
Mamma, ho il cervello fasciato!!
Un cervello fasciato è un giardino d’inverno, dove il vento si ferma sul bordo. Eppure, tra fasce e pensieri, un battito lento e rabbioso è il suono di un eco che accenna un abbraccio di aurora
Lo sguardo di un adolescente che si sente tra l’incudine e il martello. Si sente in gabbia. Incapace di essere sé stesso. Sempre con l’altro al centro, dando alle proprie preferenze e a sé stesso una priorità bassissima. In un loop ansia-dubbio-controllo-benessere, e di nuovo. Vuole avere tutto e tutti sotto controllo. Anche i genitori. Che forse percepisce come mine vaganti, nascoste sotto quello che ritiene un campo di battaglia e invece dovrebbe essere semplicemente il terreno fertile su cui germogliare. La rabbia sconsiderata che quell’adolescente mostra, spesso non è un pensiero con un significato, ma una azione che parla al posto suo. Quell’adolescente ad un certo punto trova, a modo suo, il coraggio di segnalare che la cosa non è più tollerabile.
Ma cosa passa nella sua testa? Raggiungerlo, là dove è lui e non dove vorrei portarlo io. L’ascolto vero. Non è ricerca di soluzioni performanti, né di risposte. E’ una semplice mano sulla spalla. E’ un incontro che accoglie e restituisce. Niente psicologia positiva. Niente puntare sulle sue risorse. Ma provare a riconoscere un po’ la sua emozione.
Questo modo di relazionarsi può sembrare di poco successo nell’immaginario collettivo, perché viene considerato una resa educativa. Poco funzionale alla evoluzione dei nostri figli, come se una sorta di durezza dei sentimenti dovesse avvolgere necessariamente la genitorialità, per favorire la gerarchia. Percepita come LA soluzione. Come se la gerarchia fosse quello di cui una giovane persona ha bisogno per esprimersi al meglio.
Provare a riconoscere le emozioni del proprio figlio credo che sia la cosa piu’ difficile per un genitore. Perché richiedeanche a sé stessi di sviscerare il proprio dolore, riconoscerlo e renderlo pensiero e racconto personale (non del propriofiglio), senza erigersi a detentore della verità. Andare a mettere mani nel proprio passato, non tanto per narrare la propria storia (che a dritto e storto ha una qualche forma di equilibrio), ma soprattutto per farsi adulto per il proprio figlio, evitandogli proposte di natura proiettiva, che ai suoi occhi hanno probabilmente tutta l’aria di essere sintonizzate con il proprio dolore di bambino. Come potrebbe abbandonarci nel nostro dolore che riconosce, senza sentirsi cattivo?! Ma come potrebbe accettare la nostra visione senza sentirsi senza via di uscita?! (Forse) La natura proiettiva delle nostre azioni di genitori non risolti, diventa un ostacolo ulteriore alla già difficile costruzione della propria identità, nell’adolescenza.
Cosa gli passa nella testa? Forse il timore di abbandonare e deludere quel genitore che riconosce ferito! Un pensiero inconscio, questo, che lo fa sentire non amabile ai propri occhi e perciò rifiutabile. Forse questa idea si accompagna al sospetto di non veder ricambiato il proprio sentimento per lui e alla prova provata che si possa essere abbandonabili e costantemente tradibili. È questo (forse) il quadro su cui si manifesta la rabbia di un “cervello fasciato”?
valeria carofiglio
tirocinante di psicologia
presso lo studio burdi
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