Alta sensibilità: Il Desiderio di Essere Capiti
“Certe volte mi piace starmene nella mia bolla. Dove sento più forte il suono del mio respiro. Dal dentro tutto sembra più morbido. Inoffensivo. Li’ al centro, all’altezza del petto ritrovo l’equilibrio, abbandono il bilico e mi godo la calma che cerco. Riabito il mio corpo. E mentre cammino, entro nel primo, poi nel secondo negozietto per fare la spesa e riconnettermi con l’esterno. Il panettiere mi saluta e scambio la prima parola. Parole che escono dalla ruggine di una macchina che fatica a riprendere il passo. Mi piace comprare il pane. Buongiorno signora. È la mano che mi tira fuori dal mare. Qualche passo ancora. Un’altra bottega. Buongiorno signora. Vibro un pochino di più. Qualche passo oltre sono a casa. Scrivo. Mi sento meglio. Inizio la giornata. E me ne frego.”
Quando ero piccola mia madre mi diceva che ero come un gas. Penso volesse dire che avevo dei contorni piuttosto sfumati, e nessuna forma precisa, e che piuttosto mi adattavo al contenitore che mi conteneva. Lei ci aveva visto giusto: credo di aver vissuto i miei primi 45 anni sempre nei panni di quelli che incrociavano il mio cammino: sentivo le loro paure, le loro intenzioni ed anche le loro passioni come fossero le mie. Sulla mia pelle. Era come se l’unico confine tra me e loro fosse la pelle e nessun altro costrutto!! Meno che mai i miei bisogni contrapposti ai loro. Loro erano attraenti e sentivo di esserlo anche io.Semplicemente imparavo a fare come loro, semplicemente li osservavo e ripetevo. Funzionava bene. E talvolta facevo pure meglio di loro. Ho imparato tante cose; avuto tanti successi e sagomato pezzetti di me. Ero abbastanza brava in tutto quello in cui mi cimentavo. Nessuno sapeva che senza volerlo, percepivoprofondamente e imitavo, piuttosto che seguire le mie attitudini.
I miei insegnanti dicevano che ero troppo emotiva. Anche loro ci avevano visto giusto: studiavo, ma la tendenza all’ansia mi faceva dimenticare. Facevo quello che dovevo, lo facevo abbastanza bene ma fino al terzo liceo non ho mai “spaccato”: mi ricordo il gesto della mano della mia professoressa di matematica. Le punte delle sue dita della mano erano verso l’alto e si toccavano l’una con l’altra a intermittenza. Voleva dire che si, studiavo, ma la sostanza non c’era; ma nemmeno ho mai peccato! Ero una “brava bambina”. Al terzo liceo sono stata bocciata. Non perché lo meritassi fino in fondo, ma un accordo tra i miei professori e mia madre voleva liberarmi dal faticoso recupero di quattro materie dovuto alle troppe assenze per malattia, che mi avrebbe fatto partire il nuovo anno scolastico già stanca. Nessuno si è accorto, invece, che io a scuola non volevo andare. Mi annoiavo. Ed ero sempre in ansia. Facevo una fatica pazzesca. La notte sognavo le interrogazioni. Avevo una paura costante. Ricordo il primo giorno della scuola elementare: sull’uscio della porta la maestra mi accoglieva con un sorriso; io guardavo tutti gli altri. Erano li da pochi minuti, come me; ma li vedevo interagire, divertirsi, come se si conoscessero da sempre; Io volevo solo scappare. Mi sentivo solo un narratore, ma dovevo essere un attore.
Mio padre diceva che ero troppo buona, ma in una accezione che non mi è mai sembrata abbastanza positiva. Insomma, forse mi si poteva rivoltare come un calzino e io me lo lasciavo fare; certamente i problemi degli altri li sentivo miei. Dovevo aiutarli. Un po’ più da grande, desideravo iscrivermi all’università di psicologia. Ma ancora mi rimbomba lo scherzo dei miei genitori: “con la tua sensibilità diventeresti oberata dai problemi degli altri. Loro si curano e tu ti ammali.” Dicevano.
Un ritratto ancora oggi appeso nel salone di casa dei miei genitori, fatto da mia madre, mi ritraeva col capo chino ed una espressione di tristezza che mi ricordo benissimo: era ampia, spessa, e a tratti rassegnata. Nei buchi ero facilmente irritabile e sempre arrabbiata.
Io mi sentivo semplicemente diversa e soprattutto sempre inadeguata: Io sentivo una moltitudine di stimoli provenienti da fuori e spesso non riuscivo ad organizzarli. Mi sentivo un senso di smarrimento ed avevo una costante domanda in testa: cosa è questa sensazione in cui mi perdo. Difficilissima da spiegare: la sua connotazione emotiva era del tutto simile ad uno stato di allarme continuo, confusa con uno stato di irritabilità altrettanto costante. E tutto rimbombava. Invece che trovare una risposta, mi saliva l’ansia, o la tristezza, o la rabbia o, ancora, il rimuginio. Costantemente. Ogni cosa che mi sfiorava, mi risuonava. Cercavo protezione. In ogni modo di essere “brava”, cercavo protezione. Cercavo di entrare nelle grazie dei miei genitori, e soprattutto di mio padre. Un suo appunto, una sua critica (e ne faceva di continuo)…. Mi ammutolivano e la vergogna e il senso di colpa mi dilaniavano (letteralmente) la pancia, allora, come in ogni epoca. La ragione di questo desiderio di approvazione costante. Era probabilmente dovuto al fatto che io per prima non credevo nel mio sentire.
Ma ero anche troppo testarda. E se qualcosa non mi andava a genio, lo faceva per ogni cellula del mio corpo. Non era un parere; diventava una questione, direi oggi, identitaria. Se qualcosa mi sembrava ingiusta, dovevo negoziarla, chiedere spiegazioni, parlarne, per dimostrare al mio interlocutore che, nella discussione, non si potevano tralasciare dettagli della narrazione che necessariamente avrebbero portato il mio interlocutore a cambiare la sua idea. Inutile dire: il mio interlocutore questo eccesso di dettaglio neanche lo vedeva, figurarsi se poteva crederlo. Non riuscivo a concepire questa a-sensorialità! I dettagli mi sono sempre arrivati. Prendevo l’autobus per andare a scuola. Aspettavo spesso alla fermata che ne arrivasse uno non troppo pieno: la folla mi disturbava. In quel tempo di attesa, guardavo ogni singola macchina che passava e le persone che erano dentro. Le loro macchine, le loro smorfie piccole e grandi, i colori che portavano…tutto balzava in un colpo d’occhio. Mi pareva di sapere chi fossero. Ovviamente non ho mai saputo se azzeccavo, ma per me non c’erano dubbi. Sentivo per grandi linee stati d’animo e livello di soddisfazione. Attribuivo loro una routine, un lavoro, una attitudine.
A certe mie reazioni esagerate la risposta era sempre la solita: Maturerà.
Questo è un luogo comune.
Io non sceglievo di essere cosi’. Io lo ero, direi oggi, fisiologicamente. E su quel “troppo” che per gli altri sembrava non accettabile, che faceva sorridere e minimizzare, non si poteva intervenire, se non con comprensione, accoglienza, amore. Tutte cose che, seppur presenti nella mia storia, in qualche misura dovevo aver ritenuto non sufficienti. Ho un ricordo nitido dell’imbarazzo ad abbracciare mia madre. Credo di aver cosi’ sperimentato il senso di abbandono, e il fatto che fossi sola. Ricordo che scherzosamente alludevo al fatto che certamente dovevo essere stata adottata.
Sono cresciuta e, come tutti si aspettavano, ero diventata socialmente matura e realizzata. Per scotomizzare la mia “immaturità”, seppur sperimentando il solito panico ad ogni prova, non solo ho conseguito una laurea (non in psicologia) e un dottorato a pieni voti (e per non sentire l’ansia ero stata proprio una secchiona.), ma in quel posto cosi’ “ostile” io ho deciso di rientrarci da professore; All’inizio ho faticato per superare la vergogna, ma poi, per un po’, la passione mi ha trascinato in un vortice. E non sentivo piu tanto disagio. Finalmente non mi annoiavano piu’. Mi sono sposata con un uomo ambito, ho fatto due figli meravigliosi. Sono andata a vivere in una mega villa. E avevo pure i cani da guardia. E ciliegina sulla torta: sembrava mi ritenessero una gran figa!
Percepivo solo una strana scomodità in tutto quello che facevo. Era tutto faticoso, sempre. E da un lato avevo imparato a dubitare di me; dall’altro continuavo ad ambire ad essere perfetta, per poter essere come gli altri: come la “normalità” impone, e poter superare definitivamente il mio senso di inadeguatezza ed abbandono. Per anni mi sono infilata in un ciclo in cui queste due cose si alimentavano a vicenda. Vulnerabile anche nelle relazioni di età piu’ avanzata, cercavo di tamponare come all’università, anche nella quotidianeità. Non mi presentavo mai ad una situazione senza aver (metaforicamente parlando) studiato dalla prima all’ultima pagina, parti speciali incluse. Altrimenti un senso di inadeguatezza mi pervadeva. Ero perfettamente incastonata in una vita da “persona altamente sensibile, corretta”. Come a volte accadeva a quei tempi: ero una mancina che imparava a scrivere con la mano destra.
Dopo pochi anni dalla nascita della mia seconda figlia, tutto l’accrocco vacillava. Io mi sentivo di scoppiare. Tutto è scoppiato. E ovviamente io ero la pazza!! Nella mia mente avevo imparato che ero solo una persona sbagliata (immotivatamente esagerata, sempre incazzata, sempre triste), con una bassa autostima, ed anche una bassa stime di se’, nonostante i successi. Una persona che per qualche subdola ragione, non aveva piu’ accesso a tutti quei dettagli. Che pensava a mettere la merce migliore sul bancone (quella brava bambina di sempre). Vulcanica. Sempre pronta a fare troppo per gli altri. Ma non era mai abbastanza. Chiedevo sempre il permesso di essere vista, o amata. Ero strana, come mi ha definito qualcuno.
Io non mi sentivo strana. Ma non compresa. Avevo a volte il bisogno di chiudermi nella mia “bolla”. Per respirare un po’.
Spesso mi sono sentita isolata. Soprattutto dopo momenti di grande sofferenza emotiva. E certamente, comprendo oggi, spesso sono stata lontana dai miei bisogni di rallentare, di focalizzazione sul compito da fare, di investire in relazioni che potessero consentirmi di essere me stessa, senza contaminarmi o intossicarmi.
….a mia figlia: Bambina Altamente Sensibile, il mio diapason. (ma questa è tutta un’altra storia J)
valeria carofiglio
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