Incesto Affettivo
Quando in una relazione interpersonale di amicizia, amore, genitore-figlio…una persona dipende completamente dall’altra o entrambe hanno dipendenza reciproca, in psicologia si parla di simbiosi, termine di origine greca, da Symbiosis che significa convivenza.
La simbiosi è caratterizzata da un comportamento di stretta dipendenza; è una forma di pensiero che si instaura sin dall’infanzia a causa di un disfunzionale rapporto con il genitore, prevalentemente la madre, e di una mancata differenziazione del sé.
È opportuno distinguere forme sane di simbiosi, da altre patologiche. Sicuramente il rapporto genitore-bambino in cui quest’ultimo necessita della presenza e dell’aiuto del genitore per sviluppare risorse personali che progressivamente lo renderanno autonomo e indipendente, è una forma di simbiosi sana.
Si consideri che il bambino è dipendente dal proprio genitore nei primi anni di vita, da lui dipendono i suoi bisogni primari e il suo benessere generale. A partire dall’adolescenza, invece, vi è una graduale scissione del rapporto di dipendenza in quanto si cerca la propria individualità e il proprio vero essere, si prende consapevolezza di essere diverso dagli altri.
Tuttavia, i bambini che durante l’infanzia non hanno soddisfatto alcuni bisogni, cercheranno in età adulta di soddisfarli instaurando relazioni simbiotiche che ripropongono il rapporto genitore-figlio. Questo accade perché gran parte degli individui, cerca in maniera inconscia, situazioni uguali a quelle di cui ha fatto esperienza, che già conosce e che molto spesso considera e ritiene le uniche possibili.
Diversi studi sulla simbiosi e sull’attaccamento dimostrano che una sana relazione simbiotica tra madre e figlio oltre ad essere fondamentale per la sopravvivenza del bambino lo è anche per il suo sviluppo emotivo e psicologico, affinché si senta sicuro di sé anche in assenza del genitore.
Bambini che hanno avuto genitori iperprotettivi, per esempio, si sentiranno sempre insicuri e dipendenti da qualcun altro. Instaureranno in età adulta relazioni simbiotiche confidando nell’altro e affidando all’altro la loro salvezza, perdendo la propria individualità e svalutando così inconsapevolmente le loro risorse e capacità di persona adulta.
In età adulta, dunque, la simbiosi è molto spesso alimentata dal bisogno di appagare personalità immature che svalutano e non riconoscono il proprio potenziale.
Il rapporto simbiotico genitore-figlio, normale e indispensabile durante l’infanzia, risulta invece insano e patologico quando non si ridimensiona con il tempo, manca l’individualità e prevale il mancato confine tra le due parti.
Capita molto spesso che genitori insoddisfatti e non in grado di ricoprire appieno il ruolo genitoriale, facciano ricadere sul figlio/a aspettative e proiezioni a tal punto da vederlo/a come un partner.
In questi casi l’affetto inappropriato, associare il figlio/aa un adulto al pari, esponendolo a confidenze e comportamenti inadeguati al ruolo, è paragonabile ad un incesto affettivo.
Si tratta di genitori narcisisti, immaturi, morbosi e patologici. Il copione è sempre lo stesso: una madre o un padre insoddisfatti del partner e che attribuisce al figlio/a il ruolo di sostituto.
Venendo meno una vita di coppia significativa, i genitori investono il loro potenziale emotivo e affettivo sul figlio/a creando un coinvolgimento. L’amore dato da questi genitori è egoistico, nasconde bisogni d’amore frustrati. Tutto deve essere conforme alle loro attese, ai loro modelli ideali, diversamente subentra la delusione che innesca il senso di colpa e di inadeguatezza nei figli.
Una madre che vive un incesto affettivo con il figlio non gli permetterà di fare esperienze e sperimentare, tenderà a farlo sentire incapace per poter, a sua volta, sentirsi sempre indispensabile.
Sarà invadente anche se il figlio creerà una propria famiglia e non gli permetterà di creare confini perché vorrà continuare a detenere il potere. Cercherà di manipolare e condizionare le sue scelte. Rinfaccerà i suoi sacrifici se non corrisponderanno a completa dedizione e gratificazione.
Un padre, invece, che riconosce la relazione affettiva con la figlia più intima di quella con la moglie, interferirà negativamente nello sviluppo affettivo e nella personalità della figlia che svilupperà un legame morboso e possessivo verso il padre anche in età adulta, rendendo difficile l’instaurarsi di una relazione equilibrata con il partner e di una sana sessualità.
In una relazione simbiotica malsana vi è una fusione completa di una parte o entrambe, il concetto di unione e del NOI domina e cancella l’IO. Relazioni di questo tipo sono disfunzionali e tossiche ancor più quando è solo una delle parti a subire la dipendenza dell’altro penalizzando la propria individualità, autonomia e realizzazione.
Colui che vive una relazione simbiotica irrisolta ha grosse difficoltà ad accettare l’allontanamento dell’altro o la separazione, prova un dolore insopportabile se ciò accade e questo a volte comporta comportamenti inadeguati o pericolosi per sé stessi e gli altri.
Se il distacco dal genitore non avviene in età adulta, questa forma di attaccamento e resistenza ad un’identità integrata e autonoma, diventa patologica e verrà inevitabilmente trasferita anche all’interno di altre relazioni instaurando simbiosi negative caratterizzate da dipendenza morbosa tanto da pensare di non poter vivere senza l’altro.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta Lazazzera
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
Il potere della sessualità
La sessualità è una realtà molto complessa nella dimensione umana. È la dimensione che caratterizza ogni individuo, è parte integrante della persona.
Quando si parla di sessualità, erroneamente si fa esclusivamente riferimento al sesso e agli organi sessuali, ponendo l’accento solo sugli aspetti fisici. In realtà la sessualità racchiude anche le emozioni, i sentimenti, le relazioni, l’intimità, l’istintività e tanto altro.
La sessualità è anche autoerotismo, è la relazione che abbiamo con il piacere e il nostro corpo.
La sessualità lega corpo, spirito ed emozioni pertanto richiede intesa e comprensione reciproca.
Nella sessualità si intrecciano tre componenti: la dimensione biologica, psicologica e sociale dell’essere umano.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità dà la seguente definizione: “La sessualità è influenzata dall’interazione di fattori biologici, psicologici, sociali, economici, politici, etici, giuridici, storici, religiosi e spirituali che arricchiscono e rafforzano la comunicazione e l’amore tra le persone”.
Nella sessualità, dunque, dobbiamo considerare il corpo che racconta il nostro essere nel mondo, la mente all’interno della quale nascono fantasie e desideri sessuali così come paure e preoccupazioni che riguardano la sfera sessuale, l’interiorizzazione di usi, costumi e credenze che influenzano il nostro comportamento.
Oggi, la parziale libertà sessuale raggiunta è il risultato di lunghe battaglie, mutamenti e trasformazioni culturali. Tuttavia, predominano due grandi correnti di pensiero in contraddizione tra loro, quella prevalentemente cattolica che non ha un atteggiamento positivo nei confronti della sessualità al di fuori della procreazione e quella laica che tende ad esasperare la sessualità nei suoi aspetti e valori.
Gran parte dei nostri comportamenti sessuali, così come delle nostre inibizioni, è infatti stata determinata dalle credenze, dalle tradizioni e dal contesto sociale e familiare di appartenenza, modelli che influenzano profondamente il modo di pensare, atteggiarsi e agire.
La sessualità è comunicazione, essa esprime il rapporto con il nostro corpo, la nostra psiche, la nostra storia familiare, le dinamiche relazionali.
La sessualità deve essere considerata un concetto dinamico, cambia a seconda dei cambiamenti personali in quanto l’essere umano è essere sessuato dalla nascita alla morte. Essa non può essere considerata unica, esistono tante sessualità quanti sono gli individui. Ognuna differente dall’altra a seconda della personalità, dell’esperienza e della conoscenza dell’individuo.
La sessualità è un elemento determinante del benessere dell’individuo, abbraccia la sfera personale dell’identità e del funzionamento sessuale, e la sfera delle relazioni interpersonali.
La salute sessuale, infatti, viene descritta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, come uno stato di benessere fisico, emotivo, mentale e sociale legato alla sessualità.
“La salute sessuale è l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettivi e sociali dell’essere sessuato, realizzata in maniera che valorizzi la personalità, la comunicazione e l’amore”.
Saper godere appieno della propria esperienza sessuale è un percorso con non poche difficoltà. Affinché ciò sia possibile, è indispensabile:
- avere buona conoscenza del proprio corpo e di sé
- saper entrare in intimità con sé stesso e con l’altro
- saper ascoltare le sensazioni fisiche e le emozioni
- avere la piena padronanza di un comportamento sessuale in armonia con l’etica personale
- svincolarsi da false credenze e condizionamenti psicologici che inibiscono la risposta sessuale compromettendo la relazione sessuale.
Una sessualità appagante contribuisce al benessere psicofisico, per contro una sessualità non soddisfacente può innescare malesseri o disturbi psichici.
Occorre mettere in discussione quanto avevamo appreso e fatto nostro perché condizionati, e assecondare le proprie capacità percettive. La sessualità deve essere vissuta come realizzazione personale.
La progettazione della propria realizzazione sessuale viaggia parallelamente alla ricerca della propria identità, all’idealizzazione di sé e al progetto di sé nel mondo.
Indubbiamente la sessualità è vissuta in modo differente tra uomo e donna. Per l’uomo la sessualità è una serie di atti sessuali distinti, mentre per la donna la sessualità è una parte del suo essere, della sua esistenza, qualcosa di unico e compatto.
La donna nel rapporto sessuale oltre alla presenza fisica dell’altro necessita della sua partecipazione emotiva, della sua dedizione, l’attività sessuale non riveste un ruolo centrale come per l’uomo. La sessualità femminile pretende la reciprocità, non si esaurisce nell’atto sessuale. La reciprocità è condizione imprescindibile per la realizzazione della sessualità.
L’essenza della sessualità femminile è la partecipazione totale, emotiva e fisica.
L’uomo ha una modalità sessuale prevalentemente fisica, soprattutto visiva. La donna, invece, ha una modalità sessuale più complessa e selettiva. Valuta il partner globalmente, ponendo particolare attenzione agli stimoli psichici, alla parte emotiva, più che a quella prettamente fisica.
Nella sessualità la donna dona all’uomo tutta sé stessa, l’uomo invece ha un coinvolgimento graduale. La sessualità maschile è dunque razionale, quella femminile è emotiva; gli uomini agiscono razionalmente per soddisfare un bisogno, le donne emotivamente.
Per la donna è indispensabile la connessione emotiva, per gli uomini invece non è condizione indispensabile. Mentre per una donna l’atto sessuale è una conseguenza di un coinvolgimento emotivo, di una connessione emotiva, per l’uomo l’atto sessuale e l’appagamento che ne deriva sono un modo per entrare in connessione con l’altro.
L’uomo, dunque, a differenza della donna è capace di separare il sesso dalle emozioni, prova quindi desiderio sessuale anche se non vi è un coinvolgimento emotivo.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta Lazazzera
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
La sana distanza dalla famiglia d’origine
Ognuno di noi è la sintesi complessa della comunicazione e dell’influenza di diversi sistemi, da quelli culturali di cui facciamo parte, alla nostra famiglia d’origine in cui siamo nati e cresciuti.
La famiglia d’origine è un elemento fondamentale della nostra vita, con tutte le sue particolarità e unicità è la parte fondante, il luogo in cui apprendiamo tutte le regole, gli schemi e i comportamenti che utilizzeremo nella vita.
Tutto ciò che viviamo sin da bambini in seno alla nostra famiglia d’origine, le esperienze emotive e i bisogni vissuti, diventa la base del nostro essere. Nonostante ognuno di noi abbia una predisposizione genetica differente, quello che ci accomuna è che tutti apprendiamo dai nostri sistemi di appartenenza; la genetica è dunque influenzata notevolmente da tutte le esperienze di vita vissute fin dai primi istanti della nostra esistenza.
L’ambiente che ci circonda ha un impatto notevole sulla nostra vita, immaginiamo quanto possa essere influente sulla nostra esistenza l’ambiente familiare che è l’ambito prevalente della nostra esperienza relazionale.
Molto spesso in famiglia viviamo esperienze importanti, alcune estremamente positive, altre difficili, altre ancora ci portano a vivere grande sofferenza.
La maggior parte delle volte questa sofferenza rimane impressa, facendoci del male e tenendoci legati a modelli di pensiero e azione che ci limitano nella vita.
All’interno del nostro sistema familiare apprendiamo automaticamente e inevitabilmente dei modelli, alcuni sono consapevoli e funzionali, altri sono inconsapevoli e disfunzionali.
Quest’ultimi ci portano a reiterare modelli nei quali siamo identificati, convinti che siano parte strutturata del nostro carattere. Sono modelli che ci fanno stare male, ci mettono in difficoltà e ci portano a riproporre schemi di comportamento e di pensiero che ci inducono alla sofferenza.
Osservando fin da bambini i nostri genitori, apprendiamo e impariamo da loro modi di fare, abitudini e consuetudini che inevitabilmente andremo a replicare. Con l’osservazione assorbiamo modalità di funzionamento che riconosciamo come nostre, costruiamo progressivamente negli anni tracce di memoria che tenderemo a seguire.
Gran parte di questa osservazione avviene, però, in un momento della vita in cui non abbiamo strutture cognitive adeguate a comprendere cosa realmente stia accadendo, a discriminare cosa sia giusto o sbagliato, utile o inutile.
Con l’età adulta, invece, il processo evolutivo che tutti noi siamo chiamati ad attraversare per diventare persone consapevoli, autonome e in grado di determinare il proprio destino, è quello di rileggere la storia familiare, comprendere cosa sia accaduto e riuscire così ad emanciparsi non tanto fisicamente dai nostri genitori, dalla nostra famiglia d’origine, quanto mentalmente.
Emanciparsi dalla propria famiglia d’origine non significa abbandonare i propri cari o non prendersi cura di loro nel momento del bisogno, neanche allontanarsi definitivamente, bensì consiste in un processo evolutivo di ognuno di noi per trovare sé stessi.
Nel processo evolutivo dobbiamo riconoscere ciò che abbiamo appreso nella e dalla nostra famiglia d’origine e decidere cosa vogliamo portare avanti nella nostra vita e cosa invece vogliamo trasformare.
Riuscire a comprendere quali sono i comportamenti che per antitesi si sono strutturati in noi o per analogia e modellamento come più frequentemente accade.
Un passaggio fondamentale nella vita di ognuno è riuscire ad individuarsi, rispetto al sistema familiare di appartenenza e all’ambiente che ci circonda. Individuarci rispetto al nostro sistema familiare d’origine significa riuscire grazie a un percorso di consapevolezza e trasformazione a riconoscere tutti i modelli, i modi di pensare e fare che abbiamo acquisito all’interno del nostro sistema familiare fin da bambini.
È fondamentale che ognuno di noi si fermi ad osservare i propri modi di fare e di pensare, i modelli di relazioni, e capire quanto essi possano essere riconducibili a sistemi appresi e interiorizzati.
Maggiore sarà la nostra consapevolezza, maggiori saranno le possibilità di lavorare su modelli e condizionamenti radicati, superandoli.
Emanciparsi non vuol dire dimenticarsi delle nostre origini, ma esplorarle, conoscerle, comprenderle e decidere cosa di esse ci è utile mantenere e portarci nella vita e cosa invece non lo è.
È come se dovessimo fare un trasloco e decidere cosa sia davvero utile mantenere e portarci dietro. Superare tutti i condizionamenti che non riteniamo più utili e funzionali per la nostra vita ci permette di focalizzarci su noi stessi e trasformare la nostra esistenza.
Differenziarsi dalla propria famiglia di origine significa riconoscere la propria unicità. La differenziazione del Sé è secondo Bowen, pioniere della Teoria dei Sistemi Familiari, la variabile della personalità più importante per il raggiungimento della salute psicologica e della maturità emozionale.
Molto spesso quando le relazioni familiari sono disfunzionali a causa di famiglie troppo invischiate o troppo disimpegnate, la crescita emotiva si blocca creando anche forme di dipendenza affettiva.
Attraverso il processo di maturazione, l’individuo sviluppa un senso del Sé differenziato da quello della famiglia di origine. Questo permette di integrare pensiero ed emozioni, e una maggiore capacità di relazionarsi agli altri.
Questo processo di trasformazione e crescita è un processo di individuazione fondamentale dell’essere umano, permette di vivere con maggiore tranquillità le relazioni.
È un obiettivo evolutivo importantissimo su cui ognuno deve imparare ad interrogarsi per vivere una vita più serena, piena di soddisfazioni e appagante.
Il grado di differenziazione dalla famiglia di origine, inoltre, incide notevolmente sulle relazioni, in particolare sulla coppia che ognuno di noi andrà eventualmente a creare. Non è possibile unirsi in modo soddisfacente con il partner se prima non ci si è separati dal contesto familiare d’origine.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta Lazazzera
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
Superare il rimuginare
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE IL RIMUGINARE
Cos’è il rimuginio
Il rimuginio è un processo mentale non funzionale e maladattivo. Possiamo paragonarlo a una spirale di pensieri ricorrenti, intrusivi, negativi e ansiosi che bloccano la nostra attenzione, ci intrappolano nella nostra mente, ci tengono ancorati al problema e ci allontanano sempre più dalla soluzione e dalla presa di decisioni.
Rimuginare significa preoccuparsi in modo ripetitivo di cose negative che potrebbero accadere in futuro, consiste nel prefigurare pericoli futuri. Quando invece si tende a riflettere continuamente e con insistenza sugli aspetti negativi della propria esistenza e quando i pensieri ricorrenti e intrusivi sono volti a un qualcosa accaduto nel passato, parliamo di ruminazione.
Il rimuginio è dunque un’attività anticipatoria, è il preoccuparsi di qualcosa molto prima. Consiste nel focalizzare l’attenzione su potenziali problemi futuri ben prima che si possano realizzare e ben oltre il potenziale rischio. È un atteggiamento perseverante, estremo e ansioso di preoccuparsi di cosa potrebbe accadere.
Lo scopo del rimuginio è quello di anticipare la minaccia e allo stesso tempo anticipare il modo di fronteggiarla o evitarla, costruendo mentalmente scenari per far fronte a situazioni potenzialmente pericolose e minacciose.
Durante il rimuginio agganciamo il pensiero negativo dandogli un valore di verità, questo porta una catena di pensieri sempre più negativi e ripetitivi. Anche il tentativo di trovare una soluzione, una spiegazione, diventa esso stesso motore di un nuovo giro di pensieri. La ricerca disperata di risolvere dubbi che appesantiscono la mente darà così luogo ad altri processi rimuginativi.
La persona che rimugina cerca di rispondere a un pensiero negativo iniziando a ragionarci sopra, elabora scenari negativi, li focalizza con immagini visive, elabora potenziali risposte. Il rimuginio è dunque un modo di ragionare faticoso: si cerca di risolvere la situazione quando concretamente non si può.
Rimuginando è come se bloccassimo la nostra mente in questo circuito di pensieri negativi e di ansia che rimane duratura e si aggrava nel tempo. Il rimuginio è un meccanismo sottostante ai disturbi psicologici come l’ansia e la depressione in cui il pensiero ripetitivo negativo viene percepito incontrollabile e produce prospettive distorte della realtà che alimentano stati d’animo negativi.
Esso, sebbene sia una forma di pensiero ripetitivo strettamente legato all’ansia, non è soltanto di tipo ansioso. Esistono diverse forme: il rimuginio desiderante, ossia quando torniamo con i pensieri e l’immaginazione su qualcosa che desideriamo, ma non abbiamo in quel momento, e pensiamo continuamente come poterlo ottenere; la ruminazione depressiva quando attiviamo catene di perché sui nostri disagi e sulle nostre problematiche, e la ruminazione rabbiosa che ha a che fare con una percezione di ingiustizia subita, di offesa o umiliazione ricevuta.
A prescindere dalle caratteristiche del rimuginio, esso è uno stile di pensiero che rende la vulnerabilità emotiva di ognuno più fragile e per questo è uno dei principali processi che prolungano e amplificano la nostra sofferenza psicologica.
Prolunga gli stati mentali spiacevoli, favorisce stati di insonnia, tensione, stanchezza, somatizzazioni, aumenta la sensazione di essere in pericolo, che ci sia una minaccia, un problema, e impedisce che la mente faccia il suo normale lavoro di autoregolarsi e transitare negli stati emotivi senza restare invischiata.
Il rimuginio è trasversale ad altre situazioni di sofferenza psicologica. Sicuramente è nucleo fondante dei disturbi d’ansia, ma interessa anche i disturbi del comportamento alimentare, il disturbo ossessivo-compulsivo, l’ipocondria, la fobia sociale e i disturbi di personalità.
In quanto processo mentale caratterizzato dalla ripetitività, il rimuginio provoca ripercussioni sullo stato emotivo e sulla personalità dell’individuo che entra in un circolo vizioso di pensieri ripetitivi e persistenti. Questa situazione prolunga l’umore negativo riducendo la capacità di attivarsi nella quotidianità, solidifica memorie negative.
Consuma le nostre risorse mentali, riduce l’attenzione, la concentrazione, la memoria, la nostra creatività, il pensiero diventa più astratto e si allontana dalla concretezza, ci rende indecisi perché alimenta dubbi e inibisce l’azione.
Cause
Nonostante il rimuginio sia uno stile di pensiero non funzionale, il rimuginare in alcuni casi ha una funzione specifica. In primo luogo, rimuginare crea l’illusione che si stia riflettendo sul problema; alcuni, infatti, credono che il rimuginio aiuti a risolvere ed affrontare le situazioni problematiche, preoccuparsi aiuta a risolvere il problema e a trovare la soluzione giusta. Ovviamente non è così, preoccuparsi troppo non dà gli strumenti per affrontare meglio il problema.
Altri ritengono che il rimuginio protegga dal soffrire troppo, è una sorta di scudo emozionale: se mi preoccupo delle cose negative che mi potrebbero accadere, soffrirei meno se mi dovessero accadere.
Un’altra convinzione del rimuginare è l’idea che farlo aiuti ad avere una conoscenza più approfondita di sé stessi, a non commettere errori e sbagli del passato.
Così come l’idea che rimuginare sostenga l’azione, cioè motivi ad agire. Spaventarsi delle conseguenze negative aiuta a spronarsi e motivarsi. In realtà rimuginare ostacola le capacità di concentrazione e non permette di agire.
È possibile, inoltre, ricondurre il rimuginio alla tendenza al perfezionismo, il timore dell’errore e la paura di dover affrontare una sensazione di fallimento.
Sintomi
Il rimuginio è già di per sé un sintomo che interferisce con il benessere psico-fisico della persona.
Chi rimugina ripetutamente può riscontrare diversi effetti negativi sulla salute e presentare sintomi di notevole importanza, alcuni di questi invaldidanti:
- Ragionamento perseverante e ripetitivo
- Pensieri sempre uguali
- Ragionamenti e dialogo interno
- Contenuti mentali negativi
- Pensieri incontrollabili
- Pensieri verbali e astratti
- Disturbi del sonno
- Ansia
- Depressione
- Irrequietezza
- Irritabilità
- Mancanza di concentrazione
- Affaticamento
- Somatizzazioni
Cura
La convinzione che il rimuginio sia incontrollabile è il primo fattore che sostiene la tendenza a rimuginare.
Scoprire di avere controllo sul rimuginio è un punto nevralgico dell’intervento per la diminuzione dello stesso e dell’ansia. Imparare a controllare il proprio rimuginio non significa non avere mai più pensieri negativi, cercare di sopprimerli ha un effetto boomerang, tornano nella nostra mente.
Dobbiamo imparare a lasciare scorrere i pensieri negativi, a non agganciarli, a non fermarli. Bisogna osservarli e trattarli per quello che sono, dei pensieri e non qualcosa di reale in quel momento.
Il rimuginio non è sempre presente nella nostra mente, questo significa che la mente è in grado di controllarlo. Rendersi conto di questo è il primo passo per mettere in discussione che il rimuginio sia incontrollabile.
Quando nella nostra mente affiorano pensieri negativi possiamo scegliere due strade: rimuginarci sopra, fissarci sul pensiero e creare una catena negativa di pensieri che porterà ansia e tristezza, oppure valutare il pensiero per quello che è, non come una realtà, ma come pensiero. Se non ha rilevanza pratica, spostare la mente nel qui e ora, così lo stato d’animo emotivo spiacevole transita, scorre e passa.
Quando il rimuginio diventa l’unico stile di pensiero per affrontare i problemi, le difficoltà, è opportuno modificarlo.
Come tutti i processi di pensiero, non si tratta di qualcosa di innato, bensì di appreso nel tempo dall’individuo, pertanto modificabile come qualsiasi altro comportamento.
Sicuramente la psicoterapia offre un grande aiuto perché lavora sulla ristrutturazione cognitiva. Aiuta a portare controllo sul pensiero, consapevolezza nell’identificare i processi negativi. Con una terapia cognitivo-comportamentale è possibile correggere gli atteggiamenti e modificare gradualmente il flusso di pensieri.
Il terapeuta attraverso tecniche psicoterapiche precise aiuta il paziente ad accogliere i pensieri intrusivi e lasciarli andare senza combatterli forzatamente. Promuove l’apprendimento di tecniche di problem solving per sostituire pensieri negativi e improduttivi con pensieri positivi e risolutivi.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta Lazazzera
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
Il primo colloquio
Nonostante la necessità e il bisogno di chiedere aiuto, spesso prendere contatto con uno psicologo/psicoterapeuta risulta difficile, è motivo di grande imbarazzo e preoccupazione.
Sicuramente il primo colloquio è il momento che spaventa di più, non sapere cosa ci aspetta induce interrogativi, dubbi, disorienta e alcune volte porta persino al ripensamento. Altre volte, invece, suscita curiosità e genera aspettative.
Il primo colloquio è il momento in cui si entra in contatto con lo specialista, è un momento fondamentale di incontro e conoscenza reciproca.
É il momento in cui si intersecano aspetti cognitivi ed emotivi. Questa condivisione pone le basi per un rapporto terapeutico, un’alleanza terapeutica.
Il colloquio clinico è lo strumento finalizzato a raccogliere informazioni utili alla valutazione del problema o del disagio psicologico per il quale il paziente giunge alla consulenza, implica la formulazione di una diagnosi e di un progetto di intervento.
1° STEP–PRIMO COLLOQUIO
La conoscenza si basa sulla raccolta del terapeuta del maggior numero di informazioni.
Il colloquio clinico, oltre a consentire la raccolta di informazioni derivate dai contenuti verbali, dai racconti, permette una conoscenza diretta del modo di relazionarsi del paziente.
Sostanzialmente il colloquio clinico è un “colloquio aperto”, non ci sono domande già predisposte, già formulate e che seguono un ordine preciso. Si lascia al paziente libertà di raccontare e raccontarsi, di organizzare liberamente il modo di esprimersi.
Tuttavia, parlare con uno sconosciuto di aspetti privati e intimi della propria vita può provocare imbarazzo, vergogna, uno stato di agitazione.
Il terapeuta, pertanto, avendo cura di mettere a proprio agio il paziente, inizia il colloquio con qualche domanda utile a rompere il ghiaccio, poi gli lascia spazio, ascolta quali sono i motivi che l’hanno indotto a chiedere aiuto, i sintomi, i disagi e la compromissione di questa situazione nella sua vita.
Durante il colloquio il terapeuta facilita l’espressione e il racconto, nel rispetto dei tempi e dei modi, dei silenzi e delle difese di chi ha di fronte. Accoglie il paziente e facilita l’interiorizzazione della fiducia da parte sua.
La qualità della relazione che si instaura consente al paziente un’espressione più libera e autentica di sé stesso.
La fase di ascolto è determinante, permette al terapeuta di percepire i segnali inviati dal paziente e unirli a quelli derivati dalla propria esperienza professionale, di valutare le reali motivazioni del paziente e la capacità di insight, ovvero la consapevolezza che il paziente ha del proprio problema.
Altrettanto importante per il terapeuta è l’osservazione del non verbale, il grado di adattamento alla realtà, l’atteggiamento del paziente.
2° STEP – TEST PSICOLOGICI
Le informazioni ricavate dai racconti del paziente possono essere formali, riguardare i suoi modelli comportamentali e di comunicazione, le sue convinzioni, i suoi pregiudizi o i suoi valori, i suoi vissuti.
Queste informazioni a volte sono esaurienti, altre volte parziali o poche chiare, distorte. In tal caso il terapeuta adotta tecniche per ottenere informazioni più chiare, guida il paziente attraverso domande specifiche, riporta il colloquio su aspetti poco chiari, somministra test psicologici.
Ci sono test psicologici di vario tipo, utili ad analizzare la personalità, lo sviluppo intellettivo ed emotivo, le abitudini o gli interessi. Generalmente viene somministrato un test di personalità che mette in luce il profilo, le caratteristiche più costanti nella vita dell’individuo, il modo di rapportarsi con gli altri e il mondo esterno.
Il terapeuta affianca il test a delle scale cliniche e ottiene dei risultati che descrivono sia la personalità del paziente, sia le caratteristiche di uno stato di malessere psicologico, ovvero la sua condizione sintomatica attuale.
Partendo dai dati emersi che mostra e descrive, il terapeuta conduce il paziente a riflettere e individuare le casualità che hanno determinato la condizione attuale, a valutarle e a stilare dei punti per un percorso terapeutico.
L’utilizzo di test psicologici è importante, oltre ad integrare le informazioni raccolte durante i colloqui, consente di ottenere nell’immediato una conferma o meno delle osservazioni cliniche.
3° STEP – DIAGNOSI
Il terapeuta unisce tutti i dati raccolti dal paziente, dai test somministrati, dalle esplorazioni nelle diverse aree (cognitiva, emotiva, comportamentale, interpersonale, ambientale) e concettualizza il caso, fa una diagnosi.
La diagnosi è il far luce sulle difficoltà del paziente, cognitive ed emotive, sui suoi vissuti. Essa non si limita alla classificazione dei sintomi o all’inquadramento di un disturbo, bensì tiene conto della complessità e unicità dell’individuo.
Consente di conoscere le risorse interne del paziente, gli interessi, le abilità, tutte quelli parti sane con cui allearsi per motivare al trattamento e per una buona riuscita dello stesso.
La diagnosi è utile perché permette al terapeuta di muoversi all’interno di un quadro di riferimento con criteri precisi e di pianificare un trattamento terapeutico corrispondente, al paziente di promuovere l’insight, la consapevolezza del problema.
4° STEP–INTERVENTO TERAPEUTICO
Ottenuto un quadro più completo, il terapeuta propone al paziente le aree di intervento, le strategie terapeutiche e il percorso terapeutico, predispone e concorda degli obiettivi raggiungibili e l’approccio psicoterapico da adottare per raggiungerli.
A seconda del caso, può consigliare una Psicoterapia individuale o di gruppo, una Psicoterapia di coppia o disgiunta, una Psicoterapia familiare, seguire un orientamento psicodinamico, cognitivo-comportamentale, sistemico-relazionale…
La Psicoterapia inizia quando vi è condivisione del piano di intervento individuato.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta Lazazzera
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
Superare l’autolesionismo
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE L’AUTOLESIONISMO
Cos’è l’autolesionismo
Con il termine autolesionismo si indicano tutti i comportamenti e gli atti intenzionalmente autolesivi verso il proprio corpo.
L’intento di chi soffre di autolesionismo è provocarsi dolore e danno fisico. Gli atti e i comportamenti autolesivi patologici sono classificabili in tre principali categorie:
autolesionismo moderato o superficiale
- tagli della cute con oggetti affilati come coltelli e taglierini
- perforazioni con punteruoli o altri strumenti appuntiti
- bruciature con oggetti roventi o marchiandosi con sigarette
- mordersi
- sollevare lembi di pelle
- grattare e raschiare la pelle
- conficcare le unghie
- strapparsi peli e capelli
autolesionismo maggiore
- ingestione di sostanze chimiche e tossiche
- ingestione di grandi quantità di farmaci e di alcol
autolesionismo latente
- mancata ingestione di cibo
- pratica smisurata di attività fisica
Tra le diverse forme di autolesionismo rientra anche l’autolesionismo stereotipico, ovvero tutti quei comportamenti ripetuti come morsi o colpi con la testa, riconducibili a un ritardo mentale, all’autismo o alla sindrome di Tourette.
L’autolesionismo interessa qualsiasi età sebbene ci sia una maggiore incidenza nell’adolescenza e nei giovani adulti, in prevalenza soggetti psichiatrici; tuttavia, può interessare anche soggetti affetti da disturbi d’ansia e depressione.
È una forma di auto-punizione in soggetti con un forte senso di colpa e con un’elevata autocritica. A volte è praticato solo per raggiungere piacere, in questi casi è spesso associato a pratiche sessuali.
Alcuni studi hanno riscontrato che molti soggetti praticano autolesionismo per emulare amici o parenti autolesionistici, altri che l’autolesionismo è un modo per rivendicare forme di discriminazione del proprio orientamento sessuale o del proprio credo, forme di pregiudizio nei propri confronti.
Contrariamente a quanto si possa pensare, raramente questi atti autolesivi sono tentativi di suicidio o chi li mette in atto ha tendenze suicidarie, essi hanno una natura diversa. Alcune volte, però, possono essere predittivi di tentativi di suicidio soprattutto quando vi è una progressiva desensibilizzazione al dolore fisico.
L’autolesionismo può essere a volte letale a causa di intossicazioni da farmaci o sostanze nocive, di un grave danneggiamento dei tessuti, a causa di emorragie provocate da tagli profondi o colpi alla testa.
Lo scopo dell’autolesionismo è indurre una sensazione positiva e ottenere sollievo da uno stato cognitivo negativo. Quando i pensieri negativi predominano, gli autolesionisti vivono un momento di crisi che non riescono a controllare e ciò li porta a provocarsi dolore. Il dolore induce da un lato uno stato di soddisfazione e godimento, dall’altro una perdita di controllo.
Per l’autolesionista procurarsi un dolore fisico e quasi sempre anche un danno fisico, è un modo per sentirsi meglio, per alleviare lo stato di angoscia che lo affligge, per provare un distacco emotivo.
Chi mette in atto comportamenti autolesivi lo fa per focalizzare l’attenzione sul dolore fisico spostandola da quello emotivo, da quello dell’anima. Il dolore fisico percepito risulta meglio controllato e tollerato rispetto a quello emotivo, rispetto al profondo vuoto interiore sentito. Il dolore fisico genera sollievo perché allontana le sensazioni negative, il senso di angoscia incontrollabile e insopportabile.
Gli atti autolesivi vengono quasi sempre utilizzati per attirare l’attenzione, sono una richiesta di aiuto manifestando un disagio. Chi li compie ha spesso difficoltà a riconoscere e gestire le proprie emozioni.
L’autolesionismo urla la sofferenza che non si riesce a comunicare a parole.
Cause
Alla base dell’autolesionismo c’è sicuramente uno stress emotivo imponente.
Chi mette in atto comportamenti autolesivi può aver vissuto traumi emotivi come la morte di una persona carao un aborto spontaneo e traumi fisici come violenza e abusi sessuali.
Anche situazioni difficili in ambito lavorativo, si pensi a un datore di lavoro opprimente, assillante, soffocante, che genera sottomissione, difficoltà e insuccessi scolastici, fenomeni di bullismo, problemi sociali, difficili relazioni, conflitti con i genitori o con il partner…possono indurre all’autolesionismo.
L’autolesionismo è spesso espressione di problemi di natura psicologica:
- Stati depressivi
- Ansia
- Accentuato senso di colpa
- Mancanza di autostima
- Disturbo borderline della personalità
- Disturbi dell’umore
- Perdita di controllo, impulsività
- Disregolazione emotiva
- Discontrollo degli impulsi
- Disturbi di personalità antisociale
- Sentimenti negativi verso il proprio corpo
- Disturbi alimentari
- Disturbi della condotta
- Tossicodipendenza
Sintomi
Le manifestazioni dell’autolesionismo sono:
- Pensieri autolesivi frequenti
- Difficoltà interpersonali
- Pensieri negativi prima del gesto autolesivo
- Preoccupazione incontrollabile per il gesto
- Presenza di tagli o bruciature sul corpo
- Tendenza a coprire le parti lesionate
- Continua autocritica
- Bassa autostima
- Disgusto verso sé stessi
- Tendenza a isolarsi
- Abuso di alcol o di sostanze
- Abuso di farmaci
- Tendenza a strapparsi i capelli
- Mangiarsi compulsivamente le unghie
Cura
In alcuni casi l’autolesionismo potrebbe richiedere un’ospedalizzazione immediata, si pensi all’overdose da farmaci, l’intossicazione da sostanze, emorragie a seguito di tagli profondi, gravi bruciature.
Sicuramente il punto di partenza per un’accurata pianificazione della terapia è la consapevolezza da parte degli autolesionisti di avere un disturbo e di necessitare di specifico supporto medico.
Generalmente il trattamento dell’autolesionismo prevede una collaborazione multidisciplinare tra psichiatra e psicoterapeuta.
Nello specifico la psicoterapia pone l’attenzione sugli aspetti irrazionali, aiuta il paziente a individuare e riconoscere quei pensieri intrusivi, negativi e distorti, che lo spingono a procurarsi un danno e del dolore. Lo aiuta inoltre a riflettere e lavorare sui sentimenti e sulle circostanze che precedono gli atti autolesivi.
Il terapeuta lavora sulla motivazione al trattamento, aiuta il paziente a sviluppare strategie utili a gestire le emozioni negative e gli stati di malessere che sono alla base dei comportamenti autolesionistici. Il lavoro è orientato a sviluppare emozioni positive che permetteranno di migliorare le relazioni e di arginare l’influenza delle emozioni negative.
A volte il terapeuta può coinvolgere nel percorso terapeutico anche la famiglia del paziente, affinché possa essere di supporto durante il percorso terapeutico. Ovviamente questo coinvolgimento risulterà inappropriato se dovesse emergere che l’autolesionismo ha origine da difficoltà e disfunzioni familiari.
La terapia di gruppo, in particolare, risulta essere molto indicata: rapportarsi e confrontarsi con soggetti che hanno vissuto o vivono situazioni simili rende più facile l’esternazione e la condivisione dei propri problemi.
Affinché ci sia riuscita della cura è indispensabile che ci sia continuità della terapia soprattutto per evitare le recidive che in questo disturbo sono molto frequenti.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta Lazazzera
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
Superare il lutto da separazione
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE IL LUTTO DA SEPARAZIONE
Cos’è il lutto da separazione
Quando si parla di relazione di coppia si evoca il concetto del “noi” sinonimo di unione, coesione, condivisione, integrazione fra le parti, complicità. Il “noi” racchiude un progetto condiviso di bisogni, esigenze, vissuti, desideri, e alimentato dall’impegno e dalla motivazione di entrambi i partner.
Il senso del “noi” prende forma costantemente se coltivato e nutrito quotidianamente di buoni propositi, cresce attraverso la comunicazione dei pensieri e degli stati d’animo di ognuno dei partner. La comunicazione è uno degli aspetti principali per la crescita della coppia, permette di conoscere e accettare l’altro con i suoi pregi e difetti, nonostante le diversità.
A volte però, per svariati motivi, il “noi” non è più condiviso nel tempo, non avvolge e nutre più la coppia, decade così come quel “per sempre” recitato e promesso il giorno del matrimonio.
La fine di una relazione di coppia, di un matrimonio, la separazione dal proprio partner, è un’esperienza difficile da affrontare e superare. Paragonabile a un lutto, è un distacco definitivo e doloroso da una persona importante che ha fatto parte della nostra vita.
La separazione è una perdita fisica e psicologica, con essa vengono a mancare tutte le certezze e le abitudini, a volte disfunzionali e spesso causa della rottura, ma inconsciamente rassicuranti. Questo provoca paura, solitudine, tristezza, fa vivere un senso di abbandono.
Chiudere una relazione genera un senso di sconfitta personale, fa sentire dei falliti, degli incapaci. Si perde il senso di unità familiare e tutti i progetti di vita futuri. Chiudere una relazione è quasi sempre una scelta sofferta da entrambi i partner. Se da un lato nella coppia generalmente chi lascia vive un senso di colpa e responsabilità, dall’altro chi subisce la scelta vive una sofferenza perché si sente rifiutato e crede impossibile la sopravvivenza senza il partner. Sicuramente il lutto da separazione viene affrontato ed elaborato da entrambi i partner seppur in modo differente.
Alcuni studi psicologici hanno riscontrato che l’elaborazione del lutto per la fine di una relazione avviene attraverso un modello ciclico che prevede tre emozioni: amore, rabbia, tristezza.
Inizialmente si sente nostalgia per la perdita, si spera che tutto possa sistemarsi, successivamente subentra la rabbia per il torto subito ed infine la tristezza legata allo sconforto e alla solitudine.
Alla fine di questo ciclo di emozioni si ha una visione più realista della separazione e si coglie l’opportunità di crescita personale che questa esperienza di vita, seppur dolorosa, ci offre. Non sempre però tutti riescono a superare queste fasi di elaborazione, a volte si resta intrappolati e si diventa vittime della rabbia e del rancore. In questi casi la separazione si trasforma in litigi e accuse di colpa, in una guerra alla ricerca di responsabilità.
Cause
I motivi che portano una relazione alla deriva possono essere molteplici. Sicuramente quando una coppia affronta una crisi è perché almeno uno dei partner non si sente più coppia, non riesce più a riconoscere quel senso del “noi”, quel senso di condivisione reciproca.
La fine di una relazione è dettata da innumerevoli motivi di diversa entità:
- La fine del sentimento d’amore che legava i partner
- Mancanza di comunicazione
- Mancanza di intimità
- Perdita di stima e di apprezzamento
- Mancanza di rispetto per l’individualità dell’altro
- Disinteresse del partner verso la famiglia, l’educazione dei figli…
- Infedeltà
- Invadenza delle famiglie di origine
- Incompatibilità di carattere
Quando una relazione finisce, a prescindere dalle motivazioni, è sicuramente responsabilità di entrambi i partner, non ci sono responsabilità unilaterali né ci devono essere deresponsabilizzazioni, si è parimenti responsabili.
Una relazione finisce quando non funziona già da diverso tempo, le motivazioni sono secondarie, non sono altro che un palesarsi della fine.
Sintomi
La separazione è un trauma importante per chi la vive, è fonte di grande stress. Diverse le emozioni e gli stati d’animo che si possono provare, così come i sintomi fisici e psicologici:
- Senso di smarrimento
- Perdita del senso dell’esistenza
- Senso di affaticamento mentale
- Confusione
- Apatia
- Senso di vuoto
- Sensi di colpa
- Sensazione di fallimento
- Rabbia
- Frustrazione
- Rancore
- Depressione
- Ansia
- Tristezza persistente
- Percezione di inutilità
- Insonnia
- Mal di testa ricorrenti
- Perdita dell’appetito
- Nausea
- Situazioni di abuso
- Tendenza a isolarsi
Cura
L’elaborazione del lutto da separazione avviene attraverso diverse fasi che conducono all’accettazione.
La letteratura insegna che si passa dalla negazione, il rifiuto per la separazione come meccanismo di difesa per non affrontare la sofferenza e il dolore, alla rabbia per il torto e l’ingiustizia subiti.
Chi vive l’abbandono da separazione spesso cade in uno stato depressivo, perde interesse per la vita, non ha più stimoli e vive un senso di fallimento e frustrazione. Altre volte, invece, vive una rabbia incalzante, vendicativa e furiosa.
Molto spesso la separazione rievoca traumi latenti come quello dell’abbandono, questo amplifica la sofferenza e il disagio.
In questa fase molto delicata è utile un supporto psicologico, un percorso di psicoterapia mirato ad una corretta gestione delle emozioni, della rabbia e alla presa di consapevolezza dell’accaduto.
La psicoterapia aiuta a dare un senso a quanto accaduto, a riconoscere gli schemi mentali e comportamentali disfunzionali nella relazione e le responsabilità di ognuno.
Aiuta a far emergere le proprie risorse e capacità in prospettiva di nuovi progetti futuri e a ridefinire l’individuo al di fuori della relazione
Elaborare il lutto da separazione con l’aiuto della psicoterapia, vuol dire trasformarlo andando oltre il dolore. Vuol dire trasformare la separazione in un momento di crescita, in un cambiamento.
Grazie alla psicoterapia la separazione può essere vissuta come un’opportunità.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta Lazazzera
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
Superare la fobia sociale
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA FOBIA SOCIALE
Cos’è la fobia sociale
La fobia sociale o disturbo d’ansia sociale è una condizione di disagio in situazioni sociali.
Chi ne soffre teme di essere giudicato negativamente dagli altri, ha paura di agire in pubblico, di mostrarsi imbarazzato, di apparire ridicolo e incapace. Non teme tanto la presenza di altre persone, quanto che tutta l’attenzione possa essere concentrata su di sé e che ci possano essere dei giudizi alla sua persona.
Molto spesso chi soffre di ansia sociale evita le situazioni temute di interazione, di tipo prestazionale o che comportano l’essere osservati.
Evita tutte quelle attività, anche della vita quotidiana, soggette a forme di giudizio da parte degli altri come mangiare o bere in pubblico, prendere mezzi pubblici, parlare di fronte a un gruppo di persone, scrivere o firmare in pubblico, telefonare in presenza di altri, esporre una relazione, intervenire durante una riunione di lavoro, essere osservati nello svolgimento di un’attività, essere presentati a un estraneo…
Alcune volte, anche semplicemente parlare con uno sconosciuto, chiedere informazioni o entrare in una stanza dove ci sono persone già sedute può generare ansia.
Tipica dell’ansia sociale è l’ansia anticipatoria ovvero l’eccessiva preoccupazione per una situazione temuta prima di affrontarla. Alcune volte l’ansia aumenta in modo esponenziale tanto da generare un attacco di panico.
Chi soffre di ansia sociale si mostra eccessivamente riservato in pubblico, ha una postura rigida e difensiva. Generalmente parla a voce bassa, mantiene a fatica il contatto visivo, diventa rosso in volto, a volte trema e balbetta.
In alcuni casi si ha la tendenza a bere alcolici o assumere sostanze con lo scopo di essere più disinibiti e affrontare così le situazioni.
L’ansia sociale influisce negativamente nella vita, nelle relazioni e nella carriera lavorativa.
Gli individui con ansia sociale sono portati a scegliere posizioni lavorative meno esposte al contatto sociale, senza performance pubbliche, ciò inevitabilmente limita le potenzialità e riduce le aspirazioni professionali.
Cause
Tra le cause dell’ansia sociale c’è la timidezza. Alcuni fobici sociali, infatti, sono stati bambini molto timidi. Ciò, tuttavia, non implica che tutti i bambini timidi diventino da adulti dei fobici sociali.
Sicuramente una timidezza patologica ha maggiori probabilità di trasformarsi in un disturbo d’ansia sociale.
Anche un’esperienza stressante o umiliante può essere causa dell’insorgenza di questo disturbo, così come aver subito una critica o un’aggressione.
La fobia sociale, inoltre, può essere secondaria e manifestarsi in presenza di altri disturbi quali la sindrome di Asperger, il disturbo ossessivo-compulsivo e il disturbo evitante di personalità.
Sintomi
L’ansia sociale è un disturbo molto frequente con esordio durante l’adolescenza o nella prima età adulta.
I sintomi percepiti sono fisiologici:
- Ansia
- Paura relativa a una o più situazioni sociali
- Palpitazioni
- Tachicardia
- Tremori
- Sudorazione
- Rossore del volto
- Tensione muscolare
- Vampate di calore
- Mal di testa
- Confusione
- Stordimento
- Secchezza delle fauci
- Malessere gastrointestinale
- Dissenteria
- Nausea
- Bisogno impellente di urinare
comportamentali:
- Evitamento di situazioni sociali
- Scarsa partecipazione
- Tono di voce sottomesso
- Evitamento del contatto visivo
- Capo chino
- Torcere le mani
- Parlare in modo formale
cognitivi:
- Senso di inferiorità
- Ipersensibilità al giudizio
- Disagio nel trovarsi al centro dell’attenzione
- Paura di essere considerato ridicolo, goffo
- Scarsa assertività
Cura
È molto importante trattare e curare l’ansia sociale per evitare l’insorgenza di altri disturbi come la depressione.
Le persone che soffrono di questo disturbo, lontane dalle situazioni temute, riconoscono molto spesso che le loro paure sono eccessive ed irragionevoli, ciò nonostante, non riescono a superarle, le amplificano e potenziano con le condotte di evitamento.
La cura del disturbo d’ansia sociale può prevedere una combinazione di trattamento farmacologico e psicoterapico.
La Psicoterapia offre un valido supporto al superamento del disturbo d’ansia sociale, aiuta a modificare i pensieri disfunzionali che generano ansia e offre strumenti per fronteggiare e affrontare meglio le situazioni temute.
Con l’aiuto del terapeuta chi soffre di ansia sociale lavora sui propri schemi cognitivi rigidi, supera convinzioni radicate e poco adattive come quella di essere continuamente osservati o sotto giudizio altrui.
Inizialmente la terapia individuale risulta essere un valido supporto, successivamente valutare la psicoterapia di gruppo offre importanti vantaggi considerata quest’ultima una situazione sociale.
L’esposizione dunque allo stimolo temuto, la presenza di un gruppo, di persone non conosciute, il dover parlare in pubblico, il confronto, produrrebbero una graduale desensibilizzazione, una riduzione dei sintomi quindi anche dell’ansia.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta Lazazzera
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
Superare l’agorafobia
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE L’AGORAFOBIA
Cos’è l’Agorafobia
Il termine agorafobia di origine greca, agorà (piazza) e phóbos (paura, fobia), significa letteralmente “paura della piazza”, ovvero degli spazi aperti e molto affollati. Tuttavia, è una situazione molto più vasta e complessa caratterizzata non solo dalla paura degli spazi aperti.
Gli agorafobici vivono situazioni di disagio, paura intensa e angoscia quando si trovano in spazi aperti così come tra la folla. Prendere un treno o un aereo, andare al supermercato, aspettare in coda, andare a teatro, al cinema, ad un concerto ecc… diventano situazione che generano ansia.
Molto spesso, chi soffre di agorafobia ha difficoltà ad uscire di casa da solo, necessita essere accompagnato.
Gli agorafobici hanno paura di non avere vie di fuga o di non poter essere facilmente soccorsi in caso di malore, questo li turba profondamente. Spesso temono anche il giudizio altrui se dovessero stare male in pubblico, vivono una sensazione di vergogna e frustrazione.
È frequente che chi soffre di agorafobia oltre a vivere situazioni ansiogene, venga colto da attacchi di panico, dunque evita gli spazi aperti e la folla perché teme di avere un attacco di panico.
In casi molto gravi, la fobia si scatena anche solo pensando a situazioni temute, di cui si ha paura.
La persona agorafobica cerca di evitare tutte le situazioni temute o cerca la continua presenza di qualcuno, ciò compromette inevitabilmente la quotidianità, la vita sociale e lavorativa. L’agorafobia può diventare un disturbo invalidante.
È possibile che l’agorafobia sia associata a depressione, comportamenti ossessivi e altre fobie come la fobia sociale.
Cause
L’agorafobia è spesso un disturbo secondario all’ansia, agli attacchi di panico e allo stress post-traumatico. Si sviluppa dunque come complicazione a questi disturbi.
Può essere conseguenza di un’esperienza traumatica vissuta durante l’infanzia e l’adolescenza, causa di un blocco della percezione di sé e delle proprie possibilità. In età adulta, anche la bassa autostima ha un ruolo di rilievo e contribuisce allo sviluppo del disturbo.
Eventi stressanti e traumatici possono essere causa dell’insorgenza del disturbo, si pensi a un lutto, alla perdita del lavoro, una separazione, un divorzio…
A volte la presenza di altri disturbi come l’anoressia, la bulimia, l’abuso di alcol o di droghe contribuisce e aumenta il rischio di sviluppare l’agorafobia.
In altri casi, invece, il malessere è associato a una paura generale per situazioni varie come le malattie, gli incidenti, la criminalità…
Sintomi
L’agorafobia comporta diversi sintomi fisici, psicologici e comportamentali:
- Ansia
- Angoscia
- Paura irragionevole, eccessiva e persistente
- Ansia anticipatoria
- Evitamento delle situazioni temute
- Paura e ansia sproporzionate rispetto al reale pericolo
- Attacchi di panico
- Tachicardia
- Respirazione affannosa
- Disfagia (difficoltà a deglutire)
- Senso di soffocamento
- Sudorazione
- Brividi o vampate di calore
- Mal di testa
- Nausea
- Vomito
- Vertigini
- Formicolio e prurito
- Intorpidimento
- Senso di svenimento
- Stato confusionale
- Senso di oppressione
- Disturbi visivi
- Disturbi uditivi, ronzio
- Pianto
- Timore di morire
Cura
La cura dell’agorafobia dipende dalla gravità del quadro clinico. A volte richiede la combinazione di un trattamento farmacologico e psicoterapeutico.
Risulta efficace una psicoterapia mirata e finalizzata al superamento della fobia.
La Psicoterapia aiuta il paziente a contestualizzare e razionalizzare la sua paura, offre gli strumenti per reagire ai pensieri ansiogeni e negativi associati al disturbo, induce e sviluppa nuovi modi di pensare e comportarsi.
Fondamentale è una graduale desensibilizzazione della fobia attraverso tecniche cognitive, comportamentali e tecniche di autocontrollo emotivo che permettono di ridimensionare l’ansia.
La psicoterapia può essere accompagnata a tecniche di rilassamento come training autogeno e yoga. In alcuni casi è stata riconosciuta valida e utile l’ipnosi.
Superare l’agorafobia è possibile.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta Lazazzera
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI
Superare la fobia degli insetti
Metodo di approccio di psicoterapia dello Studio BURDI
per
SUPERARE LA FOBIA DEGLI INSETTI
Cos’è la fobia degli insetti
Il termine fobia dal greco phóbos (panico, paura) indica una paura irrazionale, intensa, persistente e duratura per uno specifico oggetto, animale, luogo o situazione.
Si tratta di un timore esasperato, immotivato, esagerato e sproporzionato per qualcosa che non rappresenta una reale minaccia, non è un pericolo.
Seppur non ci sia una minaccia reale, chi vive una fobia si trova di fronte ad una situazione incontrollabile: ha grande difficoltà a controllare e gestire la paura, questo genera molta ansia.
Avverte un’ansia anticipatoria che lo induce ad evitare lo stimolo fobico, la causa della paura. Se, invece, non vi è possibilità di evitarlo, è molto probabile che l’ansia aumenti così tanto da generare una crisi d’ansia, un attacco di panico.
Tra le diverse fobie, la fobia degli animali è una delle più diffuse, in genere è circoscritta a una singola specie animale.
L’entomofobia, comunemente paura degli insetti, è una fobia specifica molto frequente.
Maggiormente diffuse sono l’aracnofobia, ovvero la paura dei ragni, e l’apifobia, la paura delle api.
Chi ne soffre prova paura, avversione e repulsione verso gli insetti. Teme di essere punto o morso, di contrarre infezioni o malattie. La paura può manifestarsi sia in presenza di un insetto, sia alla vista di un’immagine che lo ritrae che solo all’idea di trovarsi in un luogo o in una situazione dove ci sono degli insetti.
La fobia molto spesso può diventare invalidante.
A livello comportamentale chi soffre di una fobia specifica evita tutte le situazioni associate alla paura, ma alla lunga questo atteggiamento diventa una trappola, un circolo vizioso, oltre che rinforza inconsciamente la pericolosità di quanto evitato preparando così l’evitamento successivo.
Ed è così che l’evitamento amplifica la paura.
Chi soffre di entomofobia controlla l’ambiente circostante per assicurarsi che non ci siano insetti, è sempre in iper-allarme e iper-vigilanza. Questo molto spesso compromette le normali attività quotidiane, così come la sfera relazionale e lavorativa, vincola le scelte dei luoghi e nei casi più gravi porta all’isolamento.
Cause
Diversi studi hanno riscontrato come all’origine dell’entomofobia ci possa essere da un lato la paura dell’ignoto, di ciò che non si conosce e dunque non si può controllare, dall’altro l’associazione a ciò che è sporco e potrebbe trasmettere eventuali malattie o infezioni.
Generalmente la fobia specifica come l’entomofobiaha esordio nell’infanzia o adolescenza. Probabilmente a causa di un evento traumatico come la puntura di un insetto o a causa di un condizionamento. Durante l’infanzia, infatti, il bambino esplora l’ambiente con curiosità, non consapevole dei pericoli. Tuttavia, non sempre l’esplorazione e la scoperta gli vengono concesse. Si pensi ai genitori molto ansiosi ed allarmisti che impediscono il contatto del bambino con l’ambiente circostante e ciò che ne fa parte, come gli insetti.
I genitori condizionano il bambino e gli trasmettono la paura che si protrae anche in età adulta. Questa paura, se non controllata, può trasformarsi in fobia.
Sintomi
Chi soffre di una fobia specifica come l’entomofobia, avverte gran parte dei sintomi associati all’ansia e agli attacchi di panico, reazioni fisiche ed emotive e forme di ansia invalidanti.
Tra i sintomi:
- Paura e ansia verso l’elemento fobico
- Timore paralizzante
- Evitamento dell’elemento fobico
- Paura e ansia spropositate rispetto al reale pericolo rappresentato dallo stimolo fobico
- Paura, ansia ed evitamento persistenti
- Tachicardia
- Vertigini
- Attacchi di panico
- Senso di soffocamento
- Dolore al petto
- Agitazione
- Respirazione difficoltosa
- Sudorazione eccessiva
- Rossore
- Prurito immaginario
- Tremori
- Spossatezza
- Appannamento della vista
- Calo dell’udito
- Mancamenti/svenimenti
- Sensazione di perdere il controllo
- Disturbi gastrici
- Nausea
- Crisi di pianto
Cura
Nella maggior parte dei casi, in particolare negli adulti, chi soffre di entomofobia, ha consapevolezza che la sua paura sia immotivata e irragionevole, poiché non c’è un reale pericolo, ma al contempo non riesce a controllarla.
L’evitamento dello stimolo fobico è solo una momentanea via di fuga, ma non risolve il problema, bensì lo amplifica inconsciamente.
La fobia degli insetti può essere superata con percorsi terapeutici adeguati. Sicuramente la psicoterapia lavorando con la gestione delle emozioni, come la paura, ha un ruolo fondamentale. Grazie alla psicoterapia il paziente impara a riconoscere e a controllare gli stati emotivi e le manifestazioni d’ansia.
Importanti sono le strategie comportamentali che si mettono in atto attraverso la psicoterapia al fine approfondire la conoscenza della paura, contenerla e controllarla.
Con l’aiuto del terapeuta, inoltre, il paziente individua i pensieri disfunzionali e li sostituisce con pensieri reali corrispondenti alla reale pericolosità dello stimolo fobico, assumendo così un contatto diretto e realistico con il mondo circostante.
Sintesi a cura di:
Dott.ssa Elisabetta Lazazzera
Tirocinante di Psicologia presso Studio BURDI