Il viaggio delle emozioni, dai poemi omerici ad oggi.
VIVO LE EMOZIONI O LE CONTROLLO ? Il viaggio delle emozioni, dai poemi omerici ad oggi.
“Dell’Ira parlami, o dea, del pelide Achille”. Così recita il primo verso dell’Iliade. La parola greca “Ménin” è la prima della letteratura occidentale, ed il suo significato è “Ira.” e parla di emozioni .
Un’emozione, messa prima di ogni altra cosa. È risaputo come, nei poemi omerici, l’intero significato dell’opera sia racchiuso nel suo primo verso. Risulta chiaro che la scelta della primissima parola sia più che fondamentale: deve essere una parola forte, colma di significato.
Per l’Ilade, il poema più antico, questa parola è “L’ira”, quella di Achille. Per l’Odissea è “L’uomo”, ovviamente Ulisse.
Perché la letteratura occidentale incomincia con un’emozione? Perché nel mondo greco l’emozione era tutto.
Le conoscenze anatomiche non erano paragonabili a quelle odierne, ed era diffusissima l’idea che nel petto fossero custoditi gli organi centro della vita emotiva dell’individuo.
Il principale era chiamato “tumós” ed era il punto da cui partivano tutti gli impulsi, gli istinti, le emozioni incontrollabili. Questo “organo” è ciò che per tutta l’Iliade spinge gli eroi all’azione e alla decisione, come un’incontenibile divinità interiore, che comandava qualcosa a cui l’individuo non poteva sottrarsi.
Così era vissuta l’emozione: un comando proveniente dalle membra che non poteva essere contenuto, non poteva essere dissimulato o ignorato. Quando l’ira di Achille esplode, scatena una pestilenza che miete moltissime vite.
L’emozione è potente, inarrestabile, e così lo è l’uomo che da essa si lascia trascinare. Ma la vita di ciascuno era anche influenzata da forze esterne: le divinità.
Ogni azione nell’Iliade è il risultato tra lo scontro tra tumós, il “cuore” emotivo dell’individuo, e il volere divino. La vita dell’uomo è frutto dell’emozione e del fato: nulla di più.
Pensarla così oggi risulta molto difficile. Da secoli ormai siamo abituati a pensare che ciò che facciamo dipenda da noi, dalla nostra scelta razionale e ponderata, e che chi prenda le decisioni non sia un “tumós” incontrollabile, ma l’io.
L'”io” nasce nella letteratura occidentale soltanto alla fine dell’Odissea. È la prima volta in assoluto che questa parola viene scritta: quando Ulisse, travestito da vagabondo, arriva nel proprio palazzo regale dopo un viaggio durato vent’anni, e assiste alla scena dei pretendenti di sua moglie che fanno scempio della sua dimora. Allora Il tumós comanda a Ulisse, colmo d’ira e di disprezzo, di togliersi il travestimento e ucciderli tutti, ed è in quel momento che una nuova forza si fa strada nella mente dell’eroe e in tutta la letteratura dell’occidente: l’io, che invece suggerisce di sopportare, accantonare la rabbia e aspettare il momento giusto per vendicarsi.
È così che nasce l’io. Come una forza in grado di porre un freno al tumós e alle emozioni. Come un’entità depositaria del controllo, un controllo che non è più dell’impulsività interna o degli interventi divini esterni, ma tutto dell’individuo e della sua mente.
Ecco perché l’Odissea comincia con la parola “Uomo” e non più con un’emozione: è l’io ciò che fa di noi uomini ciò che siamo, e non esiste concetto più moderno di questo.
Ma quali cambiamenti ha portato, nella nostra cultura, la scoperta dell’istanza dell’io? Basta osservare quanto siano cambiati i nostri atteggiamenti nei riguardi delle emozioni.
Se da un lato la scoperta dell’io ha condotto a idee rivoluzionarie come quella di razionalità, di individualità, di libero arbitrio, dall’altro le emozioni ne hanno risentito.
Nel corso dei secoli si sono affacciate sempre più correnti culturali e religiose con ideologie tese al ridimensionamento del valore delle emozioni, e alla demonizzazione di alcune di esse, come per quella dell’ odio.
Ad oggi, un poema come l’Iliade può risultarci troppo violento e tollerante nei confronti di un’emozione “negativa” come l’Ira: basti pensare a come essa sia bandita dalla nostra società, e che tutte le manifestazioni di rabbia estrema possano portare a conseguenze penali.
Ma non è quella l’unica emozione ad esser stata bandita: un esempio valido ci è fornito dal dolore, e in particolare dal pianto. Ci viene insegnato che piangere in pubblico è imbarazzante, e che quando si soffre è buona educazione non darlo a vedere, e rispondere “bene” quando qualcuno chiede “Come stai?”.
Questa regola sociale implicita tocca in particolare l’universo maschile: “i veri uomini non piangono”, “ha pianto come una femminuccia”, sono frasi che chiunque ha sentito dire almeno una volta.
Omero non la pensava così.In entrambi i poemi, il pianto di dolore era un’emozione importantissima e rituale.
Quando Ulisse racconta le pene che ha passato lungo i suoi anni in viaggio, tutti i guerrieri che lo ascoltano piangono intensamente, e chi non lo fa non è certamente ben visto: non ha empatizzato col dolore di Ulisse, dunque è un uomo meno profondo degli altri.
Quando un eroe muore in guerra, o quando viene annunciata una brutta notizia, tutti i presenti sono tenuti a piangere, lo detta il buon costume.
Le emozioni, per i Greci, erano qualcosa che non poteva assolutamente riguardare un solo individuo: erano contagiose. Erano onde, che fluttuavano, si alimentavano e crescevano nel loro percorso, e si abbattevano violentemente contro ogni cosa incontrassero sul loro cammino.
E non esisteva barriera tra un umano e l’altro, non esisteva più confine: l’emozione travolgeva chiunque senza lasciare scelta, rendendo tutti uguali, per esempio, davanti al dolore.
Nel mondo moderno, uno dei più grandi drammi è che ciascuno si sente solo di fronte al proprio dolore.
Esistono famiglie anaffettive, che educano inconsapevolmente i propri figli alla freddezza, e a non mostrare ciò che hanno dentro per apparire forti agli altri.
Queste persone crescono perdendo completamente il contatto con la propria essenza istintiva, col proprio “tumós”, e riducono le proprie emozioni a stati fisici o razionalizzazioni, cosa di cui la salute psichica risente.
Ci viene insegnato che piangere è umiliante, che la rabbia va sempre contenuta, che dobbiamo avere rispetto di chi ci impone una vita diversa da quella che vorremmo, se lo fa “per il nostro bene.”
Ogni giorno ascoltiamo centinaia di voci di persone care, capi politici e religiosi, media, che indirettamente ci dicono chi essere, cosa essere, come comportarci al meglio.
L’io è l’unica istanza accreditata, la razionalità è legge, e l’istinto è rimasto una cosa che associamo agli animali, o al massimo ai “pagani”, o a gruppi umani “meno civilizzati.” Forse, per essere davvero felici e liberi, dovremmo ritornare a quelle che sono state le nostre radici; dovremmo concederci, senza dimenticare di avere un io al controllo di ogni cosa, di mettere da parte questo controllo e lasciare più spazio alle nostre emozioni.
Le emozioni hanno sempre ragione, narrano dei nostri poemi interiori, ma anche l’ io ha altrettanta importanza che ci narra della nostra civiltà, e del rispetto, bisogna lasciarli dialogare, litigare e riconciliare in noi stessi. Tale dialogo rappresenta l’opportunità di salvare le differenze individuali e la socialità. È solo all’interno di un dialogo che l’emozione potrebbe farla franca, senza mietere vittime sociali.
Forse così facendo smetteremmo di sentirci soli quando soffriamo, o incompresi e repressi quando proviamo rabbia, e non ci vergogneremmo a correre per strada gridando di gioia e danzando quando siamo entusiasti di qualcosa.
Dovremmo recuperare un po’ di quella essenza istintiva e dirompente raccontata nei poemi omerici, e lasciare che essa ci unisca agli altri, in un rispecchiamento empatico intenso e arcaico, insito nella nostra natura.
gaia caputi
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