ciò può essere motivo di offesa se non un attacco alla propria persona.
Andando ad analizzare l’etimologia del termine, Treccani definisce un soggetto permalóso: “Una persona facile a offendersi, che, per eccessivo amor proprio, si risente e s’indispettisce di atti e parole che altri non considererebbero offensivi (e che per lo più non sono tali nelle intenzioni)”.
Andando a fare un’analisi psicologica, piuttosto, è importante notare come la definizione sopraindicata sia incompleta e parziale. Infatti, contrariamente all’inciso “per eccessivo amor proprio”, la causa primaria di un comportamento permaloso e suscettibile è la mancanza di autostima.
I soggetti permalosi mettono in atto un meccanismo di difesa quale la proiezione. Questo meccanismo può avere dei risvolti sia positivi (si pensi all’empatia), che negativi, come in questo caso. Il soggetto allontana da sé un contenuto psichico che non è accettato e riconosciuto, spostandolo all’esterno…: “il cattivo sei tu”. In altre parole, i soggetti permalosi percepiscono dagli altri le criticità e i presunti attacchi che in realtà risiedono dentro di loro. In questo caso, di fronte ad una parola fuori posto, gli altri diventano ostili, cattivi.
Allo stesso modo, quando una persona ha un’immagine di sé vacillante, cerca nell’altro conferme e gratificazioni. Questo, può influenzare i rapporti personali, le relazioni e le reazioni altrui, intaccando non solo la sfera sociale ma anche, per esempio, quella lavorativa o familiare. Inoltre, di fronte alla percezione di un’offesa da parte di un caro, il soggetto vive tutto in maniera più amplificata. In questo caso non solo aumenterà l’insicurezza e il disappunto verso se stessi, ma si avrà anche la sensazione di essere stati traditi.
“La persona sottopone il prossimo a una continua prova d’amore e ogni mancanza innesca forte delusione, senso di sconfitta, sfiducia e sensazione di tradimento.”
È bene sottolineare, poi, come la permalosità e di conseguenza la mancanza di autostima, abbia cause diverse da soggetto a soggetto (per esempio quelle dovute alla sindrome di abbandono), spesso radicate anche nella prima infanzia, oltre ad avere forme di espressione e reazione diverse.
Infatti, al contrario di un soggetto visibilmente fragile, la permalosità si presenta anche nei soggetti con un eccessivo (apparente) amor proprio, come nel caso di un narcisista. Il narcisista è un soggetto che, dietro le proprie fantasie di grandiosità, maschera un’autostima fragile, sentimenti di inferiorità e paura di un confronto. La permalosità di un narcisista spiega le reazioni di rabbia ad un presunto attacco, ad una critica o un disaccordo, data dalla paura che possa vacillare la propria corazza.
Uno dei massimi studiosi della patologia narcisistica, Heinz Kohut, afferma che tali reazioni hanno “l’obiettivo inconscio di cancellare l’offesa di chi ha osato opporglisi, incomprendere, dissentire o fargli ombra”, così da non dover affrontare e mascherare la propria insicurezza.
Facendo testo alla sindrome dell’abbandono sopracitata poi, i soggetti in questione sono alla continua ricerca di approvazione e gratificazione. Una critica e una presunta offesa, seppur minima, possono portare in memoria le sensazioni di abbandono e tradimento, scalfendo ancora di più la propria autostima e la propria immagine.
Francesca Scalera
laureata in psicologia clinica e della riabilitazione – Tirocinante Presso lo Studio BURDI
ContinuaLA DIPENDENZA AFFETTIVA
“La dipendenza affettiva presenta una terribile limitazione, l’incapacità di essere davvero felice, arginata solo da un rimedio: l’altro.”
Dire basta alla dipendenza affettiva. Imparare a credere in se stessi- Marie-Chantal Deetjens.
LA DIPENDENZA AFFETTIVA
La paura del vuoto e una crepa nel processo dell’ identificazione personale
La dipendenza affettiva, in inglese love addiction, rimanda ad una tipologia di relazione che può essere definita disfunzionale e disturbata. Questa, infatti, si distingue per una situazione di svantaggio del dipendente e da un rapporto “a senso unico”, in particolar modo per colui che sviluppa la dipendenza.
Chi soffre di dipendenza affettiva si sente inadeguato e non degno di amore e vive costantemente con il terrore di abbandono.
È noto come nei rapporti amorosi vi sia la prima fase di “idillio”, la fase di amore romantico, costituita da estrema felicità, passione, euforia e idealizzazione del partner. Durante questa fase alcuni autori (Aron, Brown, Fisher, Xu), hanno individuato in alcuni individui la presenza di sintomi caratteristici dei disturbi di dipendenza, tra cui euforia, desiderio, tolleranza, dipendenze emotiva e fisica, ritiro e ricaduta.
Quando le connotazioni più dipendenti diventano prerogative e necessità assolute, vi è la possibilità di cadere nel versante più disfunzionale del rapporto, quale la dipendenza affettiva patologica.
Il rischio di maturare una dipendenza affettiva, infatti, deriva dalla capacità di entrambi i soggetti di riconoscere la propria individualità e rispettarsi come individui separati.
È utile notare che, in lingua inglese, il termine addiction richiama una condizione generale in cui la dipendenza psicologica esorta alla ricerca dell’oggetto di interesse, senza il quale la vita mancasse di valore.
Il soggetto dipendente si basa su una profonda paura dell’abbandono e fa qualunque cosa per evitarlo, oltre ad una condizione di vuoto emotivo interno che cerca di compensare. Nonostante provino sentimenti negativi come tristezza, disperazione e insicurezza, la loro intensa paura della rottura contagia il legame emotivo, rendendoli vulnerabili, patologici e deleteri. La paura della rottura è tale che rimangono in relazioni che causano loro disagio, sacrificando i propri desideri e bisogni e portando al deterioramento della loro qualità di vita.
La dipendenza affettiva si presenta, quindi, come un modello disadattivo della relazione che determinata una condizione di angoscia clinicamente significativa e deterioramento. La mancanza della persona amata può essere sovrapponibile ai sintomi tipici dell’astinenza da sostanze: ansia, irritabilità, rigidità, sensazione di vuoto e la lacerante ricerca dell’altro (craving). Allo stesso modo lo sviluppo della dipendenza si può caratterizzare da ripetute deprivazioni o rotture del rapporto. Come nella dipendenza da sostanze però, la negazione non fa altro che aumentare il desiderio e quindi aumentare drasticamente lo sviluppo della dipendenza. Così, il dipendente è alla continua ricerca della relazione, nonostante l’esistenza di problemi creati dalla stessa.
Freud parlava di coazione a ripetere, ovvero la tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze. Così, la persona dipendente ricerca inconsciamente un partner che possiede già tutte quelle caratteristiche che la porteranno a soffrire. Anche nel caso di rottura il soggetto andrà a cercare una nuova relazione in cui metterà in atto le stesse dinamiche.
Nella costruzione dei rapporti affettivi, quindi, un elemento fondamentale è la formazione dell’immagine di sé a partire dai processi di separazione e individuazione, che sfociano in quello di “identificazione personale”.
A tal proposito è possibile far riferimento alla piramide dei bisogni di Maslow (1954) che inserisce al quarto e al quinto posto i bisogni di appartenenza ed autostima.
La scarsa autostima spinge il soggetto dipendente a leggere la scarsa disponibilità del partner non come informazione sull’altro, ma come un’errata visione di sé (“non mi ama perché io non vado bene”).
La dipendenza affettiva nasce prima dell’inizio del rapporto di coppia. Questa, affonda le sue radici nel rapporto genitoriale durante l’infanzia. La qualità dei rapporti primari, infatti, determina la strutturazione dei legami futuri, in particolar modo in riferimento agli stili di attaccamento.
Chi da adulto sfocia in una dipendenza affettiva, quando era bambino ha ricevuto continui messaggi da parte dei propri genitori di non essere degno di amore né di attenzioni. Spesso sono stati dei bambini che, per essere accettati si sono trovati a dover dimostrare sempre qualcosa, imparando che l’unico modo per essere amati è quello di sacrificarsi ed annullarsi per l’altro.
È l’esempio di una paziente che, nonostante abbia chiesto aiuto per la propria dipendenza affettiva dal partner, durante una seduta di gruppo si presenta descrivendo anche il complesso rapporto genitoriale; la pressione di questi, la conseguente sensazione di inadeguatezza e la continua sensazione di dover dimostrare e raggiungere un obiettivo per la soddisfazione di tali.
L’elevata ansia per l’abbandono, un alto desiderio di vicinanza, intimità, impegno e preoccupazione ossessiva, veicolano la differenza tra l’attaccamento ad una persona e la dipendenza i quali, sembrano avere un confine molto sottile.
È stato dimostrato come il tipo di attaccamento influenzi l’espressione funzionale o disfunzionale della rabbia. A tal proposito, le persone che hanno maturato un attaccamento preoccupato, predominante nella dipendenza emotiva, sono inclini a provare maggiore rabbia e l’impossibilità di regolamentarla.
“La rabbia ha una cattiva reputazione, è spesso associata a violenza e aggressività ma anche questa emozione può avere risvolti positivi. La rabbia può essere canalizzata per far rispettare i propri diritti e apportare cambiamenti intorno a noi”.
A seguito di un rispecchiamento nel corso della seduta di gruppo, un paziente, che può vantare ad oggi di un grande percorso di cambiamento, racconta di come la presa di consapevolezza e l’espressione della rabbia prima repressa sia stata un punto importante nel proprio percorso.
Questa carica emotiva, diventa funzionale e fondamentale nella tutela dei propri limiti e bisogni, e si struttura come difesa del proprio valore personale.
Al contrario, è possibile osservare come nei soggetti incapaci di amare se stessi esprimono un tipo di rabbia “disfunzionale”.
Dunque, la riflessione conseguente alla presenza di una dipendenza, affettiva e non, si orienta alla ricerca delle motivazioni profonde ed intrinseche (piuttosto che alla sola soluzione) che spingono il dipendente a relazioni deleterie e disfunzionali. È come se la persona avesse imparato a recitare solo e sempre lo stesso copione: per cambiare bisogna arricchirne le trame ed i personaggi.
Francesca Scalera
laureata in psicologia clinica e della riabilitazione – Tirocinante Presso lo Studio BURDI
ContinuaL’ ELOGIO DELL’ INCOERENZA
L’ ELOGIO DELL’ INCOERENZA
L’ unica coerenza umana, è l’ incoerenza.
L’ incoerente è colui che una volta scelto, risceglie, una volta detto, ridice, non rinuncia a rivisitare la sua opinione, le sue comprensioni e deduzioni, a sbagliare di proprio;
l’ incoerente è il solo in grado di sapersi mettere in discussione, ha carattere ed individualità creativa. Cambia idea parallelamente con le situazioni che cambiano e si evolvono, è un adattato capace di rispondere alle metamorfosi, è malleabile ed elastico ai contenuti del divenire.
L’ incoerenza è la prerogativa delle nuove conoscenze e dell’ essere emancipati.
La persona perfetta è pretenziosa, non gli bastano mai le conferme, può fare di più, è malato di dovere, ti mette in riga, suggeziona, genera imbarazzo, è un narcisista, ti parla con gli occhi, è sufficiente o scarso ma si sente primo, punta il dito, ti fa sentire ultimo, out, fuori luogo, fuori legge, sregolato, inappropriato, inadeguato, annoia, suggestiona, stanca, è un tribunale inquisitore, è un dominus, un alter ego, un ego partes, guarda dall’ alto della sua fragilità, perché sta fuori dall’ umanità.
Bacchetta, è severo, boccia e promuove chi gli è riverente, adora le penne rosse, sottolinea, cancella, strappa la pagina, cerca cavilli, il pelo nell’ uovo,usa il registro, le note disciplinari, ha l’ alibi perfetto per inchiodarti, ti blocca, ti sblocca, ti inquadra, cerca la pecora nera e
l’ ago nel pagliaio, ma la sua insicurezza è la sua perfezione perché se esce dalle righe si confonde ed impazzisce, pronto a giustificarsi, non può avere dubbi se inciampa, non deve zoppicare, ha la pancia in dentro e la testa irta,nega l’ evidenza, ha l’ alibi nel cappello, è aggrappato ai luoghi comuni, agli stereotipi e alle etichette, ha lo standard che gli fa da stampella.
L’ uomo perfetto è un uomo di parola, è un obbligato, non viene mai meno, anche se gli eventi e le persone cambiano, resta un uomo d’ onore, deve mantener sempre fede agli impegni dati, se venisse meno non reggerebbe le critiche, perché la gente parla, mentre il mondo è cangiante, l’ uomo di parola, rimane fedele, per questo disadattato ed inappropriato, perché subisce i cambiamenti, mentre mantiene la propria posizione, realizza che agli altri è dovuto, mentre lui è tenuto; realizza tutto da solo, il suo più elevato stato di sottomissione ed ingiustizia nei propri confronti, l’ eziopatogenesi della sua malattia.
La persona perfetta non deve fare una grinza, non fa una piega, non fa una pippa, squadra rapporti gognometrici, applica gli algoritmi alle relazioni, non esce dal rango, biasima chi cambia idea, posizione e connotati, è eccessivo ed un ossessivo del controllo, è un tradizionalista, ció che è vecchio gli risuona stabile e conosciuto, mentre percepisce il nuovo come un pericolo da evitare.
Il perfetto aborra e odia l’ incoerenza, è un fanatico ed un fedele della coerenza, la coerenza è la sua religione, l’ incoerente è un pericoloso peccatore, indeciso, è un debole perchè è un essere umano, perché la sua carne è debole, il desiderio è un demone, il gusto una tentazione.
Il coerente è un conformista, ma ha finito di vivere, come un vecchio, vive del passato, è ossessionato dalla gente, da cosa essa possa dire, si ammala di noia e di immobilismo, è frenato verso le proprie prospettive.
La minaccia di poter cambiare, di potersi mettere in gioco, lo spaventa, lo fa rammaricare ed ammalare, per auto sabotare e frenare le prospettive sospirate. La malattia è la sua risposta, come un alibi, alla paura del cambiamento, vissuto come una minaccia di squilibrio, pur ideato per la sola sua emancipazione.
L’ incoerente è il vero uomo, smette di fumare e se ne ha voglia riprende, moderato per il solo piacere e il solo sapore.
L’ incoerente è uomo perchè inizia cento volte la dieta, e fa la molla con il peso, si rifà la dose, si rifà del suo problema, ed in itinere ne comprende i motivi e magari ne esce, perchè scopre che non è la dose il suo vero problema, ma quali ricordi ha, lui chi è e quale tipo di vita fa.
L’ uomo incoerente è uomo, perchè ascolta le follie del suo traffico mentale, e finalmente agisce ciò che non sono gli altri, perché è stanco di chi interferisce e frena la sua corsa, e se poi perde le staffe nella sua follia, decide che delle briciole non sa più che farsene e pretende poi il pane, il panificio e la cassiera, perché da coerente al problema, diventa incoerente della soluzione, da zerbino, all’ azienda che è, dall’ idea, al progetto, al plinto,dalla linea contorta della sua vita, al mattone.
L’ uomo perfetto ostenta, per il suo consenso sociale, lavora per un uomo nigliore di se, perché quello che è, non va bene, non si accetta,
è il peggiore di se, fa una vera lotta per non subire il giudizio degli altri, ma la vera lotta è contro di se, è accettare le sue incoerenze. Taglia, scolpisce, retifica, castiga, smussa le altrui identità per smussare se, in un esercizio di sottile potere. Quando gli altri non vengono accettati, è per la difficoltà di accettare i limiti di se, percepiti negli altri. Lui e gli altri sono degli uguali rifiutati.
L’ uomo per sua natura è inquieto, non è mai statico, è incoerente sempre, perchè è sempre alla ricerca del suo benessere, non è mai quello di prima, è mimetico, ha risorse inesauribili e diverse, per questo è cangiante e se si mimetizza vive, ma se si fa notare e si fa scoprire, rischia di morire e la sua mimetica lo rende sempre diverso da prima, incoerente.
L’ uomo sano è incoerente, perchè non dichiara fedeltà alla sua malattia, perché inaccettabile ed allontana i deliri altrui, è inaccettabile perché non si confonde con le loro identità, consapevole di non appartenere alle ingegnerie delle loro malattie. L’ incoerente smonta nella sua testa i bulloni e le carpenterie degli schemi altrui.
Ogni trasformazione che la vita in divenire ci ripropone o ci impone, rappresenta una forma di incoerenza, perché ci impone sempre una emancipazione dal passato verso il presente, ed è per questo che ci propone e ci impone una incoerenza continuativa nell’ essere sempre diversi da prima di come eravamo. Nulla è mai uguale a prima.
La natura, in tutto ciò, ci fa da maestra. L’ evoluzione della specie umana ci insegna che non siamo più Homo di Neandertal, ma Homo Sapiens, così come, nell’ epilogo della storia biologica, cambiano e si trasformano i virus e i batteri, la tecnologia, le reti, i social, le app, cambiamo favolosamente noi, e le loro trasformazioni sono le nostre trasformazioni; così in primavera, dalla morte dell’inverno, incoerentemente esplode la vita, in un meraviglioso fior di mandorlo.
giorgio burdi
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