L’ ipocondria, calamita di continue attenzioni
Tutti conosciamo l’ipocondria: è una condizione caratterizzata da preoccupazione ricorrente di sviluppare patologie e malattie.
I pensieri di un ipocondriaco sono fortemente rivolti alle proprie sensazioni corporee e l’attenzione è spesso focalizzata sui sintomi.
Essi tendono ad essere equivocati e amplificati dalla paura di essere affetti da una patologia grave e che richiede l’attenzione di medici e specialisti.
L’ipocondria può anche essere rivolta ai propri cari: in quel caso l’individuo manifesta un’eccessiva reazione ansiosa di fronte a sintomatologie solitamente innocue presentate dai parenti o dagli amici.
Ma come si spiega questa preoccupazione? Cosa spinge una persona a percepire come così precaria la propria e l’altrui salute?Per un ipocondriaco, la vita è sempre appesa a un filo. Vive in un continuo senso di precarietà, fatta di insicurezze patologiche che rimandano a delle figure assenti non rassicuranti.
Ogni minuscola scossa sembra poter scatenare un terremoto e far precipitare il funambolo, e a volte il terrore di cadere prescinde le scosse stesse.
Il timore di ammalarsi “senza motivo” nasce dal timore di perdita di qualcosa di linfatico di se, nasce solitamente da bisogni inappagati antichi, giustificati da entità traumatiche, dei quali nel tempo si riesce ad archiviare l’immagine, il ricordo, ma non il vissuto emotivo.
Ogni evento traumatico si manifesta come denso di percezioni, sensazioni ed emozioni che si mescolano e aggrovigliano, rendendo il vissuto intenso e, in un certo senso, indelebile.
In questo intreccio entro il quale si esplicita il trauma, non si possono escludere i legami che la persona ha con i propri cari.
Sappiamo come l’emozione di un altro possa diventare la nostra, con grande facilità: tutti ci siamo commossi davanti a una scena triste di un film, non abbiamo saputo resistere a una risata contagiosa, o abbiamo provato rabbia verso chi ha offeso un nostro amico.
Allo stesso modo, soffriamo della sofferenza di chi amiamo, e, talvolta, ci ammaliamo in risposta alla sua malattia, o almeno, iniziamo a preoccuparci costantemente che accada.
Sono molti i casi di ipocondriaci che hanno iniziato a temere di ammalarsi qualche tempo dopo aver assistito al decorso della malattia di una persona cara, ma è nel contagio della sofferenza che sta il filo conduttore, è nel legame che unisce le due persone che spesso risiede la radice da cui cresce l’ipocondria.
Sono la gioia e il dolore ciò che non riusciamo a dimenticare di aver condiviso con qualcuno. Il dolore è a suo modo una forza attrattiva, unificante; se condiviso diventa un legame potente, che si propaga nello spazio dell’anima come l’eco in una grotta, e ritorna sempre uguale a se stesso anche col passare del tempo, continuando a tenerci legati a chi abbiamo amato anche se crediamo di aver archiviato il tutto.
Così quel dolore, l’angoscia provata al momento di un trauma o quella vista riflessa negli occhi dell’altro, rimangono impressi per molti anni, ma confinati nell’inconscio come dietro a una diga.
Se il trauma non viene affrontato, col tempo si accumulano come acqua dietro alla diga, ma lo fanno silenziosamente, in modo graduale, fino al momento in cui l’acqua diventa talmente tanta da essere incontenibile.
La sua energia ha bisogno di essere sfogata, incanalata, lasciata scorrere.
Per fare questo occorrerebbe affrontare il trauma di petto, ma questo suscita terrore in quanto significherebbe riviverlo in tutta la sua violenza.
Per questo, inconsapevolmente, la psiche sceglie di evitare questo confronto diretto, e riversa tutto su qualcosa di più semplice e che possa essere rassicurato: il corpo.
Una visita medica dà all’ipocondriaco una temporanea sensazione di serenità e controllo, un immediato sollievo, cosa che evidenzia come sia l’ansia, e non davvero il corpo, il cuore del problema.
La temporaneità e non la duratura del benessere prodotto della visita medica, viene data dal fatto del bisogno di voler soddisfare specifici bisogni unicamente di rassicurazione affettiva.
Le sue continue lamentele sintomatiche, calamitano attenzioni esterne continue.
La paura di ammalarsi diventerà una maschera dietro alla quale tutta l’angoscia connessa al trauma si nasconderà, così da potersi liberare senza mettere la psiche davanti al perenne ricordo dell’evento traumatico per il quale non esiste rassicurazione o conforto, almeno agli occhi dell’ipocondriaco.
Sarà solo quando verrà messo di fronte alla consapevolezza che l’impatto del trauma è ancora forte su di lui, che si libererà dalla maschera della malattia.
La scomparsa dell’ipocondria subentra con la piena accettazione dell’accaduto, della perdita, della sofferenza vissuta, o della presenza forte di legami capaci di trasmettere ancora gioia e dolore.
L’ipocondriaco guarisce quando smette di sentirsi funambolo, quando è pronto ad accettare a pieno l’essenza precaria e imprevedibile della vita, e davanti ad essa non si sente più terrorizzato dai possibili imprevisti, ma pieno di voglia di godersi con grinta e spensieratezza ogni momento, gestendo con più naturalezza i conflitti.
gaia caputi
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